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Le polemiche e le proteste contro l’impiego di agenti federali di vari corpi speciali in alcune città americane non hanno fatto nulla per convincere il presidente Trump a desistere da un’iniziativa gravemente lesiva dei diritti democratici e con ogni probabilità anti-costituzionale. Anzi, la Casa Bianca ha già preparato l’invio di centinaia di altre truppe per reprimere le manifestazioni contro la brutalità della polizia, a cominciare da Portland, nell’Oregon, da qualche settimana vero e proprio fulcro della rivolta e simbolo delle tensioni sociali che stanno iniziando a esplodere negli Stati Uniti.
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L’ordine di chiusura reciproco di due consolati deciso dai governi di Washington e Pechino ha suggellato un’altra settimana caratterizzata dall’inasprirsi dello scontro sino-americano. Oltre alla nuova diatriba, nei giorni scorsi è arrivata anche una durissima presa di posizione dell’amministrazione Trump che, tramite il segretario di Stato Pompeo, ha apertamente minacciato la rottura degli equilibri diplomatici degli ultimi quarant’anni con la Cina, spianando la strada a un possibile confronto di natura militare.
Nella mattinata di lunedì, le autorità cinesi hanno preso possesso del consolato USA nella città sud-occidentale di Chengdu, nella provincia di Sichuan, dopo l’ordine di evacuazione imposto venerdì ai diplomatici americani. L’iniziativa cinese, com’è noto, è la risposta a quella simile decisa martedì scorso dagli Stati Uniti. Per la Casa Bianca, la rappresentanza cinese a Houston, in Texas, era un centro di spionaggio e ne aveva ordinato perciò la chiusura con un preavviso di 72 ore.
Secondo alcune ricostruzioni in gran parte ignorate dai media ufficiali, la ragione immediata della misura estrema presa da Washington sarebbe tuttavia un’altra. Il governo USA aveva cioè rifiutato la richiesta delle autorità cinesi di sottoporre a test di positività al Coronavirus ed eventualmente a quarantena i diplomatici americani destinati a tornare a Wuhan dopo avere lasciato la Cina all’inizio dell’epidemia. I due governi stavano trattando sulle modalità del ritorno, come hanno spiegato alcuni media cinesi, ma la fermezza di Washington nel respingere i test e di Pechino nel ridurre al minimo il rischio di “casi di ritorno” hanno impedito una risoluzione dello stallo e innescato gli ordini di chiusura dei due consolati.
Dopo la chiusura della rappresentanza cinese di Houston, il dipartimento di Giustizia americano aveva anche incriminato quattro militari cinesi operanti in territorio USA e ritenuti agenti di intelligence sotto copertura. Uno di essi si era rifugiato nel consolato cinese di San Francisco, ma è stato in seguito arrestato assieme agli altri tre colleghi. Al di là delle ragioni immediate delle misure adottate da entrambi i governi nei giorni scorsi, la recente escalation indica un rapido scivolamento verso un conflitto sempre più aspro e forse nemmeno riconducibile a scenari esclusivamente da “guerra fredda”.
Il discorso pubblico di giovedì scorso del segretario di Stato Pompeo ha chiarito a sufficienza quali siano le basi della rivalità con Pechino e le intenzioni di Washington. L’ex direttore della CIA aveva annunciato il superamento del paradigma di “cieco coinvolgimento” della Cina, ovvero ha invocato un nuovo approccio alle ambizioni e all’allargamento dell’influenza cinese, basato non più sul dialogo o sul “contenimento”, bensì sulla messa in atto di politiche aggressive e unilaterali, possibilmente in stretta collaborazione con gli alleati americani.
Significativamente, Pompeo ha aperto una nuova fase del confronto con Pechino parlando dalla biblioteca intitolata all’ex presidente Nixon. Quest’ultimo, sotto la regia dell’allora consigliere per la Sicurezza Nazionale, Henry Kissinger, negli anni Settanta del secolo scorso aveva orchestrato la distensione con la Cina, principalmente in funzione anti-sovietica. Con l’intervento di qualche giorno fa, Pompeo ha dato notizia del fallimento di questo approccio, lanciando una battaglia per un “21esimo secolo di libertà” contro la prospettiva di un “secolo cinese” e una “nuova tirannia” di un regime definito “marxista-leninista”.
L’assurdità di quest’ultima affermazione è testimoniata dall’evoluzione stessa della Cina a partire proprio dall’incontro tra Nixon e Mao Zedong del 1972 e dalla ratifica delle piene relazioni diplomatiche tra i due paesi sette anni più tardi. Nei quattro decenni successivi, l’economia cinese si è infatti integrata nei circuiti del capitalismo internazionale, diventando prima un serbatoio di manodopera a basso costo per i paesi sviluppati e oggi una minaccia alla posizione dominante degli Stati Uniti. Ciò che costituisce una minaccia mortale per il capitalismo americano non sono né una Cina comunista, molto difficilmente definibile come tale, né tantomeno i metodi di un regime anti-democratico o “totalitario”, quanto l’emergere di questo paese come potenza globale.
Questa sfida agli interessi strategici USA è tanto più formidabile in quanto, da un lato, è lo specchio del declino del capitalismo americano e, dall’altro, deve essere combattuta da Washington in un panorama che vede la Cina pienamente coinvolta nel sistema economico e commerciale globale, con intrecci dall’importanza enorme anche con gli stessi Stati Uniti.
La vastità della sfida lanciata da Washington è tale da giustificare un altro degli elementi chiave del discorso di Pompeo. Il segretario di Stato USA ha sollecitato i propri alleati a fare una scelta di campo e a mettere da parte le ambiguità. Mentre finora molti paesi, compresi quelli dell’Europa occidentale, hanno cercato di trovare un punto di equilibrio tra i legami strategici e nell’ambito della “sicurezza” con l’alleato americano e quelli economico-commerciali con Pechino, l’irrigidimento delle posizioni degli Stati Uniti nei confronti della Cina renderà sempre più complicato un atteggiamento di questo genere.
Il deteriorarsi dei rapporti tra USA e Cina non è il risultato di presunte attività “maligne” di Pechino, quanto la diretta conseguenza della crisi economica, politica e sociale scatenata dall’epidemia di Coronavirus oltreoceano. La disperazione della classe dirigente americana di fronte all’accelerazione di dinamiche in atto da tempo ha portato a galla e rafforzato tendenze tutt’altro che nuove o limitate al Partito Repubblicano e alla cerchia dei “falchi” che consigliano il presidente Trump.
L’offensiva anti-cinese è infatti un affare interamente bipartisan a Washington ed era stata anzi l’amministrazione Obama a inaugurare quella “svolta” asiatica che ha messo in moto la macchina diplomatica e militare USA per cercare di ridimensionare le ambizioni di Pechino. Il candidato del Partito Democratico alla Casa Bianca, l’ex vicepresidente Joe Biden, in varie occasioni ha inoltre attaccato Trump da destra sulla Cina, lasciando intendere, se possibile, un ulteriore aumento delle pressioni su Pechino in caso di successo nelle elezioni di novembre.
Una cupa analisi dello stato delle relazioni sino-americane pubblicata nel fine settimana dal New York Times ha confermato i sentimenti sostanzialmente univoci dell’establishment degli Stati Uniti nei confronti del “dilemma” cinese. Le fonti citate dall’articolo testimoniano di questa situazione e disegnano un quadro nel quale il governo americano, “dal presidente Trump in giù”, intende fare dello “scontro, dell’intimidazione, dell’aggressione e dell’antagonismo” la cifra dei rapporti con la Cina, “indipendentemente da chi guiderà gli Stati Uniti il prossimo anno”.
Il messaggio recepito a Pechino non può essere più chiaro ed è stato d’altra parte rafforzato da una lunga serie di iniziative al limite dell’isteria prese a Washington negli ultimi mesi. L’elenco include almeno le accuse di avere tenuto inizialmente nascosta la gravità dell’epidemia di Coronavirus, la guerra contro Huawei, la denuncia, con annesse sanzioni, del trattamento della minoranza Uigura musulmana nello Xinjiang, la revoca dello status speciale di Hong Kong dopo il giro di vite contro le proteste, lo stop ai visti di ingresso negli USA per gli studenti legati alle forze armate cinesi e la recente presa di posizione ufficiale che ha dichiarato illegali tutte le rivendicazioni territoriali di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.
Se c’è una conclusione che può essere tratta dagli sviluppi più recenti, culminati nella chiusura dei consolati di Houston e Chengdu, è che ad oggi il rischio di una guerra aperta tra le prime due potenze del pianeta risulta più concreto che mai. A fugare qualsiasi dubbio in questo senso è stato, tra gli altri, il direttore dell’influente testata ufficiale in lingua inglese Global Times, Hu Xijin, il quale nel fine settimana dal suo account del social network cinese Weibo ha invitato il governo del suo paese a dotarsi in fretta di nuove armi nucleari, unico deterrente a suo dire in grado di “tenere l’arroganza americana al di sotto dei livelli di guardia”.
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- Scritto da Bianca Cerri
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Non era ancora completamente sorto il sole e Byron Williams pedalava diretto verso il centro di Las Vegas. Due poliziotti lo videro e si accorsero che uno dei fanalini di coda della bicicletta era rotto. Non era un grande problema e certamente Williams deve aver pensato che lo avrebbe risolto facilmente. Se un cittadino non ha addosso sostanze proibite ed è incensurato la polizia non può trattenerlo più di tanto. Invece i due agenti si dimostrarono più duri del previsto costringendo Williams a fermarsi tra un muretto e una piazzola d'emergenza. Sempre convinto che al massimo gli avrebbero fatto una multa Williams cercò di mantenere i toni più bassi possibile. Sicuramente non si aspettava di ritrovarsi buttato a terra con un collare a strozzo alla gola e il viso schiacciato verso sull'asfalto.
Gli mancava l'aria, non riusciva a respirare. Cercava di emettere suoni gutturali per invocare aiuto. Ci provò diciassette volte fino a quando perse conoscenza e morì. Ancora oggi la famiglia non è riuscita a capire il perché della tragedia toccata ad un uomo che mai era stato coinvolto in attività criminali. Tra il momento in cui Williams era uscito da casa e la morte per soffocamento era trascorsa a malapena un'ora. Pochi mesi dopo il mondo intero sarebbe stato sconvolto dalla pandemia. Ma di vittime di colore uccise da agenti di polizia assetati di sangue ce n'erano state prima e durante.
La morte di Williams ricorda quella di Eric Gardner, anche lui soffocato da un collare detentivo ma a New York, dove questi strumenti di tortura erano stati banditi da più di dieci anni. Quando era stato braccato da due agenti in borghese che lo avevano accusato di contrabbando di sigarette, Garner, un orticoltore che aveva ancora una lunga vita davanti a sé, tentò di far valere le sue ragioni e, a quel punto, venne arrestato e bloccato con un collare allo strozzo. Dopo un'ora di agonia Garner morì. Il medico legale certificò che si era trattato di omicidio. I casi di cittadini americani in stato di fermo temporaneo le cui ultime parole sono state “I can't breathe”, ovvero non riesco a respirare sono stati più di settanta negli ultimi cinque anni. I can't breathe sono state anche le ultime parole pronunciate da George Floyd e dopo di lui da Reyshard Brooks.
Solo la dopo morte di Floyd la gente e le aziende che avevano finto di ignorare la brutalità della polizia e le accorate frasi disperate che le vittime cercavano di pronunciare nell'imminenza della fine pare le abbiano risvegliate. I media hanno finalmente fatto emergere la storia di Javier Ambler, disarmato, che era appena sceso da una macchina dopo un inseguimento e subito bloccato da due agenti che gli avevano messo un collare che gli impediva di respirare. Nato a Houston, Ambler era reduce da una partita a carte con gli amici e stava tornando a casa nei pressi di Austin, dove risiedeva. Anche lui è morto dopo aver implorato I can't breath, una frase destinata a rimanere nell'immaginario collettivo degli americani e non solo.
In base a quanto dichiarato dalla sceriffo della contea di Chody Ambler procedeva a velocità sostenuta e non aveva rispettato uno stop. Bisogna dire che non tutte le morti per soffocamento causate dalla polizia sono state portate a termine dai micidiali collari a strozzo ma certo tutte sono state scatenate da motivi futili. Dopo essere stato ammanettato da agenti di polizia per aver superato il limite di velocità un altr0 afro americano fu strangolato con le mani. Christopher Doner è stato ripreso da un video purtroppo piuttosto frastagliato. Le grandi proteste scatenate dalla morte di George Floyd non c'erano state. Il caso di Floyd ha evidentemente risvegliato la coscienza sopita della gente.
C'è voluto un insieme di tragiche circostanze per riempire le piazze. Nessuno aveva alzato la voce per Manuel Ellis che lottava ogni giorno contro la propria tossicodipendenza ucciso per mano della polizia a Tacoma. Gli agenti lo hanno scaraventato a terra come un mucchio di immondizia. Nel video che registra la sua morte si vede un agente che butta Ellis sull'asfalto e un testimone ha poi confermato che l'uomo è stato picchiato selvaggiamente da più agenti. La stessa cosa è avvenuta con Derrick Scott bloccato dalle guardie con un collare a strozzo. Non posso respirare implorava Scott al quale erano state negate anche le medicine salvavita.
Residente ad Oklahoma City l'uomo era bloccato da almeno tre agenti. Per il giovane afro americano sono gli ultimi attimi di vita. Ha implorato che qualcuno venisse ad aiutarlo ma è stato legato e ogni sua richiesta di aiuto è stata ignorata. La madre di Scott è rimasta sconvolta dalle immagini del video. Le tecniche usate dalla polizia di Oklahoma City per contenere le persone fermate sono coerenti con gli insegnamenti dell'Accademia. C'è stato un certo scalpore per i casi di George Floyd e di pochi altri ed è un bene. Ma le vittime sconosciute sono ancora troppe.
Ogni caso è stato una squallida sequela di azioni disumane culminate con la morte di un essere umano inerme. Si tende a pensare che la brutalità della polizia riconduca inevitabilmente alla povertà. Invece ci sono state vittime provenienti da tutte le categorie sociali. Veterani di guerra, ingegneri. Atleti in erba a volte minori. Fisioterapisti.
Grossisti di carne. Musicisti. Homeless. Infermieri. Medici. Il colore di pelle è sempre, inevitabilmente, nero. Era ora che qualcosa si muovesse dice la gente implicando che il razzismo è sempre stato condonato in passato. Ma la polizia ha sempre usato gli stessi metodi e apparentemente nessuno ha intenzione di fare sforzi per cambiarli.
Derek Chauvin, l'assassino di George Floyd, era stato denunciato diciassette volte. Benché l'opinione pubblica stavolta si sia ribellata, è molto difficile schiacciare un ufficiale di polizia alle sue responsabilità. Hanno continuato a morire persone capitato per caso nel posto sbagliato. Le località possono essere diverse ma a chiunque può essere massacrato senza pietà da una guardia alzatasi con la luna storta. E morire dopo aver invocato I can't breathe col collo stretto da un collare inebetito da un taser mentre i colleghi stanno a guardare con un cappuccio che li ripara dagli sputi.
La pelle nera non ha mai contato nulla nella cultura americana. Neppure per quanto riguarda le donne. All'epoca della schiavitù le donne erano Jezabel affamate di sesso, già gravide appena raggiunta la pubertà. Nei '70 un film aveva reso popolare il personaggio di Sweetie, dieci anni, nata e cresciuta in un bordello che conosceva già tutte le tecniche amatorie più sofisticate. Fu proprio allora che iniziò la mattanza di bambine nere alla periferia di Washington, centro assoluto del potere.
La prima vittima fu Carole Spinks, 13 anni, uscita per fare una commissione e ritrovata morta sei giorni dopo. A Congress Hill l'otto luglio 1971 Darlenia Johnson, 16 anni, fu rapita mentre stava andando a lavorare. Il corpo era troppo decomposto per determinare le cause di morte. Venti giorni dopo, Brenda Crockett, che la mamma aveva mandato a fare una commissione, fu trovata senza vita. Brenda, dieci anni, aveva detto alla mamma che un bianco aveva tentato di portarla via. La notte fu ritrovata strangolata da una sciarpa leggera attorno al collo. Il primo ottobre Nenomposhia Yates, dodici anni, fu trovata anche lei strangolata a poca distanza dal luogo dove erano state trovate le altre e un poliziotto scoprì il corpo di Brenda Woodward. Qualcuno le aveva infilato un biglietto in tasca che accusava le persone di insensibilità e specialmente le donne. Sembrava essere stato ritagliato da un quaderno di scuola.
Molti pensarono - e quelli ancora vivi pensano - che ad uccidere le sei ragazze siano stati dei poliziotti. Il tempo continua a passare ma spesso distrugge la vita delle donne. Quello che fa infuriare è che in alcuni casi la copertura mediatica di donne giovani e belle come Natalie Holloway è stata straordinaria. Nessuno aveva mai sentito di parlare di LaToya Figueroa o Evelyn Hernandez, entrambe di 24 anni. La violenza contro le donne è una tragedia qualunque sia il colore della pelle. Ma l'attenzione che i media dedicano alle vittime bianche e fisicamente attraenti è la peggiore forma di razzismo dell'epoca attuale. Seconda solo alle uccisione impunita di tanti maschi neri ammazzati implorando di poter respirare.
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Un atteso rapporto del parlamento britannico sulle presunte interferenze russe nel referendum sulla Brexit del 2016 è stato prevedibilmente utilizzato questa settimana da Londra per lanciare una nuova linea d’attacco contro il Cremlino. La polemica che ne è scaturita ha coinvolto il governo conservatore di Boris Johnson e i due che lo hanno preceduto, tutti accusati di non avere indagato a sufficienza sulle manovre di Mosca, nonostante di queste ultime non sia emersa una sola prova concreta.
Praticamente tutti i giornali “ufficiali” d’oltremanica già dai titoli hanno proposto un’interpretazione fuorviante dei risultati dello studio condotto dalla commissione Intelligence e Sicurezza della Camera dei Comuni. In breve, a partire dal governo Cameron nel 2016, tutti i leader avvicendatisi a Downing Street avrebbero ignorato una montagna di indizi sulle operazioni clandestine della Russia per influenzare il risultato della consultazione che decise l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.
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Con i sondaggi che indicano un crollo dei consensi a poco più di tre mesi dalle elezioni, il presidente americano Trump continua a dare segnali di estremo nervosismo, riproponendo ricostruzioni immaginarie della realtà odierna degli Stati Uniti e minacciando una serie di iniziative profondamente anti-democratiche. In un’intervista del fine settimana, Trump è tornato ad esempio a ipotizzare il rifiuto di un’eventuale sconfitta nel voto di novembre, a conferma del tentativo in atto, in parallelo all’aggravarsi della crisi politica che stringe d’assedio la Casa Bianca, di mobilitare i suoi sostenitori di estrema destra e almeno una parte dell’apparato militare e della sicurezza nazionale.