I movimenti sul fronte diplomatico degli ultimi giorni hanno suscitato timide aspettative per il possibile ritorno di Washington e Teheran al rispetto integrale dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015 (JCPOA). L’amministrazione Biden ha in particolare rotto gli indugi, sia pure in maniera prudente, segnalando la propria disponibilità a negoziare una soluzione allo stallo provocato da Trump ormai quasi tre anni fa. L’Iran, da parte sua, nel fine settimana ha attenuato gli effetti di una legge domestica che sta per entrare in vigore sui limiti alla collaborazione con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA).

 

Gli ostacoli restano tuttavia formidabili e i tempi piuttosto stretti. Il problema principale continua a essere rappresentato dalle reali intenzioni degli Stati Uniti, soprattutto se insisteranno nel chiedere alla Repubblica Islamica condizioni oggettivamente inaccettabili per resuscitare l’accordo di Vienna. Resta comunque il fatto che negli ultimi giorni si sono registrati sviluppi di un qualche rilievo, in grado cioè quanto meno di aprire la strada a una trattativa tra USA e Iran.

Settimana scorsa, per cominciare, il segretario di Stato americano, Anthony Blinken, ha dichiarato ufficialmente che il suo governo è pronto a unirsi ai paesi europei firmatari del JCPOA – Francia, Gran Bretagna, Germania – per riaprire i canali diplomatici necessari a rimettere in carreggiata l’accordo stesso. A quella che la stampa occidentale ha definito come la prima vera offerta di dialogo fatta da Washington a Teheran in più di quattro anni, le autorità iraniane non hanno ancora risposto. Nel paese mediorientale ci sono d’altra parte profonde divisioni sul comportamento da tenere verso gli Stati Uniti e la vicinanza delle elezioni presidenziali, che vedono favoriti i “conservatori”, potrebbe non favorire il clima diplomatico.

Il governo del presidente Rouhani ha però mandato un segnale abbastanza chiaro nel fine settimana, quando ha fatto sapere di avere concordato con l’AIEA un protocollo temporaneo in merito alle ispezioni nei propri siti nucleari giudicato da molti come il tentativo di tenere aperta una finestra per il dialogo con Washington. Secondo la già ricordata legge approvata lo scorso anno dal parlamento iraniano, il governo di Teheran era obbligato a sospendere le ispezioni internazionali – previste dal JCPOA – se entro il 23 febbraio non fossero state cancellate le sanzioni reimposte da Trump.

Alla vigilia della scadenza, il governo di Rouhani ha così raggiunto un’intesa con l’AIEA che costituisce un compromesso per accontentare, almeno per qualche settimana, sia gli ambienti iraniani anti-americani sia i propri interlocutori in Occidente. L’Iran, come minacciato, terminerà questa settimana quanto previsto dal cosiddetto “Protocollo Addizionale”, sottoscritto assieme al JCPOA e che consente agli ispettori internazionali di visitare senza preavviso qualsiasi sito non dichiarato dove potrebbe essere in corso qualche attività legata al nucleare.

Il direttore dell’AIEA, Rafael Grossi, ha tuttavia precisato che Teheran intende continuare a garantire per i prossimi tre mesi le ispezioni e tutte le operazioni connesse ai controlli all’interno dei siti dichiarati. Il New York Times ha commentato questi ultimi sviluppi evidenziando che l’AIEA e la Casa Bianca vogliono evitare di caratterizzare le nuove restrizioni come un elemento che possa precipitare una crisi nei rapporti tra i due paesi.

Fermo restando che tutte le parti in causa, al di là delle dichiarazioni ufficiali, sono perfettamente a conoscenza del fatto che non esiste alcuna condizione per cui l’Iran intenda intraprendere la strada del nucleare a scopi militari, sembra chiara la volontà dell’amministrazione Biden e dei “moderati” a Teheran di creare le condizioni per intavolare una trattativa. Lo stesso Grossi ha collegato l’intesa raggiunta con la Repubblica Islamica nel fine settimana a questa ipotesi. Il numero uno dell’AIEA ha affermato che il compromesso di tre mesi rappresenta una soluzione-ponte per “salvare la situazione” nell’immediato. Per giungere a una “situazione sostenibile” nel lungo periodo, ha aggiunto Grossi, servirà invece un “negoziato politico” che non compete però all’agenzia delle Nazioni Unite.

La vera incognita per la sorte del JCPOA è dunque sempre la decisione che prenderanno gli Stati Uniti. Il consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente, Jake Sullivan, in un’intervista rilasciata domenica alla CBS ha provato a cambiare le carte in tavola e attribuire la responsabilità della prossima mossa all’Iran. Non è da escludere in effetti che Rouhani e il suo ministro degli Esteri Zarif, entrambi vicini alla fine dei rispettivi mandati, possano rispondere positivamente alle “aperture” americane, ma se si considera la sostanza della questione è sempre da Washington che dovrebbe arrivare una scelta decisa e, soprattutto, onesta per sbloccare l’impasse del nucleare iraniano.

Nonostante la Repubblica Islamica continui a essere accusata di violare i termini dell’accordo, attraverso il superamento del livello di arricchimento dell’uranio ad uso civile, quello che è accaduto negli ultimi mesi è unicamente la conseguenza delle azioni americane. La responsabilità del naufragio del JCPOA è tutta dell’amministrazione Trump, mentre l’abbandono di alcuni vincoli previsti dall’accordo di Vienna da parte iraniana appare del tutto legittimo, tanto più se si considera che quest’ultima decisione era stata presa dopo avere atteso invano misure da parte dei governi europei per neutralizzare l’impatto delle sanzioni reintrodotte da Washington.

In violazione del JCPOA sono dunque gli USA e le manovre per rimbalzare le responsabilità della situazione odierna hanno un senso solo nella prospettiva falsata della stampa “mainstream”. Se fosse genuinamente interessato a un ritorno puro e semplice allo status quo precedente la decisione unilaterale di Trump del maggio 2018, Biden dovrebbe soltanto dichiarare il rientro degli Stati Uniti nell’accordo e cancellare le sanzioni reimposte da allora. Subito dopo, come ha più volte garantito, l’Iran tornerebbe a rispettare tutte le condizioni previste dal JCPOA.

Ciò non accade sostanzialmente per due ragioni, oltre a quella relativamente secondaria dell’immagine di una super-potenza che non può mostrare cedimenti di fronte a un nemico. La prima ha a che fare con le pressioni e le eventuali reazioni di coloro che si oppongono a qualsiasi apertura all’Iran, sia sul fronte interno sia per quanto riguarda gli alleati. Soprattutto Israele, ma anche Arabia Saudita e altri regimi del Golfo Persico, continuano a tramare per impedire il ritorno degli USA nel JCPOA, con ogni probabilità anche facendo leva sugli ambienti che sostengono le loro ragioni a Washington.

L’altro motivo è da ricercare nella strategia negoziale della stessa amministrazione Biden. Dietro alle esitazioni e all’apparente fermezza del neo-presidente e del suo segretario di Stato c’è il tentativo di convincere l’Iran a mettere sul tavolo altre questioni in aggiunta a quella del nucleare. La prima e più importante è quella dei missili convenzionali di Teheran. Gli Stati Uniti vorrebbero ottenere un congelamento o un drastico ridimensionamento del programma missilistico iraniano, ma da Teheran ciò viene categoricamente escluso, come era già stato fatto durante le trattative che portarono all’accordo di Vienna nel 2015.

La richiesta americana a questo proposito è a dir poco disonesta e rischia di far saltare sul nascere qualsiasi spiraglio di dialogo. I missili iraniani sono a puro scopo difensivo e assolutamente indispensabili in uno scenario regionale minaccioso per un paese che, rispetto ai suoi nemici, non può contare su forze aeree moderne ed efficaci, a causa in primo luogo delle misure punitive imposte negli ultimi decenni. A ben vedere, la stessa richiesta americana di trattare sulla sorte dei missili iraniani nasconde l’intenzione di indebolire le difese della Repubblica Islamica, così da facilitare un’aggressione militare quando, in futuro, questa opzione sarà ritenuta percorribile e attivabile con una provocazione qualsiasi.

Per il momento, i segnali di distensione – diretti e indiretti – sembrano essere molteplici. Solo considerando quelli più recenti, sono almeno due i più significativi. Da parte americana è stato reso noto che gli USA sono già in contatto con Teheran per ottenere la liberazione dei propri cittadini detenuti nelle carceri iraniane. Il ministro degli Esteri della Repubblica Islamica, invece, ha assicurato che il suo paese è pronto a discutere la normalizzazione dei rapporti con i paesi del Golfo “senza condizioni preliminari”.

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