La crisi che sta vivendo la Bielorussia a partire dalle controverse elezioni del 9 agosto scorso sembra essere sempre più vicina a sfuggire di mano al presidente, Alexander Lukashenko. Le frustrazioni diffuse tra la popolazione del paese dell’ex URSS appaiono più che legittime e in grado di mobilitare, in maniera cruciale, ampie fasce di lavoratori dell’industria locale, in gran parte ancora in mano pubblica. Il controllo delle proteste, tuttavia, è stato quasi subito assunto dall’opposizione anti-russa e filo-occidentale, facendo dello stallo in corso un nuovo terreno di confronto sul piano strategico tra Mosca, da una parte, e l’Occidente e gli alleati dell’Europa orientale dall’altra.

Nel fine settimana, un’altra massiccia manifestazione è andata in scena nella capitale bielorussa, Minsk, dove i dimostranti che chiedono le dimissioni di Lukashenko e nuove elezioni sono arrivati fino alla residenza ufficiale del presidente, in carica da oltre un quarto di secolo. Secondo una stima della Reuters, domenica i manifestanti potevano essere fino a 200 mila, mentre per la televisione pubblica bielorussa appena 20 mila.

La scelta della candidata alla vice-presidenza da parte di Joe Biden è ricaduta prevedibilmente su una delle principali personalità politiche di colore del Partito Democratico. Con la senatrice della California, Kamala Harris, l’ex vice di Obama ha sostanzialmente confermato le due direttive lungo le quali si svilupperà la sua campagna per cercare di battere Trump da qui a novembre: rimettere al centro dell’azione politica gli interessi del “Deep State” minacciato dall’attuale amministrazione e promuovere politiche identitarie e razziali per dare una patina di finto progressismo alla candidatura del “ticket” democratico.

55 anni con padre giamaicano e madre Tamil, Kamala Harris era stata fino alla fine del 2019 essa stessa una dei candidati alla nomination del Partito Democratico, ostentando spesso feroci attacchi verbali contro Joe Biden. Nella sua carriera politica e in quella ancora più lunga da procuratore nel suo stato di origine non vi è nulla di realmente progressista, se non occasionalmente nella retorica. Ciononostante, il solo fatto di appartenere a una minoranza etnica rappresenterebbe per i democratici e i media ufficiali a essi vicini un evento di portata storica e potenzialmente in grado di aprire un percorso riformista per la società USA.

La scelta della senatrice Harris ha in parte a che fare con le dinamiche elettorali all’interno del Partito Democratico, ancora una volta da collegare all’autentica ossessione per il fattore razziale degli ambienti “liberal” d’oltreoceano. Dopo le prime pesantissime sconfitte nelle primarie a inizio anno, Biden era riuscito a rimettere in piedi la propria campagna per la Casa Bianca e a fermare la corsa di Bernie Sanders grazie soprattutto alla mobilitazione dell’establishment democratico di colore. L’ex vice-presidente aveva così conquistato la South Carolina con il contributo decisivo dell’elettorato afro-americano, verso cui la selezione nella giornata di martedì di Kamala Harris è un evidente segnale per ottenerne l’appoggio anche a novembre.

Ancora di più, come accennato in precedenza, la presenza della senatrice californiana nel “ticket” democratico serve a fare appello a quella fetta di potenziali elettori democratici della classe media più sensibili alle questioni di identità razziale che di classe. Inoltre, la candidatura di una donna di colore, cioè una novità assoluta per gli Stati Uniti, strizza l’occhio a coloro che sono scesi nelle strade di centinaia di città americane dopo l’omicidio di George Floyd nel mese di maggio per protestare contro la brutalità della polizia.

Per l’età e le precarie condizioni soprattutto di salute mentale del candidato democratico alla Casa Bianca, nella prossima amministrazione la Harris potrebbe finire per ricoprire un ruolo decisamente più rilevante rispetto a quello solitamente riservato al vice-presidente. La carica per cui sarà candidata potrebbe poi con ogni probabilità servire come trampolino di lancio per una corsa alla presidenza tra quattro o otto anni, portando a compimento una transizione “moderata” nella leadership democratica, tuttora in mano a una vera e propria gerontocrazia.

Al di là delle apparenze, la traiettoria politica di Kamala Harris è perfettamente in linea con quella del 77enne Joe Biden, di fatto uno dei politici democratici con il curriculum più reazionario degli ultimi quattro decenni. La Harris è una frequentatrice degli ambienti di potere più esclusivi della California settentrionale, dove aveva iniziato a farsi largo nei primi anni Novanta del secolo scorso. Anche grazie al suo matrimonio con il noto avvocato di corporations e dell’industria dell’intrattenimento di Hollywood, Douglas Emhoff, la candidata democratica è posizionata inoltre saldamente tra lo 0,1% degli americani più facoltosi.

Prima come vice-procuratore distrettuale della contea di Alameda, che include la metropoli di Oakland nella “Bay Area”, e poi procuratore a San Francisco, la futura senatrice si è sempre distinta per la difesa di iniziative “law and order”. Nel 2004 si candidò con successo per diventare procuratore generale della California, conducendo una campagna multi-milionaria contro il detentore della carica, Terence Hallinan, notoriamente collegato agli ambienti radicali e del sindacato dello stato.

Il sostegno del business e degli ambienti ufficiali del potere democratico in California, incluse le potenti donne che siedono o sedevano al Congresso di Washington (Nancy Pelosi, Dianne Feinstein, Barbara Boxer), è stato decisivo nell’ascesa politica della neo-candidata alla vice-presidenza. Nel 2016 arrivò così il seggio al Senato degli Stati Uniti e i leader del partito, sempre nell’ottica della promozione di politiche identitarie, le assegnarono posizioni di rilievo in commissioni importanti, solitamente off-limits per i neo-eletti.

L’insistenza sul rilievo della scelta di una donna di colore come “running mate” serve anche a far parlare il meno possibile dei precedenti di Kamala Harris nel suo ruolo di procuratrice in California. Durante il suo mandato a San Francisco, il tasso di condanne salì in modo vertiginoso ed è ampiamente documentato il suo frequente ricorso a metodi moralmente discutibili e dalla dubbia legalità per prevalere in aula. Nel 2012, ad esempio, un tribunale californiano sentenziò che l’ufficio del procuratore, diretto da Kamala Harris, aveva violato ripetutamente i diritti degli imputati, tenendo nascoste informazioni cruciali sulla condotta di un laboratorio della polizia scientifica coinvolto in casi di corruzione e di falsificazione dei rapporti stilati per numerosi processi.

Da procuratore generale della California, infine, la Harris ha proseguito la sua battaglia contro i diritti degli accusati e in difesa dell’apparato giudiziario e del sistema ultra-vendicativo dello stato. La senatrice si era schierata ad esempio contro le sentenze di condanna del regime carcerario californiano, tristemente noto per il sovraffollamento e gli abusi inflitti ai detenuti. Stessa posizione critica la Harris avrebbe tenuto anche nei confronti di un verdetto di un tribunale distrettuale che aveva dichiarato sostanzialmente anticostituzionale la legge dello stato sulla pena di morte.

In generale, la scelta di Kamala Harris costituisce una garanzia per i grandi interessi difesi dal Partito Democratico che un’eventuale presidenza Biden metterà da parte in fretta gli eccessi e gli elementi destabilizzanti, soprattutto sul piano internazionale, che hanno caratterizzato la presidenza Trump. In parallelo, l’enfasi sul genere e sull’appartenenza razziale della possibile vice-presidente sarà l’elemento centrale, assieme al patetico allineamento della “sinistra” del partito rappresentata da Bernie Sanders, per contenere le tensioni che minacciano un’autentica esplosione sociale in un paese dalle disuguaglianze gigantesche e in profonda crisi economica.

A questo proposito, la Harris risulterà utile anche per agitare alcune proposte entrate nella piattaforma programmatica del Partito Democratico dal vago orientamento progressista. Proprio per ritagliarsi uno spazio nelle affollate primarie del partito, la senatrice della California nel 2019 aveva appoggiato qualche iniziativa avanzata dai candidati più a “sinistra”, come Sanders e Elizabeth Warren, sia pure quasi sempre in una versione più moderata.

Il sostegno alla creazione di un piano sanitario pubblico da affiancare alle assicurazioni private o l’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora ne sono un esempio, anche se entrambi inadeguati a risolvere due dei problemi più gravi della società USA e, oltretutto, con poca o nessuna possibilità di essere adottati anche in caso di un successo a valanga dei democratici nelle elezioni di novembre.

La candidatura di Kamala Harris, così come quella di Joe Biden, verrà formalizzata nel corso della convention che il Partito Democratico terrà in gran parte in maniera virtuale a partire da lunedì prossimo a Milwaukee, nello stato del Wisconsin. L’evento dovrebbe segnare anche un’accelerazione delle donazioni dei grandi finanziatori che sostengono il partito. Già nelle ultime settimane, d’altra parte, i media americani hanno dato notizia del crescente impegno soprattutto di Wall Street per Biden, a conferma che gli orientamenti della classe dirigente USA appaiono sempre più favorevoli al “ticket” presidenziale appena completato, che promette di essere tra i più reazionari della storia del Partito Democratico.

Le tremende esplosioni che hanno squarciato il porto di Beirut appaiono, man mano che i giorni passano e le parole s’intrecciano, sempre meno fatalità e sempre più volontà precisa di qualcuno. A confermare questa lettura ci sono interessi evidenti e specifiche tecniche difficili da confutare. Il racconto della fabbrica di fuochi d’artificio non ha retto; nessuno dotato di un minimo si logica e di senno installa una fabbrica di fuochi pirotecnici in un’area ad alto traffico di persone e merci. Allora,vista la scarsa credibilità di questa pista, in soccorso del depistaggio internazionale è arrivata la storia della nave ormeggiata in porto (ovviamente russa, ma solo perché non vi sono navi cinesi che operano in zona).

Mentre da una parte il governo americano impone sanzioni economiche pesantissime alla popolazione siriana, dall’altra continua a muoversi per rubare letteralmente le risorse energetiche del paese mediorientale. L’amministrazione Trump ha conservato un contingente militare nel nord-est della Siria, con l’obiettivo principale, secondo quanto ammesso dallo stesso presidente, di mettere le mani sui pozzi petroliferi appartenenti a Damasco. Nei giorni scorsi, perciò, sono stati in pochi a sorprendersi della notizia di un accordo palesemente illegale che ha ratificato il furto di petrolio, col rischio oltretutto di far precipitare di nuovo i rapporti tra Stati Uniti e Turchia.


Il Dipartimento di Stato USA e la Casa Bianca hanno di fatto orchestrato un’operazione che, ufficialmente, ha visto i leader delle cosiddette Forze Democratiche Siriane (SDF), a maggioranza curda, stipulare un accordo con la compagnia petrolifera americana Delta Crescent Energy per estrarre greggio, raffinarlo e, per la quota eccedente i bisogni locali, esportarlo sul mercato internazionale.


Circa il 70% dei giacimenti petroliferi siriani è situato nel territorio controllato dalle milizie curde conosciute col nome di Unità di Protezione Popolare (YPG) e che dominano le SDF. I curdi nel nord-est della Siria sono appoggiati dagli Stati Uniti e sono anzi la forza su cui Washington punta per promuovere i propri interessi nel paese, cioè, in definitiva, per cercare di rimuovere il governo di Assad. Prima dello scoppio del conflitto, alimentato dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente, la Siria produceva circa 380 mila barili di petrolio al giorno.


Sull’accordo per lo sfruttamento petrolifero, il governo USA aveva mantenuto un comprensibile riserbo, vista l’illegalità di esso e gli imbarazzi che ha poi effettivamente creato sul fronte diplomatico. Giovedì scorso la notizia aveva però iniziato a trapelare dopo che era emersa nel corso di un’audizione al Senato del segretario di Stato, Mike Pompeo.


In quella circostanza, il senatore repubblicano Lindsey Graham aveva rivelato che il comandante delle SDF, Mazloum Abdi, lo aveva informato di un accordo petrolifero con una compagnia americana non meglio identificata per “modernizzare i pozzi nel nord-est della Siria”. Graham aveva allora chiesto a Pompeo se l’amministrazione Trump appoggiava l’intesa e l’ex direttore della CIA aveva subito risposto affermativamente. A conferma del ruolo determinante svolto dalla Casa Bianca, Pompeo aveva poi aggiunto che il raggiungimento di un accordo aveva richiesto più tempo del previsto e che il governo USA si sta ora adoperando per la sua implementazione.


A livello ufficiale, Washington sostiene che il controllo della produzione e dell’esportazione di greggio nella Siria nord-orientale serve a garantire ai curdi i mezzi per il sostentamento della popolazione locale e per combattere su tre fronti, contro ciò che resta dello Stato Islamico (ISIS), le forze di Damasco e quelle turche. In realtà, si tratta di un puro e semplice furto di risorse che appartengono al governo legittimo della Siria. L’autonomia delle forze curde non è in alcun modo riconosciuta da Damasco, tantomeno per quanto riguarda la gestione del petrolio, e il contingente militare americano continua a occupare in modo del tutto illegittimo e illegale questa porzione di territorio siriano.


La reazione del governo di Assad alla notizia dell’accordo tra i curdi e Delta Crescent Energy è stata comprensibilmente molto dura. “L’accordo è nullo e non ha alcun fondamento legale” ha affermato correttamente il comunicato emesso da Damasco. Ciò che è accaduto nei giorni scorsi è secondo Assad un “accordo tra le SDF e una compagnia petrolifera americana per rubare il petrolio siriano con il sostegno dell’amministrazione USA”. Le milizie curde siriane avevano sottratto all’ISIS i pozzi petroliferi alcuni anni fa e, con il contributo militare americano, hanno in seguito respinto svariati tentativi delle forze governative di riconquistarne il legittimo controllo.


In una dichiarazione rilasciata alla testata on-line Politico, uno degli amministratori di Delta Crescent Energy, James Cain, ha confermato la regia dell’amministrazione Trump e abbozzato i contorni di un’operazione condotta come se il territorio siriano fosse poco più di un protettorato di Washington. Cain ha spiegato come la sua compagnia si sia impegnata a “tenere informato il dipartimento di Stato” circa l’andamento delle trattative con i curdi e, pur “non cercandone l’approvazione”, lo scrupolo è stato quello di agire “secondo gli interessi americani”.


L’idea che il petrolio siriano appartenga al popolo di questo paese e debba essere controllato dal governo di Damasco non ha dunque sfiorato i vertici di Delta Crescent Energy. Che la Casa Bianca e il dipartimento di Stato abbiano scelto questa compagnia poco conosciuta e di importanza decisamente minore rispetto ai colossi petroliferi USA non è un caso. L’operazione risponde d’altra parte a interessi diplomatici e strategici ancora prima che commerciali e Delta Crescent Energy era il candidato ideale per portarla a termine.


La compagnia è stata creata nel paradiso fiscale del Delaware nel febbraio 2019 e ha tra i suoi “partner” alcuni ex esponenti dell’apparato militare e diplomatico americano, come il già citato James Cain, ex ambasciatore USA in Danimarca, e James Reese, ex ufficiale dei corpi speciali Delta Force dell’esercito americano. Agendo con ogni probabilità su indicazione del dipartimento di Stato, i vertici della compagnia hanno negoziato per oltre un anno con i curdi, per poi ottenere una “licenza” dal Tesoro americano lo scorso mese di aprile.


L’atteggiamento degli Stati Uniti in Siria continua dunque a essere tutt’altro che all’insegna del disimpegno, come sostengono alcuni ambienti di potere a Washington critici dell’amministrazione Trump. Lo scorso mese di luglio era entrato ad esempio in vigore anche il cosiddetto “Caesar Act”, una legge che impone sanzioni estremamente dure contro le compagnie siriane e quelle di altri paesi che intendono intrattenere rapporti commerciali e finanziari con Damasco.
L’iniziativa, volta a strangolare l’economia della Siria, è in sostanza una nuova punizione per la resistenza del governo di Assad contro la guerra condotta senza successo sotto la regia americana nell’ultimo decennio. Oltre a impedire virtualmente le transazioni commerciali, con l’obiettivo di affamare la popolazione siriana e fomentare una rivolta contro il governo, gli Stati Uniti hanno così ratificato anche il furto sistematico di una delle principali fonti di entrate del paese, come appunto il petrolio.


L’accordo tra i curdi siriani e la compagnia Delta Crescent Energy rischia in ogni caso di incrinare nuovamente i rapporti tra Stati Uniti e Turchia, dopo che negli ultimi mesi si era registrata una certa distensione in conseguenza soprattutto delle frizioni tra Ankara e Mosca sul fronte libico. Com’è noto, la Turchia considera i curdi dell’YPG un’organizzazione terroristica legata al PKK e praticamente tutta la politica siriana del presidente Erdogan è rivolta a impedire la formazione di un’entità curda autonoma nel nord della Siria. Dall’agosto del 2016, la Turchia ha condotto tre operazioni militari oltre il confine siriano, tutte dirette contro la minaccia del “terrorismo” curdo.


Il ministero degli Esteri turco ha condannato senza mezzi termini l’accordo petrolifero dei giorni scorsi. Con esso, secondo Ankara, gli Stati Uniti sono complici nel “finanziamento del terrorismo” e, essendo illegale dal punto di vista del diritto internazionale, costituisce una minaccia all’integrità territoriale, all’unità e alla sovranità della Siria. Il possibile riaccendersi dello scontro tra USA e Turchia sul nodo curdo-siriano introduce così una nuova complicazione in una relazione tra alleati già più volte sull’orlo del baratro negli ultimi anni, fornendo a Mosca e Damasco un potenziale appoggio strategico per provare a riconquistare finalmente il territorio siriano che ancora sfugge al completo e legittimo controllo del governo di Assad.

Un misterioso scontro tra Israele e Hezbollah al confine meridionale libanese ha mostrato in questi giorni quanti e di quale gravità siano gli scenari caldi in Medio Oriente che minacciano di fare esplodere una conflagrazione generale in qualsiasi momento. Lo scontro, finora più verbale che materiale, ha anche fatto luce sulla delicata situazione del governo di coalizione di Tel Aviv, costretto a fare i conti con la seconda ondata del Coronavirus e dibattuto tra le velleità di contenere il cosiddetto “asse della Resistenza” sciita e i timori di innescare una guerra di cui a pagare il conto più salato potrebbe essere forse lo stesso stato ebraico.


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