Gli anniversari vanno sempre celebrati con sorrisi e calici. In alcuni casi, tendono ad essere solo leve della memoria, ma a volte, per scelta o per caso, diventano ricordi che annunciano. Nel caso del Nicaragua, il 19 luglio è un ricordo e un progetto, lo svolgersi di una storia incredibile e un sogno credibile.

I 41 anni della Rivoluzione vanno raccontati incrociandoli con la storia nazionale, perché la storia del Frente Sandinista è la storia del Nicaragua. Sia quella dell'eroismo, dell'abnegazione, della lotta, della resistenza, del progetto che quella di lutti e vittorie, di dolori acuti e gioie indescrivibili, di identità nascoste e rivelate. È storia di magia e di arte, di sfide impossibili e scommesse folli, di sogni ad occhi aperti.

Tutto e per sempre cambiò il 19 luglio 1979, non solo l'arena politica. All’entrata a  Managua delle colonne della guerriglia, l'ingiustizia cercava una via di fuga, perché i giusti marciavano spediti. Nei mercati, nelle strade, nelle scuole, nei corridoi degli ospedali, si respirava la fine della notte oscura del somozismo. Le donne, gli uomini, le speranze, i sogni; persino gli sguardi, il ridere, divennero meravigliosamente insistenti e disordinati, sfacciati e provocatori. La tristezza e l'abbandono divennero fuori luogo, si decretò illegale il tradimento e vergognose la resa e la rinuncia. La parola Patria si fece largo senza pudore alcuno.

La Rivoluzione Sandinista non solo ha stabilito leggi e norme, diritti e doveri, priorità e missioni: ha cambiato i costumi nazionali, la logica, le argomentazioni e il senso comune. Usando le categorie della semiotica, si potrebbe dire che il significato di una rivoluzione, che vede la trasformazione globale del testo e del contesto, nel caso del Sandinista Nicaragua ha avuto pieno riscontro.

I 41 anni del Sandinismo si possono anche contare nelle cifre concrete del governare, i numeri non mentono. Dal 1979 è in corso il progetto per la costruzione della nuova Nicaragua. Fu rallentata e parzialmente interrotta dalla guerra mercenaria degli anni 80. La via della liberazione era inconcepibile per i teorici del razzismo e del saccheggio.

Alfabetizzato, sano e con pari diritti, il Nicaragua divenne pseudonimo di dignità.

Il sandinismo, mai sconfitto e mai domo, soffiò come un vento di libertà e dignità, tracciando il confine tra indipendenza e annessionismo. Dovette difendersi e con dolcezza ma allo stesso tempo con durezza, riprodusse la legge biblica di Davide contro Golia, con parole che diventarono armi e il potente armamento della ragione. Per la terza volta nella storia, protetto dal suo popolo in armi e dal diritto internazionale, l’Fsln spiegò con il suo sangue agli Stati Uniti che il Nicaragua non è terra di conquista. Gli indios si mangiarono los cheles: i cachorros dalla pelle più scura e i grandi occhi neri sfidavano i mercenari e gli invasori biondi dagli occhi azzurri, trascinandoli legati con una corda davanti alla legge nicaraguense e internazionale.

Questi 41 anni sono stati forgiati in diverse fasi. Ricostruire, progettare e difendere il nuovo Nicaragua è stata la storia dei primi dieci, quando la guerra impose lutti e sofferenze, orgoglio patriottico e sfide, tattiche e strategie, rivendicazioni e audacia. Dopo dieci anni di guerra vi fu la sconfitta elettorale, conclusione inevitabile quando si vota con la pistola alla testa. Ma nel contempo, accettando un verdetto che poteva essere respinto, il FSLN proclamò la democrazia raggiunta e non più sopprimibile. Perché anche quando si subisce una sconfitta si può insegnare ai vincitori.

I sedici anni che seguirono con i governi liberali ridussero un paese allo scheletro di se stesso. In nome della democrazia liberale, 20.000 sandinisti furono espulsi dai loro luoghi di lavoro, agli studenti poveri fu reso impossibile continuare a studiare, i contadini dovettero resistere alla vendetta dei proprietari terrieri e il Nicaragua divenne la bonanza della famiglia Chamorro, rappresentazione araldica del tradimento nazionale. Corruzione, ladrocinio, servilismo verso l’impero e repressione furono le gambe del tavolo sotto il quale giaceva il Paese.

 

La nuova Nicaragua

Cambiò tutto nel Novembre 2006, quando il FSLN tornò a governare e nacque la seconda tappa della Rivoluzione. Con quella vittoria il governo sandinista ha dato inizio al più imponente e incisivo processo di modernizzazione del Paese, tenendo insieme la crescita del PIL e riduzione della povertà, collegando la crescita macroeconomica al tessuto sociale. Come? Rovesciando i paradigmi liberisti e privilegiando la coesione sociale.

La condizione strutturale della povertà non è una forbice che aumenta ogni giorno di più le disuguaglianze: oltre 100.000 pacchetti alimentari vengono distribuiti giornalmente, esistono 52 programmi sociali volti a ridurre il divario tra povertà e benessere. Il Nicaragua è un paese povero, naturalmente, ma le politiche del governo combattono la povertà e non i poveri. Ha basato la sua politica socio-economica sull'inclusione e la partecipazione, con salute, istruzione, pensioni, trasporti, alloggi, aumenti salariali, prestiti agevolati a famiglie, cooperative e piccole imprese. E non solo in termini economici il Paese è diverso: il suo modello di polizia comunitaria ha garantito i migliori risultati in termini di sicurezza in tutta la regione centroamericana. Dal punto di vista della partecipazione femminile c'è un dato straordinario, quello del Gender Gap: dal 2007 il Nicaragua è passato dal 91° al 14° posto nel mondo.

 

Le cifre del Sandinismo

Il modello sandinista ha i suoi numeri a raccontarne l'animo. Crescita del PIL tra il 4 e il 5% all'anno. 50% di povertà in meno (dal 48 al 24,9%) e di povertà estrema (dal 17,2 al 6,9%). Riduzione della denutrizione cronica infantile dal 27,20 al 9,20.  Il 55% della spesa nazionale destinato a un'ulteriore riduzione della povertà attraverso investimenti pubblici. E i numeri si riconoscono: premio FAO per essere stato uno dei primi Paesi a raggiungere gli "Obiettivi del Millennio" nella riduzione della povertà e delle disuguaglianze (dati certificati anche dalla Banca Mondiale e dal FMI).

Sono 136.000 i disabili presi in carico dalle strutture pubbliche. L'istruzione è gratuita a tutti i livelli, ne usufruiscono oltre 2 milioni di studenti di tutte le età: la Costituzione stabilisce che il 6% del PIL gli è destinato. E quindi 7723 aule ristrutturate, 500 centri di studio nelle zone rurali, pasto gratuito quotidiano per 1.200.000 studenti. 500 scuole pubbliche dotate di collegamento Internet e 279 aule mobili per portare le lezioni in ogni luogo del Paese.

Altri numeri? Tra il 2012 e il 2016 aumento del 40% della spesa sociale, con 2,715 miliardi di dollari destinati agli investimenti pubblici. Di questi, 805 spesi per i sistemi di trasporto aereo e terrestre (in 13 anni sono stati costruiti più di 3.500 km di strade e il trasporto pubblico è al più basso costo dell'intera regione); 145 milioni per la salute pubblica, 423 milioni per l'elettricità), 254 milioni per l'acqua e i servizi igienici e 107 milioni per l'istruzione (gratuita a tutti i livelli).

La riorganizzazione sistemica della capacità produttiva ha reso concreto ciò che si intende per sovranità nazionale: l'autosufficienza alimentare è sostanzialmente raggiunta, il Nicaragua produce il 98% degli alimenti che consuma e il 98% del Paese è elettrificato e il 70% dell’energia è prodotta da fonti rinnovabili. E ora pochi si addormentano implorando la misericordia del cielo: più di 50.000 case sono state destinate a famiglie che non erano in grado di comprarle.

Il nuovo Nicaragua si riflette nei più vulnerabili, perché dal 2007 la salute è tornata ad essere gratuita: 18 ospedali sono stati costruiti e attrezzati secondo i più alti standard, (altri 6 sono in costruzione e 5 in progettazione) 170 asili nido e decine e decine di ambulatori sono stati rinnovati o costruiti. E oggi, per affrontare l'emergenza Covid-19 meglio di qualsiasi altro paese della zona, non ci sono solo gli ospedali: ci sono anche 10 cliniche mobili (ed altre 10 previste) con le quali l'assistenza medica pubblica gratuita arriva fino all'ultima casa in ogni angolo del Paese, per quanto remota sia.

Questi numeri rappresentano un modello di giustizia sociale, inclusione e solidarietà che, pur inserito dentro una economia capitalistica, non ha timore di agire il socialismo nelle sue politiche distributive ed equitative. Questo ha spaventato il latifondo e l’impero del Nord che, oltre a non tollerarlo in Nicaragua, ha intravisto il suo alto potenziale di trasmissibilità regionale; per questo nel 2018, l'oligarchia ha cercato di dare un golpe stile Bolivia: questo era l'ordine degli USA.

La scommessa del colpo di stato si è rivelata però sbagliata. Il FSLN ha dimostrato di essere unito, di disporre di forza politica e militare all'altezza di qualsiasi sfida, di saper salvaguardare la Costituzione e le Istituzioni, di tenere al sicuro il Paese e riconoscere nella figura del suo Comandante di sempre, Daniel Ortega, una leadership di altissimo profilo e inespugnabile.

 

Verso il 2021

Questo 41° anniversario sarà celebrato in modo diverso. La pandemia impedisce le manifestazioni di massa a cui il FSLN ci ha sempre abituato. Ma le precauzioni e l'attenzione non gli impediranno di festeggiare il suo compleanno: ogni casa sandinista sarà una piazza, fisica e virtuale. Ricorderà a tutti, amici e nemici, che il sandinismo è maggioranza assoluta nel Paese.

Non si torna indietro, deve saperlo la destra. Meglio non pensi nemmeno a tentativi di colpi di stato che sarebbero fatali per chi li promuove. Così come sbaglierebbe a pensare che saranno gli USA o gli OSA a decidere il voto. La destra è l’immondizia del Paese, è un aggregato mercenario che vive e opera agli ordini del governo statunitense: non ha nessuna ricetta per il Nicaragua che non sia riportarlo allo stato di colonia. Ma è inutile farsi finanziare ogni vizio da Washington e Bruxelles spacciandosi in progetto, inventare finte Ong per succhiare altro denaro, affannarsi in coalizioni antropofaghe per cercare di trasformare una carovana di politicanti e opportunisti in un'opzione politica. C'è solo un'opzione vincente in campo: quella che vede il Nicaragua come una nazione libera, sovrana e sandinista.

Le ultime settimane hanno fatto registrare l’intensificarsi dello scontro tra gli Stati Uniti e la Cina, tanto da spingere parecchi commentatori a parlare di una nuova Guerra Fredda tra le prime due potenze economiche del pianeta. In questo confronto vengono progressivamente coinvolti anche altri paesi, soprattutto se alleati di Washington. Tra questi, sta emergendo il ruolo della Gran Bretagna, la cui recente decisione di bandire Huawei dalla propria rete 5G potrebbe rappresentare un autentico punto di svolta nei rapporti con Pechino e negli stessi equilibri internazionali.

Lo schiaffo al colosso delle telecomunicazioni di Shenzhen è il culmine di una giravolta operata dal governo di Boris Johnson in larga misura su richiesta dell’amministrazione Trump. A convincere il leader conservatore non sono stati tanto gli improbabili incentivi che potrebbero arrivare da Washington, quanto le minacce, come quella di escludere Londra dalla condivisione di informazioni di intelligence tra i più stretti alleati americani. Un’ipotesi, quest’ultima, che ha subito mobilitato gli ambienti maggiormente filo-americani d’oltremanica, impegnati in una campagna di pressioni su Downing Street per liquidare Huawei nonostante gli interessi economici in gioco.

A gennaio, sempre in conseguenza delle sollecitazioni interne e di quelle americane, Johnson aveva già limitato al 35% la quota delle forniture per la rete 5G britannica provenienti dalla compagnia cinese, classificata come “fornitore ad alto rischio”. Soprattutto, Huawei veniva esclusa dalla partecipazione allo sviluppo di qualsiasi componente sensibile della rete di nuova generazione. La preoccupazione ufficiale dietro a questa misura era il possibile utilizzo di Huawei da parte del governo cinese per penetrare le reti informatiche e delle telecomunicazioni del Regno Unito.

Questo stesso scrupolo sarebbe alla base anche della decisione definitiva e ancora più radicale di martedì. Il governo di Londra, in realtà, si è formalmente nascosto dietro a una motivazione a dir poco discutibile. La sicurezza e la continuità delle forniture degli equipaggiamenti di Huawei non sarebbero cioè garantite a causa del provvedimento, preso lo scorso maggio dalla Casa Bianca, che vietava a livello globale la vendita alla compagnia cinese di microchip contenenti componenti di origine americana.

Huawei ha tuttavia già implementato piani alternativi di approvvigionamento, nonché di produzione interna, che renderanno virtualmente inefficace la misura punitiva degli Stati Uniti. Il voltafaccia di Johnson non ha quindi alcun fondamento per quanto riguarda questo aspetto. Piuttosto, come già spiegato, sono i calcoli di natura politica e strategica ad avere pesato sulla scelta fatta questa settimana.

Ciò appare tanto più significativo e, da un certo punto di vista, incomprensibile se si considera che l’esclusione di Huawei dalla rete 5G britannica dal lato pratico è un vero e proprio autogol per Londra. Le compagnie di telecomunicazioni del Regno Unito dovranno interrompere gli acquisti di componenti da Huawei entro il 31 dicembre. Per rimuovere quelli già installati nella realizzazione della nuova rete ci sarà tempo invece fino al 2027, a testimonianza della laboriosità dei procedimenti che questo provvedimento implica.

La rinuncia agli equipaggiamenti di Huawei avrà poi un costo non indifferente e resta da vedere chi dovrà sostenerlo, fermo restando che finirà comunque per essere scaricato sugli utenti britannici. Un altro discorso merita poi il nodo del reperimento di fornitori alternativi, non esattamente di facile scioglimento. Il ministro della Cultura di Londra, Oliver Dowden, ha ammesso in Parlamento che l’inversione di rotta sul 5G del suo governo ritarderà addirittura di qualche anno il lancio della rete superveloce e costerà fino a due miliardi di sterline. Anche solo alla luce di questi oneri, probabilmente sottostimati, non sorprende che tutte le compagnie britanniche coinvolte nel progetto fossero contrarie all’esclusione di Huawei.

Le questioni legate alla “sicurezza nazionale” che Huawei avrebbe sollevato hanno poco o nessun senso anche perché i componenti forniti dalla compagnia per le precedenti reti – 3G e 4G – potranno rimanere al loro posto. In altre parole, in questi anni la presenza di Huawei nelle telecomunicazioni britanniche non sembra avere rappresentato un problema, mentre da Londra viene fatto credere che potrebbe esserlo per la rete di nuova generazione.

Compagnie cinesi operano inoltre da tempo in altri settori “strategici” del Regno Unito, come quello energetico. In particolare, una compagnia cinese controlla quote significative di un paio di centrali nucleari britanniche e, se effettivamente Pechino rappresentasse una minaccia alla “sicurezza nazionale” della Gran Bretagna, è evidente che una decisione simile a quella riguardante Huawei dovrebbe essere presa anche in questo settore.

Se per Londra i rischi di una presenza cinese in ambiti sensibili sono tutti da dimostrare, quelli derivanti da un irrigidimento delle posizioni nei confronti di Pechino sulla scia dell’approccio americano sono al contrario concreti. A causa delle tensioni su Huawei e Hong Kong, il mese scorso il governo cinese ha minacciato ad esempio il ritiro da due importanti progetti in territorio britannico, come la realizzazione di un nuovo reattore nucleare e la costruzione di una linea ferroviaria ad alta velocità.

Pechino ha comunque un ampio ventaglio di iniziative a disposizione in risposta alla decisione contro Huawei e, a giudicare dalle reazioni di questi giorni, intende ricorrervi nel prossimo futuro. Un’editoriale della testata ufficiale in lingua inglese Global Times ha infatti spiegato mercoledì come sia “necessario reagire” e la ritorsione debba essere “pubblica e dolorosa”.

In generale, la quantità e la qualità degli investimenti cinesi in Gran Bretagna potrebbero risentirne pesantemente, andando ad aggiungersi alle conseguenze negative della crisi innescata dalla pandemia in atto e dell’uscita dall’Unione Europea. A lungo il Regno Unito è stato l’approdo preferito da Pechino per la penetrazione cinese in Europa, con tutti i vantaggi che sono derivati o avrebbero potuto derivare per Londra. Gli eventi di questi mesi, aggravati anche dalla disputa attorno a Hong Kong e dalle vicende del Mar Cinese Meridionale, minacciano invece di rompere questa collaborazione e di spingere la Cina a guardare altrove nel vecchio continente.

Ancora riguardo al 5G, i ritardi e i costi che il Regno Unito dovrà sostenere rinunciando a Huawei avranno effetti negativi anche sull’innovazione tecnologica e la sostenibilità dell’economia britannica, dal momento che la nuova rete superveloce dovrebbe creare quello che in molti definiscono come un modello di sviluppo rivoluzionario e altamente competitivo.

Al di là del giudizio sul sistema e il comportamento sugli scenari internazionali della Cina, motivato in primo luogo dai propri interessi come esattamente per qualsiasi altro paese, la decisione del governo conservatore di Boris Johnson di piegarsi ai diktat degli Stati Uniti rischia di alimentare pericolosamente il clima di scontro tra grandi potenze a cui si sta assistendo e, come già dimostrato, di rivelarsi controproducente per lo stesso Regno Unito.

La scelta di campo a favore di Washington viene spesso spiegata anche con la necessità di opporsi in qualche modo alle tendenze autoritarie della Cina, come se gli Stati Uniti o la Gran Bretagna rappresentassero un modello esemplare di democrazia. A questo proposito, l’assurdità della decisione di Londra su Huawei è dimostrata dal fatto che, mentre non sono finora emerse prove concrete della collaborazione per fini minacciosi tra la compagnia di Shenzhen e il governo di Pechino, numerose e abbondanti sono quelle che incriminano gli Stati Uniti.

Per merito soprattutto delle rivelazioni di qualche anno fa di Edward Snowden, è ormai noto che l’apparato di intelligence americano è in grado di intercettare e sorvegliare tutte le comunicazioni elettroniche del pianeta, incluse quelle dei propri alleati, anche grazie alla docilità delle compagnie private americane e occidentali in genere. D’altra parte, una delle principali ragioni della guerra di Washington contro Huawei è da ricondurre al fatto che l’utilizzo di componenti cinesi nelle reti 5G potrebbe impedire agli USA di disporre di una porta d’ingresso nei dispositivi di centinaia di milioni o di miliardi di utenti in tutto il pianeta.

In un altro segno del fallimento della politica americana di “massima pressione” sull’Iran, il governo di Teheran e quello cinese stanno finalizzando un accordo di ampio respiro che potrebbe avvicinare ancora di più due dei principali nemici strategici degli Stati Uniti. L’intesa da 400 miliardi di dollari in potenziali investimenti è al contempo la risposta iraniana alle chiusure dell’Occidente e la conferma dell’attrazione virtualmente irresistibile dei progetti di integrazione di Pechino nel continente asiatico a fronte di una “proposta” USA basata sulla forza e sull’imposizione unilaterale dei propri interessi.

Ley de Urgente Consideración: si chiama così perché il Parlamento ha a disposizione solo 90 giorni per discuterla. In così breve tempo deputati e senatori hanno dovuto esaminare circa 500 articoli di una mega proposta di legge che configura un paese nettamente spostato a destra. Voluta dal governo del presidente Luis Lacalle Pou (Partido Nacional), entrato in funzione il primo marzo, la legge è stata approvata l'8 luglio dal Senato dopo il via libera dei deputati la settimana precedente.

Nell’arco di appena ventiquattro ore, il governo conservatore britannico è passato da difensore dei diritti umani in tutto il pianeta a cinico trafficante di armi pronto ad assistere un regime sanguinario come quello saudita. L’apparente schizofrenia di Londra deve sorprendere solo in parte, visto che l’immagine di paladino della democrazia è esclusivamente di facciata, ed è da ricondurre alle scosse di assestamento che stanno attraversando la classe politica britannica nel dopo Brexit e nel pieno del rimescolamento degli equilibri strategici globali.

Lunedì il ministro degli Esteri, Dominic Raab, aveva presentato alla Camera dei Comuni una nuova legge, ispirata a una simile in vigore da qualche tempo negli Stati Uniti, che permette al Regno Unito di imporre sanzioni punitive a organizzazioni e individui coinvolti in violazioni dei diritti umani. Il capo della diplomazia del governo di Boris Johnson ha per ora deciso una prima tranche di sanzioni, applicate a 49 persone ed “entità” di appena quattro paesi.

Due di questi sono molto prevedibilmente Russia e Corea del Nord, bersagli consueti della logora retorica pseudo-democratica occidentale. Uno – il Myanmar – lo è solo un po’ meno, visto che dopo un breve flirt con l’Occidente sembra essere vicino a tornare nell’orbita della Cina. Maggiore sorpresa hanno provocato invece le sanzioni contro l’Arabia Saudita. Alcuni funzionari del regime sono finiti sulla lista nera di Londra perché coinvolti nel brutale assassinio del giornalista-dissidente Jamal Khashoggi nel consolato del regno a Istanbul.

Qualche commentatore ha fatto notare come la presa di posizione britannica si ispiri alle misure punitive implementate frequentemente da Washington, non tanto per difendere democrazia e diritti umani quanto per promuovere gli interessi strategici americani ovunque questi siano in gioco. Lo stesso linguaggio del ministro degli Esteri britannico ha ricalcato in vari punti le sanzioni USA, dal “congelamento dei beni” dei destinatari di queste ultime al riferimento nel nome della legge all’avvocato russo Sergey Magnitsky, morto in carcere a Mosca nel 2009 e celebrato in Occidente per avere scoperto una frode fiscale da centinaia di milioni di dollari.

In un certo senso, la stretta aderenza all’esempio americano sembra indicare che il Regno Unito ha tutta l’intenzione di allinearsi all’alleato d’oltreoceano nel programmare il proprio futuro fuori dall’Unione Europea. D’altro canto, se l’iniziativa contro crimini e abusi fosse seria, la lista di proscrizione di Londra dovrebbe includere, oltre che svariati esponenti dell’attuale governo e di quelli che l’hanno preceduto, in primo luogo proprio gli Stati Uniti.

Ironicamente, mentre Raab rivendicava il ruolo del Regno Unito nella difesa dei diritti umani nel mondo, sull’esempio di Washington, da Ginevra la relatrice ONU per gli assassini extragiudiziari denunciava clamorosamente l’amministrazione Trump per l’uccisione mirata lo scorso gennaio a Baghdad del generale iraniano Qasem Soleimani. Per Agnès Callamard, infatti, quell’operazione è stata niente di meno che un crimine ingiustificato e una violazione del diritto internazionale.

Le nuove sanzioni di Londra hanno ad ogni modo fatto più rumore negli ambienti politici britannici per l’esclusione della Cina. Misure punitive contro individui di nazionalità cinese sarebbero state ugualmente strumentali, ma l’aspetto più interessante è da ricercare nel contesto da cui è scaturita la quasi rivolta di una parte dei parlamentari conservatori, scagliatisi sul governo Johnson per avere risparmiato Pechino.

Da un lato, le proteste esplose in questi ambienti ferocemente anti-cinesi appaiono inutili, poiché il governo di Londra ha di recente già intrapreso la strada dello scontro frontale contro Pechino. Ad esempio, solo negli ultimi giorni, Johnson ha riconfermato la linea dura in merito alle vicende di Hong Kong, giungendo a offrire la cittadinanza britannica a tre milioni di residenti dell’ex colonia, mentre ha fatto un passo forse decisivo verso l’esclusione completa di Huawei dalla realizzazione della rete 5G nel Regno Unito.

Non c’è dubbio in ogni caso che l’arma dei “diritti umani” avrebbe un altro livello qualitativo, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica, e potrebbe aiutare a garantire una certa copertura nell’implementazione di politiche dettate unicamente da interessi economici e strategici. Da qui l’invito dei conservatori “ribelli” a estendere le sanzioni anche alla Cina.

A ben vedere, tuttavia, il fatto che Raab e Johnson abbiano per il momento risparmiato Pechino sembra rivelare altro. Per cominciare, un peso lo hanno avuto senza dubbio i legami economici, commerciali e finanziari tra Cina e Gran Bretagna, tanto più dopo le reazioni non esattamente entusiaste di Pechino alle ultime iniziative riguardanti Hong Kong e Huawei. A questo aspetto vanno poi collegate le riserve di almeno una parte della classe dirigente britannica circa l’opportunità di disegnare un percorso anti-cinese per il futuro del Regno Unito.

Qualcuno, invece, ha visto nelle esitazioni del “Foreign Office” in merito alla Cina un messaggio a Washington. Londra attenderebbe cioè segnali e incentivi dall’amministrazione Trump, in ambito strategico e commerciale, per limitare gli effetti negativi di un eventuale ripudio della Cina come partner a tutto campo una volta sciolti i legami con Bruxelles.

Che la nuova legge sui diritti umani e le sanzioni di Londra, introdotta solennemente lunedì da Dominic Raab, sia dunque una farsa è piuttosto chiaro. Lo stesso governo Johnson non si è nemmeno preoccupato di non renderlo troppo evidente, visto che letteralmente poche ore dopo l’intervento in Parlamento del ministro degli Esteri è stata annunciata un’iniziativa diametralmente opposta.

Come accennato all’inizio, martedì il ministro del Commercio, Liz Truss, ha riautorizzato la vendita di armi a uno dei regimi con le maggiori responsabilità in materia di violazione dei diritti umani. Armamenti ed equipaggiamenti militari per svariati miliardi di sterline potranno tornare a prendere la strada dell’Arabia Saudita, dopo che un tribunale britannico aveva congelato le forniture lo scorso anno. Lo stop alle licenze di vendita alla monarchia wahhabita era stato deciso in risposta a una denuncia che accusava il governo di Londra di non avere valutato a sufficienza il “rischio umanitario” derivante da queste transazioni, in particolare per gli effetti distruttivi provocati nel quadro della guerra criminale scatenata da Riyadh in Yemen.

A cancellare la moratoria è stato un colpo di spugna magistrale deciso da un governo che si era appena proclamato paladino dei diritti umani nel mondo. La ministra Truss ha cioè certificato che la presunta indagine condotta dal suo governo non ha riscontrato rischi sistematici per i civili in Yemen da collegare alla vendita di armi ai sauditi. Per Londra, la lunga lista di massacri di civili nel paese della penisola arabica, verosimilmente portati a termine anche con le armi prodotte in Gran Bretagna, è fatta soltanto di “incidenti isolati” che non comportano un intento criminale da parte di Riyadh.

Su questa valutazione ha influito il fatto che l’Arabia Saudita è il primo cliente dei produttori di armi del Regno Unito. Il colosso BAE Systems ha ad esempio venduto armi e fornito assistenza per manutenzione di aerei da guerra al regno per un valore complessivo di 15 miliardi di sterline negli ultimi cinque anni. Secondo alcune stime, il solo conflitto in Yemen ha fruttato dal 2015 più di 5 miliardi di dollari ai produttori britannici.

Se l’assassinio di Khashoggi merita quindi l’imposizione di sanzioni, peraltro da ricondurre più che altro alle aperture saudite a Russia e Cina, secondo la sensibilità umanitaria altamente selettiva di Londra il massacro di decine di migliaia di yemeniti può invece proseguire, sempre che contribuisca a realizzare profitti per l’industria bellica di Sua Maestà.


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