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Il progetto del governo conservatore di Boris Johnson per fare del Regno Unito post-Brexit una potenza in grado di muoversi in maniera indipendente ed esclusivamente secondo i propri interessi sugli scenari internazionali continua a dover fare i conti con una serie di ostacoli e complicazioni che rischiano di aprire più di un fronte di crisi sul piano interno. La questione più calda a questo proposito riguarda i rapporti con la Cina, da qualche tempo in fase calante sulla spinta delle pressioni provenienti da Washington.
Hong Kong e Huawei sono in questo frangente le ragioni principali delle frizioni crescenti tra Regno Unito e Cina, non a caso le stesse, assieme alla gestione dell’epidemia di Coronavirus, su cui si concentra l’offensiva contro Pechino dell’amministrazione Trump. Quello a cui si sta assistendo è d’altra parte l’approdo del governo di Londra sulle posizioni degli Stati Uniti in merito alla Cina, anche se il processo in atto continua a essere fonte di conflitto tra la classe dirigente d’oltremanica.
Ai tempi del governo di David Cameron, le relazioni tra il Regno Unito e la Cina sembravano avere imboccato una parabola ascendente, come dimostrava tra l’altro la partecipazione di Londra nel 2015 alla fondazione della Banca internazionale di investimenti (“Asian Infrastructure Investment Bank”) promossa da Pechino, nonostante l’opposizione degli USA. Il raffreddamento delle relazioni sarebbe seguito a breve, ma la leadership di Theresa May era stata comunque segnata solo in maniera relativa da ripensamenti e passi indietro, come l’aggiunta di alcune restrizioni a un accordo per la costruzione di nuove centrali nucleari in territorio britannico con tecnologia cinese.
L’accelerazione impressa da Johnson è coincisa alla fine con l’intensificarsi della rivalità tra Stati Uniti e Cina, manifestandosi con iniziative recenti difficilmente equivocabili. Dopo l’approvazione da parte dell’organo legislativo cinese di una controversa legge sull’ordine pubblico e la “sicurezza nazionale” per il territorio autonomo di Hong Kong, Johnson si è subito allineato alle durissime critiche di Washington, per poi avanzare l’ultra-provocatoria proposta di offrire la cittadinanza britannica a tre milioni di abitanti della ex colonia.
La presa di posizione del premier conservatore anticipa l’appoggio di Londra alle sanzioni che la Casa Bianca intende imporre ai leader cinesi coinvolti nella stesura e nell’applicazione della nuova legge per Hong Kong. L’aspetto più interessante è legato comunque al fatto che l’intransigenza ostentata dal Regno Unito rischia di essere controproducente e di avere pesanti ripercussioni economiche, come ha fatto subito notare lo stesso governo di Pechino. In linea di massima, tutte le decisioni prese e prospettate da Londra riguardo i rapporti con la seconda potenza economica del pianeta potrebbero avere implicazioni di questo genere e provocare la rottura di quell’intreccio di interessi che da qualche anno ha fatto del Regno Unito la prima destinazione degli investimenti cinesi in Europa.
Le contraddizioni sono forse ancora più evidenti nel caso di Huawei e del lancio della rete 5G. Il contributo del colosso cinese delle telecomunicazioni in questo ambito è al momento cruciale per il Regno Unito, ma anche qui delle forze formidabili, guidate principalmente da Washington, hanno innescato un evidente ripensamento. Già a gennaio, il governo Johnson si era parzialmente piegato alle pressioni, classificando Huawei come fornitore “ad alto rischio” per il 5G. La compagnia di Shenzhen aveva visto così ridursi la propria partecipazione alla rete di nuova generazione in Gran Bretagna ed esclusa dai settori più delicati dal punto di vista strategico.
Queste concessioni agli ambienti anti-cinesi più radicali hanno tuttavia incoraggiato le richieste di un’esclusione tout court di Huawei, non solo dai progetti 5G ma da tutto il sistema britannico delle telecomunicazioni. Alcuni parlamentari conservatori hanno minacciato un’aperta rivolta se il governo non fisserà a breve una data vincolante per la rinuncia alla strumentazione di Huawei utilizzata nell’intera rete di comunicazione del Regno Unito. Simili richieste sono quasi sempre espresse con isterici toni anti-comunisti e feroci denunce rivolte alla Cina relativamente a pratiche anti-democratiche e violazioni dei diritti umani, in molti casi più adatte a definire il comportamento del governo di Londra che non quello di Pechino.
La ragione pratica dello stop alla partecipazione di Huawei al lancio della rete 5G sarebbe il possibile accesso della compagnia cinese a informazioni e strutture sensibili o collegabili alla sicurezza nazionale del Regno Unito. Le stesse autorità americane caratterizzano in questo modo i rischi che correrebbero i propri alleati nell’affidare lo sviluppo del 5G a Huawei, poiché a loro dire questa compagnia sarebbe in qualche modo controllata dal governo di Pechino o comunque vincolata alle direttive dei vertici della Repubblica Popolare.
In realtà, la guerra contro Huawei, oltre a tradire le ansie degli Stati Uniti per il primato tecnologico di Pechino nella rete di nuova generazione, nasconde il timore che la macchina della sorveglianza globale americana perda buona parte delle proprie capacità di penetrazione nelle reti dei paesi, compresi quelli alleati, che utilizzano apparecchiature cinesi.
Il governo di Londra starebbe così sondando il terreno per reperire fornitori alternativi a Huawei, come le scandinave Ericsson e Nokia o la sudcoreana Samsung. La stampa britannica ha anche parlato di progetti promossi da commissioni del parlamento per identificare e promuovere produzioni domestiche di equipaggiamenti da utilizzare nel settore delle telecomunicazioni.
La strada che va in questa direzione è però tutta in salita e comporta un possibile pericoloso ritardo nell’implementazione di una rete che risulterà determinante in molti settori. Per questa ragione, non sono poche le voci che mettono in guardia il governo Johnson da scelte estreme per assecondare le pressioni americane. I vertici di Vodafone, ad esempio, questa settimana hanno avvertito che “la leadership britannica nell’ambito del 5G andrà persa se gli operatori di telefonia mobile fossero costretti a spendere tempo e denaro per sostituire le apparecchiature esistenti”, fornite da Huawei.
L’impegno che implicherebbe uno stravolgimento delle infrastrutture della rete britannica è ritenuto eccessivo e insostenibile da molti in Gran Bretagna e a questi settori più cauti dell’economia e della politica fanno riferimento coloro che hanno minimizzato i rischi di una presenza importante di Huawei nella realtà del 5G d’oltremanica. Di estremo rilievo in questo senso è stato un recente intervento del direttore del GCHQ (“Government Communications Headquarters”), cioè l’agenzia governativa che si occupa di sorvegliare le comunicazioni elettroniche e che corrisponde alla NSA americana.
Jeremy Fleming ha affermato in sostanza che l’affidamento a Huawei del controllo di una parte determinante della rete 5G non rappresenterebbe un rischio per il suo paese, per poi respingere gli allarmi arrivati nelle ultime settimane per la sicurezza dei cosiddetti “Cinque Occhi”, l’alleanza informale tra Regno Unito, USA, Canada, Australia e Nuova Zelanda che prevede lo scambio di informazioni relative alle comunicazioni elettroniche. La presa di posizione del numero uno del GCHQ era arrivata in risposta al rapporto di un “think tank” britannico che invitava appunto i governi dei “Cinque Occhi” a ridurre la propria dipendenza dalla Cina per equipaggiamenti destinati alle infrastrutture più critiche per la sicurezza nazionale.
Le opzioni di fronte a Boris Johnson e al suo governo appaiono dunque problematiche, anche perché implicano un ridimensionamento delle ambizioni per il futuro del Regno Unito. A ben vedere, il complicarsi delle prospettive di Londra, una volta finalizzata la Brexit, è dovuto alle contraddizioni insite nel progetto politico di quanti si sono battuti per l’uscita dall’Unione Europea.
La speranza era quella di liberarsi dai vincoli di Bruxelles, in modo da avere mano libera nel raggiungimento di accordi di libero scambio con qualsiasi paese, a cominciare dalla Cina, e nel rafforzare la partnership a tutto campo con gli Stati Uniti. Queste dinamiche avrebbero dovuto sia compensare la perdita di una parte del mercato europeo sia agire da leva per ottenere un accordo post-Brexit più vantaggioso con l’UE. Queste manovre si sono tuttavia scontrate con una realtà globale sempre più segnata dalla rivalità tra Washington e Pechino, che sta rendendo di fatto impossibile per Londra, così come per molti altri paesi alleati degli Stati Uniti, mantenere un atteggiamento equidistante tra le due potenze.
Costretto a fare una scelta, il primo ministro britannico ha finito per muoversi cautamente contro la Cina. Ma, alla luce del clima venutosi ormai a creare, le pressioni da destra per intensificare le politiche anti-cinesi si sono moltiplicate e, inevitabilmente, sono iniziate ad arrivare anche le reazioni di Pechino. Il risultato potrebbe essere così l’aggravarsi della crisi politica e dell’isolamento internazionale del Regno Unito, costretto a rinunciare al miraggio di un futuro da grande potenza strategicamente indipendente e a dover scegliere invece tra la partnership con i padroni di Washington e le opportunità economiche e commerciali offerte dalla Cina.
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- Scritto da Michele Paris
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Le storiche immagini che nel 2018 e per pochi mesi nel 2019 sembravano prefigurare un disgelo definitivo tra la Corea del Nord e i suoi nemici appaiono sempre più come un lontano ricordo che sembra testimoniare di un processo diplomatico ormai sull’orlo del baratro. Non solo i negoziati tra Pyongyang e Washington continuano a rimanere ingolfati, ma anche il più promettente dialogo tra le due Coree rischia di vedere crollare tutti i progressi degli ultimi mesi, come dimostra il ritorno proprio in questi giorni a una retorica bellicosa da parte del regime di Kim Jong-un.
La Corea del Nord ha fatto sapere martedì che intende “tagliare tutte le linee di comunicazione” con il Sud in conseguenza dell’incapacità del governo alleato degli Stati Uniti di impedire le attività propagandistiche degli esuli nordcoreani. Lungo il 38esimo parallelo, la tensione era tornata a salire la scorsa settimana, quando gruppi di rifugiati dalla Nordcorea avevano ripreso il lancio di palloni con volantini di propaganda anti-regime dalle zone di confine, nonostante il governo di Seoul scoraggi ufficialmente questo genere di iniziative.
Pyongyang considera questi gesti come un’aperta provocazione e da svariati giorni esprime durissime proteste contro la Corea del Sud, per non parlare dei feroci insulti rivolti contro gli attivisti nordcoreani fuggiti oltreconfine. Il governo sudcoreano del presidente Moon Jae-in ha chiesto lo stop a queste attività e il partito di maggioranza ha presentato in parlamento una proposta di legge per vietare il lancio di materiale propagandistico in Corea del Nord.
A livello politico, l’opposizione sudcoreana ha però tutto l’interesse a boicottare il processo diplomatico e, comunque, i tentativi del governo di abbassare le tensioni non hanno prodotto effetti significativi. Secondo un annuncio fatto dall’agenzia di stampa ufficiale KCNA, la Corea del Nord ha così “raggiunto la conclusione che è inutile discutere faccia a faccia con le autorità sudcoreane”, non essendoci motivo di parlare con un governo che “ha soltanto alimentato il disappunto” del regime.
La già citata sospensione delle “linee di comunicazione” con Seoul fa riferimento a una serie di iniziative concordate tra i due paesi nel corso dei negoziati inter-coreani degli ultimi due anni, culminati negli incontri tra i rispettivi leader e, in particolare, nella visita del presidente sudcoreano Moon a Pyongyang nel settembre del 2018.
La decisione resa nota martedì sarebbe il frutto di un vertice tra i responsabili della gestione dei rapporti con il Sud, a cui hanno preso parte, tra gli altri, la sorella del “leader supremo”, Kim Yo-jong, e il vice-presidente del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori, Kim Yong-chol. A fare le spese dell’escalation in corso sono anche la linea telefonica diretta tra i vertici del partito unico nordcoreano e l’ufficio del presidente sudcoreano, così come la “linea di contatto” creata lungo il confine e quella che coinvolge i militari dei due paesi.
L’irritazione di Pyongyang e la natura potenzialmente preoccupante dei provvedimenti risultano evidenti dalla definizione utilizzata per la Corea del Sud. L’organo di stampa nordcoreano ha avvertito cioè che l’attitudine nei confronti di Seoul diventerà quella più adeguata ad affrontare un “nemico” e per implementare “questa transizione” saranno discussi e adottati dei “piani graduali”.
La rabbia di Kim deriva in primo luogo dal fatto che gli accordi firmati con Moon nell’aprile del 2018 e nel settembre dello stesso anno per favorire il disgelo includevano la promessa di Seoul di mettere fine ad attività provocatorie proprio come l’invio di materiale propagandistico contro il regime dalle aree di confine. Come già accaduto in relazione ai colloqui con gli Stati Uniti, Pyongyang esprime un profondo risentimento per quello che ritiene essere, per molti versi correttamente, un mancato rispetto degli impegni presi dalla controparte, nonostante le aperture e le concessioni che il regime avrebbe invece fatto.
Su un piano più generale, il deteriorarsi delle relazioni tra le due Coree è il riflesso dello stallo prolungato dei colloqui di pace tra Pyongyang e Washington. Gli sforzi del presidente sudcoreano Moon per promuovere la distensione con Kim e innescare in questo modo una qualche scintilla in grado di portare a progressi concreti tra Corea del Nord e Stati Uniti sono in larga misura naufragati. L’incapacità di superare le costrizioni dell’alleanza con Washington e limitazioni oggettive alla propria libertà di azione hanno in sostanza finito col paralizzare anche il dialogo tra Seoul e Pyongyang, per quanto ben avviato sembrava essere solo fino a qualche mese fa.
La leadership nordcoreana ha preso così atto del progressivo riallineamento di Moon alle posizioni intransigenti americane, che vorrebbero una denuclearizzazione del regime come condizione preliminare a qualsiasi accordo di pace o concessione significativa. Il governo della Corea del Sud è rimasto intrappolato in una situazione con poche o nessuna via d’uscita diplomatica, subendo le conseguenze delle frustrazioni di Kim, a sua volta costretto a prendere atto del fallimento del tentativo di fare pressioni su Seoul per arrivare al vero obiettivo delle manovre in atto, vale a dire un trattato di pace con Washington che possa garantire la sopravvivenza del regime.
Il venir meno dell’impulso alla pacificazione a Seoul è da ricondurre almeno in parte anche agli effetti sull’economia dell’emergenza Coronavirus. L’inevitabile rallentamento del motore sudcoreano ha fatto schizzare i livelli di disoccupazione e minacciato di riaccendere le tensioni sociali, traducendosi in un incupimento del clima domestico che ha spento gli entusiasmi per una possibile riconciliazione con Pyongyang.
Se l’atmosfera generale appare dunque grigia e per nulla promettente, è come al solito difficile valutare le sfumature tattiche delle decisioni nordcoreane, quanto meno in rapporto alle azioni che saranno messe in atto nell’immediato. Minacce e iniziative apparentemente clamorose non sono una novità per Kim e i suoi predecessori, spesso con poche altre carte a disposizione per esercitare pressioni o semplicemente per mandare messaggi ai propri nemici. Non è da escludere perciò, come ha sostenuto più di un osservatore ricordando episodi del recente passato, che le misure appena decise potranno essere ritirate se arrivassero risposte positive da Seoul.
Il destino della penisola di Corea e le prospettive di pace dipendono in ogni caso e in gran parte non dalle scelte di Seoul e Pyongyang, ma da quelle che verranno fatte a Washington. Gli Stati Uniti, tuttavia, continuano a non avere un piano coerente e percorribile per la Corea del Nord, restando imprigionati in un “gioco a somma zero” che vede il regime di Kim solo come un’altra arma da usare contro la Cina e da tenere irrealisticamente fuori dai processi di integrazione che stanno attraversando il continente asiatico.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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Centinaia di migliaia di cittadini in piazza contro il Presidente Trump e la sua amministrazione sono certamente una novità importante e non frequente nel quadro politico statunitense. L’ira e lo sdegno di massa per l’ennesimo assassinio di un afroamericano innocente, George Floyd, ha riportato l’attenzione sull’agire delle forze dell’ordine statunitensi, storicamente intrise di razzismo. Il sostegno totale dell’amministrazione Trump agli assassini di Floyd non stupisce: che la conventicola nazi-evangelica della Casa Bianca avesse nel razzismo un suo cemento ideale non era certo un mistero.
Quello che però rende le mobilitazioni di questi giorni una questione decisamente diversa da altre in passato non è solo l’estensione territoriale e i numeri di chi vi partecipa e nemmeno lo scontato quanto strumentale sostegno dei democratici, che ovviamente vedono la possibilità di costruirci un vantaggio elettorale. La vera novità è piuttosto la posizione espressa dai vertici militari degli USA ed espressa pubblicamente dal Segretario alla Difesa, Mark Esper. Un rifiuto rotondo e senz’appello alla richiesta di Trump di utilizzo delle Forze Armate per compiti di ordine pubblico. Non solo perché le manifestazioni esprimono un livello di conflittualità ma non di minaccia alla sicurezza nazionale, ma proprio per l’opzione politica che fa da sfondo alla richiesta presidenziale.
Le parole del Segretario alla Difesa non hanno ricevuto commenti o richieste di dimissioni da parte di Trump, che sa benissimo come non sia nemmeno ipotizzabile che il Segretario alla Difesa abbia reso pubblico il suo profondo dissenso senza essersi consultato con lo Stato Maggiore. L’importanza assoluta delle sue parole è proprio qui. E anche l’ex capo di stato maggiore, Mattis, e numerosi alti ufficiali si sono pronunciati contro il tentativo di Trump - definito " uomo divisivo" - di portare i militari nell’arena di uno scontro che è tutto politico.
La presa di distanza segna un capitolo nuovo negli equilibri interni al deep-state. E’ un fatto inoppugnabile che il Pentagono abbia sostenuto Trump sin dall’inizio del suo mandato, erigendosi a difesa del Tycoon che rischiava di soccombere sotto il tiro incrociato di FBI e Congresso. Il posizionamento dei militari è stato determinante per evitare che Trump finisse il mandato senza nemmeno averlo iniziato e proseguisse poi. Se adesso i vertici del Pentagono smentiscono il loro Comandante in Capo, se rendono pubblico il dissenso dal Presidente, se ritengono sia opportuno smarcare i militari dalla Casa Bianca, è perché sono ormai convinti che il Presidente abbia esaurito il suo mandato, tanto politicamente come umanamente. La pessima gestione dell’emergenza sanitaria e l’isteria razzista di questi giorni hanno convinto i militari che ormai Trump non rappresenta più una possibile soluzione ma un ulteriore, grave problema.
La rottura tra Pentagono e Casa Bianca non si limita alla diversa interpretazione costituzionale sull’utilizzo dei militari in funzione interna. Ad approfondire ulteriormente il dissenso politico con Trump, il Segretario alla Difesa ha affermato che l’agente assassino di Floyd e i suoi compari in uniforme dovrebbero essere arrestati, giudicati e condannati, con ciò implicitamente riconoscendo la giustezza di fondo delle proteste ed indicando una risposta politica per cercare una via d’uscita dalla crisi. Che poi questo sarebbe sufficiente a rimandare a casa i manifestanti è tutto da dimostrare, visto che sono molteplici e trasversali le ragioni ed i sentimenti di chi è in piazza.
C’è, naturalmente, la protesta per l’ennesimo assassinio che s’inserisce nella consueta linea di brutalità dai tratti criminali della polizia, che dal 1980 ad oggi ha prodotto 230.000 vittime uccise senza motivo da uomini in uniforme. Altro che i vincoli rigidi nel comportamento poliziesco che ci vengono raccontati dalla falsa narrazione delle serie televisive come eroi solitari nella guerra al crimine. Nella realtà più che eroi sono aguzzini: abusi, violenze gratuite e razzismo sono il pane quotidiano della cronaca dell’ordine pubblico statunitense.
La proteste di questi giorni riguardano, prima e sopra ogni cosa, la battaglia tra razzismo e antirazzismo, ovvero tra il fascismo sociale che pulsa nelle vene USA e la resistenza di ogni minoranza marginalizzata. Nativi, afroamericani e latinos sono infatti i bersagli delle elites di un Paese che sul genocidio dei nativi è nato, sulla segregazione razziale è diventato grande e sullo sfruttamento dei latinos si è arricchito. E Trump, che con tutta la sua famiglia non ha mai nascosto la sua passione per il Ku-Klux-Klan (come si vede nella foto ndr) del razzismo è fiero rappresentante.
Ma alle proteste contro il razzismo e l’uso criminale della forza si aggiunge anche il riflesso di una crisi economica e sociale drammatica, che nel Paese che dispone della maggior quota di ricchezza del pianeta vede la percentuale record di povertà di tutto l’Occidente. E’ il modello che non funziona più e l’incapacità di fermare la discesa permanente dei livelli di sussistenza di decine di milioni di persone è lo specchio lucido di un sistema concepito per arricchire la minoranza grazie all’impoverimento della maggioranza.
C’è poi anche un capitolo specifico delle proteste che investe il ceto medio americano, quello che disertando le urne (magari anche per non votare l’invotabile Hillary) ha consentito ad uno dei peggiori americani di farsi presidente. C’è una intolleranza di fondo che non mette in discussione i postulati della dottrina economica e sociale ma che riguarda la persona Trump, uomo al di sotto di ogni minimo standard di decenza. Razzista, omofobo, ignorante, appare come la personificazione della volgarità e del cialtronismo; emerge il suo spirito da speculatore mentre non si riesce a determinare un solo punto di adesione con l’aplomb istituzionale che il ruolo richiederebbe. Le sue smorfie stupide, i suoi concetti strampalati, le bugie ripetute e l’intolleranza verso chiunque gli ponga una domanda, insieme alle sue spaventose gaffes, fanno sì che l’America che non indossa i grembiuli del Ku-Klux-Klan e che non ha come orizzonte ideale la sopraffazione del suo presidente si vergogna.
Persino nel ruolo di Comandante in Capo delle Forze Armate ha fatto ridere, quando non appena vista la manifestazione fuori dai cancelli della Casa Bianca è scappato come un coniglio nel bunker. In una America che vive del mito degli eroi vincenti contro tutto e tutti, emerge l’immagine del suo Comandante in Capo che ha paura di tutto e tutti. Adesso, vistosi negare l’intervento dei militari, ha fatto erigere a circondare la Casa Bianca un muro “provvisorio” di blocchi di cemento e recinzioni. Non deve essere un genio il suo consulente dì immagine: trasformare il luogo politico più importante del mondo in una sorta di rifugio per conigli non sembra una grande idea, così come la fuga nel bunker non offre proprio un’immagine di leader. Anche perché il bunker della Casa Bianca è destinato alla difesa del Presidente in caso di conflitto nucleare e non di qualche cartello innalzato dai manifestanti.
Fino a poche settimane fa, per alcuni commentatori la corsa di Trump verso il secondo mandato appariva in discesa mentre altri prefiguravano un ben diverso scenario. Ma se i vertici militari hanno stabilito la fine del legame con il Presidente outsider, significa che con l’approfondirsi dei livelli di povertà e disoccupazione e con la gestione imbecille dell’emergenza sanitaria, qualcosa è cambiato. Infatti, nonostante le debolezze dei democratici, la rielezione di Trump non era mai sembrata certa, sebbene i Dem, come sempre, siano corsi in soccorso dei repubblicani annunciando una candidatura centrista e opaca, certamente non in grado di mettere Trump nell’ombra.
Per quanto oggi Biden voglia apparire come feroce oppositore appare impossibile identificarlo con un ripensamento del modello. E gli scandali legati ai rapporti tra suo figlio e il governo fascista ucraino, che secondo l’accusa avrebbero determinato un colossale conflitto d’interessi nell’intervento dell’allora vicepresidente, non l’aiuta.
La sua è una candidatura destinata a sperare nel progressivo distacco dell’elettorato colpito dalla crisi e dai poteri forti intenzionati a scaricare il tycoon, piuttosto che confidare in un voto democratico che non arriverà a coinvolgere giovani e lavoratori colpiti dal modello. Perché quel grigio candidato, politicante da sempre con tutti ma mai leader politico di nessuno, alla fine rappresenta l’establishment e non le vittime dello strapotere dello stesso.
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- Scritto da Michele Paris
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Una decisione presa questa settimana dal presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha confermato come molti paesi alleati degli Stati Uniti continuino ad attraversare un periodo di turbolenza strategica principalmente a causa delle tensioni crescenti tra Washington e Pechino. Il governo di Manila ha effettuato cioè una nuova giravolta, sospendendo un processo innescato meno di quattro mesi fa che avrebbe costretto i militari americani ad abbandonare il territorio del paese-arcipelago.
Al cento della vicenda c’è il cosiddetto “Visiting Forces Agreement” (VFA), ovvero l’accordo bilaterale del 1998 che aveva fissato le basi legali della presenza di soldati americani nelle Filippine, sia pure su base formalmente temporanea e “a rotazione”. Questo accordo era stato stipulato tra i due storici alleati per annullare di fatto gli effetti della precedente decisione delle Filippine di chiudere tutte le basi militari permanenti dell’ex potenza coloniale in conseguenza dell’ondata di anti-americanismo che aveva attraversato il paese all’inizio degli anni Novanta. A livello ufficiale, il VFA serviva invece ad assicurare l’implementazione del Trattato di Mutua Difesa, sottoscritto tra i due paesi nel 1951.
Duterte aveva annunciato la cessazione del VFA nel mese di febbraio, subito dopo la decisione del governo di Washington di cancellare il visto d’ingresso negli Stati Uniti di alcuni funzionari e politici filippini accusati di violazione dei diritti umani, tra cui il senatore Ronald dela Rosa, stretto alleato del presidente. L’iniziativa non era comunque una risposta istintiva alla provocazione americana, ma il culmine del rimescolamento strategico perseguito da Duterte fin dalla sua elezione nel 2016 e che ha portato a un certo allentamento delle tensioni tra le Filippine e la Cina.
La fine del VFA avrebbe dovuto diventare effettiva il 9 agosto prossimo, al termine del periodo di 180 giorni previsto a partire dalla notifica ufficiale di uno dei due paesi firmatari. È facilmente ipotizzabile che su Duterte ci siano state pressioni enormi per convincerlo a tornare sui propri passi. Questo accordo è d’altra parte un elemento cruciale nei piani americani di contrasto e contenimento della Cina, visto che assicura una presenza militare massiccia e continuativa in un paese collocato in maniera strategica in caso di conflitto con Pechino.
Il VFA permette anche agli Stati Uniti di programmare esercitazioni militari e altre attività marittime congiunte con le forze armate filippine, considerate come una provocazione dal governo cinese. L’importanza del trattato bilaterale ha quindi con ogni probabilità fatto scattare l’allarme a Washington nel momento in cui Duterte ne aveva deciso la revoca.
Le pressioni statunitensi si sono poi sommate a quelle provenienti dall’interno della classe dirigente filippina, dove in molti non solo all’opposizione ma anche nello stesso governo del presidente continuano a chiedere il mantenimento di una politica estera allineata alle posizioni del principale alleato di Manila. A riprova di ciò, recentemente il ministro della Difesa, Delfin Lorenzana, aveva affermato in un’audizione al Senato che il VFA restava un elemento centrale per la sicurezza delle Filippine, a suo dire indispensabile soprattutto per ottenere assistenza immediata in caso di calamità naturali.
Altri politici vicini a Duterte avevano poi appoggiato una richiesta dei senatori dell’opposizione per costringere il presidente a sottoporre la sospensione del VFA al giudizio del Parlamento. Per ottenere ciò, alcuni senatori a inizio marzo si erano anche rivolti alla Corte Suprema, il cui parere non è però ancora stato espresso. Duterte era ben consapevole di queste resistenze e aveva allora optato per l’abrogazione del trattato tramite decreto presidenziale, assumendosi il rischio di una lunga contesa legale.
Molti commentatori in questi giorni hanno ricondotto la decisione di Duterte alle recenti manovre di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, dove i due paesi sono coinvolti in contese territoriali, spesso alimentate da Washington, che negli ultimi anni sono state motivo di pericolosi scontri. Nella lettera con cui il ministro degli Esteri filippino, Teodoro Locsin, ha informato l’ambasciata americana della decisione di Duterte di tenere in vita il VFA si fa riferimento infatti agli ultimi “sviluppi politici e d’altro genere nella regione”.
Parlando mercoledì ai giornalisti, lo stesso ministro è stato anche più esplicito, quando ha sostenuto che la mossa di questa settimana per mantenere la presenza di militari USA nelle Filippine è da collegare alla “escalation di tensioni tra le [due] superpotenze”. Per il ministro della Difesa Lorenzana, invece, il presidente avrebbe valutato “inopportuno” cancellare l’accordo con gli USA nel pieno dell’epidemia di Coronavirus.
In effetti, nelle ultime settimane si sono verificati alcuni fatti che devono avere creato una certa ansia a Manila. Ad aprile era circolata ad esempio la notizia che il governo Duterte nel mese di febbraio era ricorso ai canali diplomatici per protestare contro Pechino, dopo che una nave militare cinese aveva puntato le proprie armi contro un’imbarcazione filippina nelle isole Spratly, rivendicate da entrambi i paesi. I diplomatici filippini avevano anche espresso solidarietà al Vietnam dopo l’affondamento da parte cinese di un peschereccio di questo paese.
La questione più preoccupante per Manila e Washington può essere in ogni caso la possibile decisione della Cina di dichiarare una Zona di Identificazione di Difesa Aerea (ADIZ) nel Mar Cinese Meridionale che vada a sovrapporsi alla Zona Economica Esclusiva delle Filippine. Questa misura limiterebbe i movimenti aerei in una regione già caldissima, con conseguenze difficili da calcolare. Per questo motivo, Pechino ha finora esitato a muoversi in questa direzione, ma è possibile che il recente consolidamento delle posizioni militari cinesi nell’area contesa renda a breve fattibile e, soprattutto, difendibile l’istituzione di un’ADIZ.
La salvaguardia del VFA da parte di Duterte permette senza dubbio alla Casa Bianca di tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, il futuro della partnership strategica tra USA e Filippine non può essere dato per scontato. Ulteriori scosse sono anzi probabili, in particolare se si tiene conto del peso che avranno in ambito economico e commerciale i richiami cinesi per Manila nella fase post-Coronavirus.
Se i tempi di preavviso necessari per affondare il trattato del 1998 rendono improbabile un nuovo voltafaccia da parte di Duterte prima della fine del suo mandato nel 2022, lo stesso presidente non ha mancato di mettere sull’attenti gli alleati americani. Infatti, giovedì il portavoce di Duterte ha chiarito la posizione ufficiale del presidente, per il quale il processo di revoca del VFA, con la conseguente fine della presenza militare americana sul territorio delle Filippine, sarebbe solo sospeso, visto che resta uno degli obiettivi primari della politica estera dell’attuale amministrazione.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Dopo la provocazione del presidente Trump a Washington, dove è apparso in pubblico con una bibbia in mano, le proteste in corso negli Stati Uniti sono proseguite in maniera quasi del tutto pacifica. L’assenza di quelli che la stampa ufficiale ha definito “saccheggi” e “distruzione” in centinaia di città USA ha confermato il carattere autentico delle manifestazioni scaturite dall’assassinio di George Floyd, rendendo ancora più grave e inquietante la risposta delle autorità locali e il tentativo di mobilitazione dell’esercito con compiti di repressione da parte dell’inquilino della Casa Bianca.