L’arresto all’aeroporto Vnukovo di Mosca del “dissidente” russo Aleksei Navalny è stato accolto in Occidente con reazioni di sdegno a dir poco sproporzionate, anche se tutt’altro che inaspettate. L’intera sceneggiata del ritorno in patria del presunto eroe anti-Putin, vittima la scorsa estate di un avvelenamento altrettanto improbabile, sembra essere stata anzi orchestrata proprio da governi e servizi di sicurezza occidentali, con lo scopo di rilanciare l’immagine di un politico non esattamente popolare in Russia e, soprattutto, di intensificare le pressioni sul Cremlino alla vigilia del passaggio di consegne alla Casa Bianca.

 

È estremamente singolare il fatto che Navalny abbia deciso di rientrare in patria dopo essere scampato per miracolo a quello che viene descritto come un tentativo di assassinio da parte degli uomini di Putin. Nei suoi confronti era stato inoltre emesso un mandato di arresto pochi giorni prima della sua partenza dalla Germania. Proprio l’ordine della giustizia russa nei suoi confronti deve avere fornito a Navalny e ai suoi sostenitori in Occidente l’occasione per mettere in piedi la rappresentazione di domenica, attentamente documentata sui social, per fare del leader dell’opposizione un vero e proprio martire.

L’arresto di Navalny è dovuto al mancato rispetto dei termini di una condanna del 2014, poi sospesa dalla giustizia russa. Navalny non si era cioè presentato alle autorità penitenziarie russe a fine dicembre, come previsto dalle condizioni di semi-libertà concessegli, perché appunto convalescente in Germania. La condanna, che avrebbe dovuto scadere il 30 dicembre scorso, riguardava un’accusa di appropriazione indebita ed è stata ovviamente bollata come “politica” da media e commentatori occidentali. In un’udienza improvvisata lunedì, Navalny è stato condannato a 30 giorni di carcere e, subito dopo, ha pubblicato un video su YouTube per invitare i suoi sostenitori a scendere nelle strade per protestare. Una manifestazione in suo favore sarebbe stata programmata per sabato prossimo.

Il tono delle reazioni in Occidente è stato fissato domenica da un consigliere di Navalny, Leonid Volkov, il quale ha scritto su Telegram che il suo superiore sarebbe stato “rapito” e sarebbe perciò “in pericolo”, trovandosi “nelle mani di coloro che hanno già cercato di ucciderlo”. In rapida successione sono poi arrivate le denunce di governi e ONG. Significativa è stata in particolare la dichiarazione del prossimo consigliere per la sicurezza nazionale americano, Jake Sullivan, che ha chiesto l’immediato rilascio di Navalny e definito gli “attacchi” del Cremlino nei confronti di quest’ultimo “non solo una violazione dei diritti umani, ma anche un affronto al popolo russo che vuole far sentire la propria voce”.

Anche il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha invitato Mosca a liberare Navalny, mentre è toccato ai governi più ferocemente anti-russi dell’Unione Europea, quelli dei paesi baltici, prospettare l’ipotesi di nuove sanzioni contro la Russia. Il numero della diplomazia lituana, Gabrielius Landsbergis, ha in particolare annunciato l’impegno per “l’imposizione di misure restrittive” alla luce dei fatti di domenica.

Lo zelo dei governi “democratici” occidentali per la sorte di Aleksei Navalny è oggettivamente fuori luogo, non solo per il rilievo e i precedenti del più noto dei politici russi di opposizione, quanto meno in Occidente. Che lo sdegno e la mobilitazione a cui si sta assistendo in queste ore siano totalmente strumentali è evidente anche dal fatto che la stessa accusa che è costata l’arresto a Navalny domenica, cioè di aver violato le norme della libertà provvisoria, è la stessa contestata per molti anni a Julian Assange in Gran Bretagna e che lo ha costretto a un inferno culminato nel processo in corso per la possibile estradizione negli USA. Sulla diversa reazione dei politici e dei media occidentali ai casi di Navalny e Assange, così come sulla differenza di spessore tra questi ultimi, è superfluo qualsiasi commento.

La definizione del profilo “eroico” di Navalny va collegata alla campagna di demonizzazione del governo di Vladimir Putin che era iniziata dopo il suo avvelenamento, o presunto tale, la scorsa estate. Il rilancio dell’offensiva anti-russa a tre giorni dall’insediamento di una nuova amministrazione a Washington serve anche e soprattutto a fissare gli orientamenti del presidente eletto Biden nella gestione dei rapporti con Mosca. I nodi che nel concreto dovranno essere affrontati in questo clima avvelenato sono molteplici e vanno, ad esempio, dalla finalizzazione del gasdotto “Nord Stream 2”, che dovrebbe raddoppiare i collegamenti tra Russia e Germania, al prolungamento del trattato sulla non proliferazione nucleare “New START”, in scadenza a breve. Va ricordato anche che a settembre si terranno in Russia le elezioni parlamentari e l’operazione-Navalny punta perciò a dare un qualche impulso alla popolarità del “dissidente” preferito dell’Occidente a fronte di percentuali di gradimento renziane registrate in patria.

Navalny rappresenta una patata bollente per Putin solo nella misura in cui funge da punto di riferimento delle trame occidentali per fare pressioni sul Cremlino. L’assenza di una significativa base d’appoggio di Navalny in Russia comporta il ricorso a una lunga serie di menzogne da parte dei suoi sostenitori in Europa e negli Stati Uniti, così da dare l’idea di un leader perseguitato che, se non fosse per i metodi repressivi del regime, sarebbe probabilmente già alla guida del suo paese.

Al di là del giudizio sul governo di Mosca, il “caso” Navalny e la sua stessa figura sono così oggetto di falsificazioni per ragioni puramente politiche. Basti pensare ai ben documentati legami di Navalny ad ambienti di estrema destra in Russia, che stridono fortemente con l’immagine di paladino della democrazia e dei diritti civili. Per limitarsi ai fatti più recenti, la versione ufficiale dell’avvelenamento fa acqua da ogni parte e i dubbi emersi dopo il suo trasferimento in Germania lo scorso mese di agosto restano clamorosamente irrisolti, anche se la ricostruzione dei governi occidentali e dello stesso entourage di Navalny viene offerta come una verità incontrovertibile.

Anche senza ripercorrere nel dettaglio la vicenda, è sufficiente ricordare alcuni degli elementi oscuri e contraddittori regolarmente insabbiati dalla stampa “mainstream”. Il primo e più incredibile è l’inettitudine dei servizi segreti russi nel tentativo di assassinare Navalny, oltretutto con una modalità complicata come quella dell’avvelenamento con una sostanza tossica facilmente riconducibile a Mosca (“Novichok”), anche se non di esclusiva disponibilità russa. L’incompetenza degli agenti russi sarebbe inoltre recidiva, visto che solo un paio di anni prima avevano mancato, ancora una volta incredibilmente, l’uccisione in Gran Bretagna dell’ex agente segreto russo, Sergey Skripal, sempre ricorrendo all’uso del “Novichok”.

Questa stessa sostanza sarebbe estremamente letale, ma sia Skripal sia Navalny sono sopravvissuti e quest’ultimo, quasi per miracolo, non ha contaminato nessuna delle persone con cui è venuto in contatto dopo che si era imbarcato sul volo in seguito fatto atterrare nella città di Omsk per consentire di prestargli le cure necessarie. I medici russi che lo avevano trattato per primi non avevano riscontrato nessuna presenza di sostanze tossiche, ma la loro disponibilità a svolgere un’indagine con i colleghi tedeschi dell’ospedale di Berlino, dove Navalny sarebbe stato poi trasferito, non è mai stata presa in considerazione. Lo stesso dicasi per la richiesta di ricevere le informazioni relative alla diagnosi fatta su Navalny in Germania.

Il suo caso aveva assunto risvolti da farsa alla fine del 2020. Con un’altra campagna probabilmente coordinata a livello di governi e servizi di sicurezza occidentali, era circolato un video nel quale Navalny in prima persona contattava telefonicamente uno degli agenti russi responsabili del suo avvelenamento e, spacciandosi nientemeno che per il più stretto consigliere di Putin, Nikolai Patrushev, otteneva una confessione su quanto accaduto ad agosto. In precedenza, alcune testate giornalistiche occidentali e una russa vicina all’opposizione avevano pubblicato un’indagine che, a loro dire, aveva portato all’identificazione dei membri del team dei servizi segreti russi assegnato alla sorveglianza di Navalny e che lo avrebbe poi avvelenato.

A parte le nuove incongruenze della ricostruzione dei fatti, la storia presentava moltissimi punti deboli. Per cominciare, l’operazione era stata resa nota da un sito di “giornalismo investigativo” nominalmente indipendente ma con legami dimostrati ad ambienti NATO (“Bellingcat”) e già responsabile della disinformazione disseminata nel caso Skripal. Inoltre, se gli individui identificati appartenevano davvero al servizio segreto russo (“FSB”), è difficile credere che le informazioni che li riguardavano non fossero arrivate dall’intelligence occidentale. Per Bellingcat, invece, esse erano state reperite sul web e poi incrociate con altri dati ottenuti in passato da fonti anonime.

È anche molto difficile da credere che un agente dell’FSB, teoricamente addetto per anni alla sorveglianza di Navalny, non fosse stato in grado di riconoscere la voce di quest’ultimo, scambiandola per quella di Patrushev. Decisamente assurdo è infine che questo stesso agente abbia discusso liberamente al telefono per più di tre quarti d’ora di un’operazione a dir poco sensibile e fallita su tutta la linea, tanto da avere provocato una nuova crisi diplomatica internazionale. Il tutto appariva perciò come una montatura, ma tanto è bastato alla stampa e ai governi occidentali per dichiarare chiusa la vicenda e attribuire senza il minimo dubbio al Cremlino la responsabilità del molto presunto avvelenamento di Aleksei Navalny.

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