Le ultime settimane dell’amministrazione Trump hanno visto l’implementazione deliberata di una serie di provvedimenti sul fronte internazione che indicano il tentativo di fissare dei paletti ben precisi alla politica estera del presidente americano entrante, Joe Biden. La questione non riguarda solo l’Iran, ma anche e forse soprattutto la Cina, di gran lunga il principale rivale strategico degli Stati Uniti. A questo scenario va ricondotta l’ultima provocatoria iniziativa presa dal dipartimento di Stato a proposito di Taiwan, sia pure relativamente attenuata dalla cancellazione all’ultimo minuto di una clamorosa visita a Taipei dall’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite.

 

La scelta di Taiwan come fattore di pressione su Pechino da parte di Washington non è evidentemente casuale. L’isola è infatti considerata dalla Cina come parte integrante del proprio territorio e a esso dovrà essere prima o poi riunificata. Bisogna inoltre aggiungere un elemento storico tutt’altro che trascurabile, cioè il sostegno militare americano garantito al Kuomintang, fuggito appunto a Taiwan, dopo la guerra civile cinese e il ruolo avuto perciò dagli Stati Uniti nella separazione tra i due territori.

Taiwan resta così una questione vitale per la Cina, i cui leader sono disposti senza indugi a ricorrere anche all’opzione militare per impedire un’evoluzione indipendentista. Proprio per questa ragione, il segretario di Stato americano Pompeo ha deciso di adottare una nuova direttiva potenzialmente esplosiva in merito ai rapporti tra gli USA e Taiwan alla fine del mandato di Trump, ben sapendo che, se la provocazione verrà portata alle estreme conseguenze, la Cina non potrà astenersi dal rispondere duramente. In tal caso, i rapporti con Washington potrebbero incrinarsi a tal punto da impedire a Biden di riportare una certa stabilità nelle relazioni bilaterali.

Pompeo aveva annunciato lo scorso fine settimana la liquidazione di tutte le restrizioni auto-imposte dagli Stati Uniti ai contatti tra gli esponenti del governo americano e di quello taiwanese. Questi limiti, secondo Pompeo, avevano lo scopo di “tranquillizzare il Partito Comunista Cinese”, finendo in definitiva per impedire il consolidamento all’insegna dei principi democratici della partnership tra USA e Taiwan. Fin dall’ufficializzazione dei rapporti diplomatici con Pechino nel 1979, gli USA hanno rispettato ufficialmente la politica di “una sola Cina” e di fatto evitato contatti diretti ad alto livello con le controparti taiwanesi.

La posizione americana ha però sempre contenuto una contraddizione fondamentale, visto che gli USA hanno garantito e continuano a garantire forniture di armi a Taipei e si impegnano a difendere l’isola da eventuali tentativi di riunificazione con la forza da parte di Pechino. Su queste basi, il passaggio della Cina da potenziale alleato (in funzione anti-sovietica) o partner economico minoritario a rivale strategico per la supremazia in Asia e in tutto il pianeta ha comportato un drastico cambiamento di rotta da parte americana, non solo riguardo allo status di Taiwan. Ciò ha innescato una serie di pericolosi elementi di scontro con Pechino a partire almeno dalla fase centrale della presidenza Obama.

È tuttavia con Trump che la rivalità ha raggiunto livelli inquietanti e proprio la questione di Taiwan è stata in questi anni al centro di dispute accesissime. L’ultima in ordine di tempo doveva essere la visita di questa settimana a Taipei dell’ambasciatrice USA all’ONU, Kelly Craft, doppiamente provocatoria perché Taiwan non ha una rappresentanza al Palazzo di Vetro. Proprio gli incontri in veste ufficiale tra esponenti di Stati Uniti e Taiwan, assieme almeno alla vendita di armi, sono stati spesso l’arma usata dall’amministrazione Trump per irritare Pechino. Lo scorso agosto, ad esempio, il ministro della Sanità, Alex Azar, era stato l’esponente del governo americano più importante a visitare Taiwan negli ultimi trent’anni.

La notizia del cambiamento della politica USA sui contatti con Taipei e la trasferta di Kelly Craft sono state condannate duramente dalla Cina. Tanto più che lunedì l’ambasciatore americano in Olanda aveva ospitato il rappresentante di Taiwan in questo paese, pubblicando anche un tweet con una fotografia che ritraeva i due diplomatici. Il governo cinese aveva assicurato che gli Stati Uniti avrebbero pagato “un prezzo altissimo per le loro azioni”, per poi invitare Washington a mettere fine alle “assurde provocazioni” che creano sempre “nuovi ostacoli ai rapporti” bilaterali.

Alla fine, il governo USA ha annunciato la cancellazione della visita di Kelly Craft, facendo riferimento alle preparazioni per la transizione alla Casa Bianca. Il passo indietro potrebbe essere effettivamente legato al caos politico a Washington, ma non è inverosimile che l’amministrazione repubblicana uscente abbia sentito le pressioni di Pechino e deciso di allentare la presa per evitare conseguenze impreviste.

Del tutto possibile è anche un arretramento dovuto alle preoccupazioni di Taiwan, dove comunque l’accelerazione anti-cinese di Pompeo era stata accolta pubblicamente in maniera poco meno che trionfale. Il governo taiwanese, guidato da un partito indipendentista, teme chiaramente una reazione cinese e, allo stesso tempo, deve avere giudicato come rischiosa la visita dell’ambasciatrice americana alla vigilia dell’arrivo di Biden alla presidenza. L’amministrazione democratica entrante potrebbe assumere posizioni in parte più caute nei confronti di Pechino e l’eventuale precipitare delle relazioni tra Cina e Taiwan rischia di spiazzare Taipei proprio all’inizio della presidenza Biden.

Il prossimo presidente si ritroverà in ogni caso a gestire una situazione decisamente avvelenata sul fronte cinese. Come se non bastassero la guerra commerciale, gli scontri nel Mar Cinese Meridionale, la controversia su Huawei e la sfida in ambito tecnologico, Trump ha firmato una raffica di provvedimenti negli ultimi giorni con cui Biden dovrà fare i conti in caso di un reset diplomatico con Pechino. Tra gli altri, spicca quello sul divieto degli investimenti USA nelle compagnie che, secondo Washington, sono collegate alle forze armate cinesi. Un altro è lo stop ad alcune importazioni dalla regione dello Xinjiang, dove il governo americano ritiene ci siano campi di detenzione per la minoranza musulmana, costretta ai lavori forzati.

Quali saranno nel concreto gli orientamenti di Biden resta da vedere. A livello generale, è difficile credere in un cambiamento sostanziale rispetto all’atteggiamento di Trump, dal momento che, al di là degli eccessi del presidente uscente, l’inasprirsi della rivalità sino-americana ha cause oggettive riconducibili al declino della posizione internazionale di Washington e all’ascesa dell’economia e dell’influenza globale di Pechino.

Gli aspetti specifici che potrebbero cambiare, anche senza modificare la sostanza delle relazioni, li ha spiegati qualche giorno fa il prossimo direttore del Consiglio Nazionale per l’Economia americano, Brian Deese, nel corso di un evento pubblico in California. In un suo intervento, ha riportato la Nikkei Asian Review, l’economista nominato da Biden ha spiegato che, riguardo alla sfida con Pechino, il neo-presidente punterà, da un lato, a preferire l’impulso agli investimenti tecnologici domestici rispetto a tariffe e dazi. Dall’altro, il tentativo di contenimento della Cina non sarà più perseguito unilateralmente bensì in maniera multilaterale, “rinvigorendo” alleanze e partnership in tutto il pianeta.

In entrambi i casi, è tuttavia forte la sensazione che il treno cinese abbia ormai lasciato la stazione. Il primato economico e tecnologico della Cina appare irreversibile, mentre il miraggio di costruire un fronte “democratico” anti-cinese rischia di rimanere tale, come confermano, tra l’altro, l’avanzata dei progetti per la Nuova Via della Seta (“Belt and Road Initiative”), il mega-accordo di libero scambio da poco ratificato tra quindici paesi dell’Asia orientale e del Pacifico (“Regional Comprehensive Economic Partnership”) e quello ancora più recente sugli investimenti con l’Unione Europea.

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