Nella serata italiana di mercoledì, Donald Trump è diventato il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a subire due procedimenti di impeachment davanti al Congresso di Washington. Il voto, promosso dalla leadership democratica alla Camera dei Rappresentanti e appoggiato da una decina di deputati repubblicani, ha inviato al Senato la pratica di incriminazione per i fatti del 6 gennaio scorso, anche se è improbabile che il procedimento arrivi a conclusione in tempi brevi e, di certo, non prima dell’insediamento di Joe Biden.

 

Nonostante le pesantissime responsabilità di Trump nell’avere incitato l’assalto al Congresso, l’episodio tra i più bui della storia americana ha implicazioni che vanno ben al di là della Casa Bianca. Esse non verranno tuttavia sollevate né tantomeno indagate dal nuovo impeachment, lanciato anzi in fretta e furia dal Partito Democratico non solo per prevenire ulteriori colpi di mano del presidente uscente, ma anche proprio per abbassare rapidamente il sipario sui fatti di Capitol Hill e cercare di stabilizzare un sistema in profonda crisi.

L’iter del secondo tentativo di rimuovere Trump era iniziato martedì con l’approvazione sempre alla Camera di una risoluzione non vincolante che chiedeva al vice-presidente Mike Pence di deporre il presidente sulla base del 25esimo Emendamento alla Costituzione USA, previsto quando quest’ultimo non è più in grado di esercitare i propri poteri. Pence ha prevedibilmente confermato il suo rifiuto formalizzandolo con una lettera indirizzata alla speaker della Camera, Nancy Pelosi. I leader democratici erano così passati alla seconda opzione, cioè appunto la procedura di impeachment discussa e votata mercoledì.

A favore dell’incriminazione di Trump si sono espressi 232 deputati, di cui dieci repubblicani. 197 sono stati invece i contrari. L’accusa rivolta contro il presidente è di “incitamento all’insurrezione” e, salvo sorprese, sarà al centro di un “processo” che dovrebbe essere istruito al Senato. Per condannare Trump servirà una maggioranza dei due terzi dei senatori. Ciò significa che ai democratici serviranno almeno 17 voti repubblicani.

Il Senato, dove il Partito Repubblicano conserverà la maggioranza fino all’insediamento della nuova amministrazione e dei due senatori democratici neo-eletti in Georgia, non verrà in ogni caso riconvocato fino al 19 gennaio, cioè il giorno prima della fine del mandato di Trump. Non esiste una norma costituzionale condivisa sulla possibilità di sottoporre a impeachment un ex presidente, così non è da escludere che il procedimento possa essere lasciato cadere nelle prossime settimane. Se invece dovesse essere portato a termine, l’obiettivo sarebbe in primo luogo quello di impedire a Trump di ricandidarsi tra quattro anni o, come si vedrà in seguito, di risolvere i nodi politici esplosivi culminati nella crisi in corso.

Gli eventi senza precedenti che si stanno svolgendo a Washington testimoniano di un equilibrio politico estremamente precario, esposto come non mai al rischio di una deriva autoritaria o di un’esplosione delle tensioni sociali, portate al punto di rottura dalle conseguenze della pandemia in atto. Come già anticipato, il Partito Democratico sta cercando di limitare qualsiasi dibattito approfondito sulle cause della crescente minaccia rappresentata dalle forze di estrema destra aizzate da Donald Trump.

La mossa di Nancy Pelosi punta in altre parole a circoscrivere il problema, riconducendolo come sempre alla sola attitudine anti-democratica del presidente uscente. L’obiettivo è evidentemente di continuare a occultare le ragioni dell’emergere del populismo trumpiano, da ricercare precisamente nella deriva oligarchica del sistema politico americano e nella totale assenza di un’alternativa al radicalismo ultra-liberista imperante.

Questa tendenza a gettare acqua sul fuoco è evidente soprattutto nel comportamento di Biden. Il presidente eletto ha fatto intendere di non essere particolarmente entusiasta del procedimento di impeachment, anche se non si è opposto a livello ufficiale, e sta insistendo sulla retorica della “riconciliazione” con il Partito Repubblicano, in previsione di una qualche possibile iniziativa bipartisan nell’implementazione della sua agenda politica.

Dietro le quinte, è probabilmente diffuso però anche il timore di una nuova spinta eversiva degli ambienti di estrema destra, in qualche modo rinfrancati dalle dichiarazioni rilasciate martedì da Trump prima e durante la sua visita al confine con il Messico. Il presidente non ha espresso alcun rammarico per quanto accaduto settimana scorsa a Washington, per poi avvertire Biden e i democratici che un’azione volta a rimuoverlo o a impedire la sua candidatura nel 2024 rischierebbe di avere conseguenze imprevedibili.

La minaccia sembra essere concreta ed è confermata dal fatto che per il fine settimana, alla vigilia dell’insediamento di Biden, a Washington verranno mobilitati tra i 10 e i 15 mila uomini della Guardia Nazionale. La stampa americana ha inoltre pubblicato un documento dell’FBI nel quale si mette in guardia da proteste di gruppi armati di estrema destra in tutte le capitali dei cinquanta stati USA nei prossimi giorni. Queste dimostrazioni, avverte l’FBI, potrebbero sfociare in una “insurrezione” se Trump dovesse essere rimosso dal suo incarico.

La situazione è talmente tesa che i componenti dello Stato Maggiore americano hanno rilasciato anch’essi una dichiarazione straordinaria per affermare il rispetto dei risultati delle elezioni da parte dei vertici militari, invitando in modo esplicito tutti gli uomini in uniforme a garantire il pacifico passaggio di consegne da Trump a Biden. La presa di posizione decisamente fuori dall’ordinario suggerisce la presenza di elementi tutt’altro che indifferenti alle sirene trumpiane all’interno delle forze armate, soprattutto ai livelli medio-bassi della scala gerarchica. Le simpatie per l’estrema destra tra i militari americani sono d’altra parte risapute, tanto che il deputato democratico Jason Crow ha chiesto rassicurazioni al segretario dell’Esercito, Ryan McCarthy, circa la “fedeltà” dei membri della Guardia Nazionale che saranno impiegati per garantire la sicurezza durante la cerimonia di giuramento di Biden mercoledì prossimo.

Queste preoccupazioni vanno collegate alle notizie dei giorni scorsi circa la sostanziale inerzia delle forze di sicurezza di fronte all’assalto del Congresso malgrado fossero ben noti i segnali di un’azione violenta dei sostenitori di Trump. Tra le rivelazioni più recenti c’è quella di martedì del Washington Post che ha spiegato come l’FBI avesse avuto informazione del pericolo e in un rapporto avvertiva di una possibile “guerra” a Capitol Hill. Da questo segnale di allarme, come da molti altri rilevati ad esempio nella galassia dei social media, non è arrivato nessun provvedimento preventivo efficace, mentre anche dopo l’irruzione dei manifestanti al Congresso sono state registrate resistenze a prendere iniziative per ristabilire l’ordine.

Le ramificazioni politiche del caso Trump in questa fase finale del suo mandato si intrecciano alle preoccupazioni per il possibile precipitare della situazione e impediscono anch’esse di fare luce fino in fondo sulle responsabilità e i rischi ancora concreti di un colpo di mano dell’estrema destra. Emblematico in questo senso è il comportamento del leader uscente di maggioranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell. Il senatore del Kentucky avrebbe confidato al suo staff di gradire il secondo impeachment di Trump, anche se non è chiaramente nella posizione di dichiararlo in modo esplicito. McConnell intenderebbe sfruttare l’occasione per facilitare l’emarginazione dello stesso Trump e della fazione populista all’interno di un partito minacciato da una vera e propria spaccatura dopo i fatti del 6 gennaio.

Le sensazioni di McConnell sono probabilmente condivise anche dai vertici repubblicani alla Camera. Qui, il leader di minoranza Kevin McCarthy aveva fatto sapere prima del voto di mercoledì che avrebbe lasciato ai propri deputati libertà di scelta sul procedimento di impeachment introdotto dai democratici, incoraggiando di fatto una maggioranza bipartisan a favore dell’incriminazione del presidente. Anche in questo caso, sembra evidente la volontà di ricondurre al solo Trump i rigurgiti neo-fascisti che interessano il Partito Repubblicano.

Questa strategia comporta comunque non pochi rischi e viene perseguita con una certa cautela dai leader repubblicani, i quali devono fare i conti con un presidente uscente che può contare su un seguito importante nel paese e che potrebbe continuare a esercitare a lungo una profonda influenza sul suo partito.

Ciò che sta senza dubbio emergendo è il tentativo dei centri di potere tradizionali, che stanno convergendo sulla nuova amministrazione democratica, di mandare in porto una sorta di accordo pacificatore tra i due partiti in vista dell’uscita di scena di Trump. In aggiunta, con le altre manovre in atto, a cominciare dall’impeachment, si cercherà di delegittimare il movimento alimentato dal presidente uscente, in modo da reindirizzare tensioni e spinte centrifughe dentro la dialettica “democratica” consolidata.

Il livello di degrado e di delegittimazione del sistema è tuttavia talmente avanzato che questa scommessa rischia di essere persa in partenza e di garantire anzi alle forze ultra-reazionarie coagulate attorno a Trump ulteriori pericolosi spazi di manovra nel prossimo futuro.

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