Fino a che punto intende spingersi il presidente americano uscente Donald Trump nella sua battaglia contro i presunti brogli che lo avrebbero privato di un secondo mandato alla Casa Bianca? Le cause legali intentate in quasi tutti gli stati persi di misura e alcuni avvicendamenti di personale nel suo gabinetto stanno realmente preludendo a un colpo di mano per restare in carica o si tratta di manovre per ricavare un qualche vantaggio politico per il futuro? Questi interrogativi appaiono legittimi, alla luce del persistente rifiuto di Trump a riconoscere la sconfitta, ma le risposte dipenderanno dagli sviluppi dei prossimi giorni o delle prossime settimane e, probabilmente, da decisioni prese al di fuori dell’amministrazione repubblicana.

Dopo un mese e mezzo di durissimi combattimenti, Armenia e Azerbaigian si sono accordati su un cessate il fuoco definitivo, grazie alla mediazione russa, che prospetta un cambiamento significativo della configurazione territoriale dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh. Per Yerevan si tratta di una sconfitta difficile da sopravvalutare, mentre Baku può ritenere soddisfatti buona parte degli obiettivi rimasti frustrati per tre decenni. La Turchia di Erdogan, infine, mette un altro tassello alla propria ambiziosa politica di espansione, anche se, per quanto riguarda la regione caucasica, non ha potuto far altro che accettare i limiti imposti dal Cremlino.

Con la vittoria nelle presidenziali praticamente in tasca, Joe Biden e i leader del Partito Democratico stanno mandando i primi chiarissimi segnali circa gli orientamenti che la nuova amministrazione intenderà tenere una volta superata la resistenza e le cause legali minacciate da Donald Trump. Se il fatto di avere limitato la presenza di quest’ultimo alla Casa Bianca a un solo mandato è di per sé motivo di esultanza, l’avvicendamento con l’ex vice di Obama comporta una serie di altre problematiche, in alcuni casi non necessariamente meno inquietanti, visto anche che la nuova amministrazione democratica sarà in linea generale solo leggermente meno spostata a destra di quella repubblicana uscente.

Per la prima volta dal 1992, un presidente in carica non viene rieletto per il secondo mandato. Soprattutto, per la prima volta, più che generare attese per chi arriva, produce sospiri di sollievo ed allegria per la cacciata di chi c’era. Perché? Perché quella di Biden non é una vittoria che prelude ad un cambiamento di sostanza. Dal punto di vista dello stile di governo è evidente come Biden disponga di una educazione formale ed una cultura politica che lo differenzia anni luce dal cafone testè sfrattato ed anche sotto il profilo comportamentale appare difficile assimilarli. Improbabile sentire Biden che definisce shithole i paesi del sud del mondo, che propone di usare armi nucleari contro un tifone o candeggina contro il Covid; questo almeno ci verrà risparmiato.

Ma se sul piano estetico la differenza sarà evidente, così non sarà nella sostanza delle scelte di fondo. Ambedue sono convinti sostenitori del modello e strenui difensori dell’eccezionalismo statunitense, che altro non è se non l’interpretazione giustificativa dell’imperialismo. Entrambi ritengono che la finanza debba essere la leva centrale del sistema economico e che le banche debbano recitare il ruolo di direzione tecnico-politica delle politiche fiscali. Entrambi accettano che siano le grandi corporation a indicare la barra delle politiche socioeconomiche ed entrambi credono che il ruolo dello Stato debba ridursi a quello di un corpo intermedio che si colloca tra i cittadini e i poteri forti, con i primi nel ruolo di vittime e i secondi in quello di carnefici.

Dopo quasi due giorni dalla chiusura delle urne, gli Stati Uniti non conoscono ancora il nome del prossimo presidente, anche se l’evoluzione dei conteggi negli stati in bilico sembra avvicinare un esito favorevole al candidato democratico Joe Biden. Con l’attribuzione dei successi in Michigan, Wisconsin e, molto probabilmente, Arizona, all’ex vice-presidente mancano ora solo pochissimi “voti elettorali” per raggiungere quota 270 e assicurarsi la Casa Bianca. A far persistere un certo senso di incertezza è tuttavia la strategia del presidente Trump per cercare di restare al suo posto, affidata per il momento a una serie di cause legali che, nella peggiore delle ipotesi, minacciano di precipitare l’America in una gravissima crisi istituzionale.


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