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La discussione tra Russia e Stati Uniti attorno al rinnovo dell’ultimo trattato bilaterale rimasto in piedi contro la proliferazione delle armi nucleari ha subito mostrato questa settimana tutti gli ostacoli che attendono i delegati delle due potenze. L’atteggiamento americano è ancora una volta l’ostacolo principale a un possibile accordo.
I calcoli strategici di Washington sono infatti in piena evoluzione e minacciano di riservare al cosiddetto “New START” la stessa sorte già toccata a un lungo elenco di altri trattati abbandonati negli ultimi anni dal presidente Trump e dai suoi predecessori.
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La polemica scatenata dal libro di memorie in uscita martedì negli Stati Uniti dell’ex consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Bolton, ha riportato alla luce tutte le divisioni all’interno dell’apparato di potere americano attorno agli indirizzi di politica estera e alle decisioni – prese e mancate – dell’amministrazione Trump in questo ambito.
L’operazione mediatico-letteraria del super-falco “neocon” Bolton è stata accolta con ferocia dal presidente e dai suoi sostenitori, soprattutto dopo il fallito tentativo di fermarne la pubblicazione per vie legali, mentre le reazioni nel Partito Democratico sono apparse più sfumate. I leader democratici hanno attaccato a loro volta Bolton, ma più che altro perché le sue rivelazioni sul comportamento del presidente sono arrivate tardi, mentre avrebbero fatto comodo durante il fallito procedimento di impeachment.
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Il più grave scontro di confine degli ultimi 45 anni tra Cina e India ha rappresentato questa settimana il culmine raggiunto finora da un conflitto che affonda le radici nelle dinamiche geo-strategiche in corso nel continente asiatico, sulla spinta delle ambizioni dei due paesi e, ancor più, delle manovre americane nel tentativo di contenimento della crescita cinese.
I venti soldati morti denunciati dal governo di Nuova Delhi e un numero imprecisato di possibili vittime tra le fila dell’Esercito del Popolo sono un bilancio pesantissimo che testimonia il livello di esplosività raggiunto dalle dispute lungo la cosiddetta “Linea Attuale di Controllo”, cioè il confine sino-indiano lungo oltre 3.500 chilometri e conteso in più punti.
La gravità di quanto accaduto nella serata di lunedì è accentuata dal fatto che le delegazioni militari dei due paesi stavano negoziando un’intesa per allentare le tensioni, riesplose da alcune settimane. Anzi, le due parti sembravano aver raggiunto un punto d’incontro, proprio poco prima degli eventi registrati nella Galwan Valley, situata nella regione himalayana del Ladakh orientale.
La contesa sarebbe avvenuta senza che sia stato sparato un colpo. I militari indiani e cinesi coinvolti si sono affrontati lanciando pietre e utilizzando bastoni. Inizialmente, i vertici delle forze armate indiane avevano parlato di tre morti, di cui due soldati e un ufficiale, ma nella serata di martedì il bilancio è stato aggiornato con altre 17 vittime, ferite in precedenza ed esposte a temperature sotto lo zero. Nonostante le tensioni alle stelle, le stesse autorità indiane sempre martedì hanno alla fine confermato che la situazione è tornata a una relativa normalità.
I due governi si sono prevedibilmente scambiati accuse reciproche circa le responsabilità dell’accaduto. Il ministero degli Esteri indiano ha spiegato che l’incidente sarebbe da ricondurre al “tentativo cinese di cambiare unilateralmente lo status quo” lungo il confine, forse attraverso la costruzione di un punto di osservazione o di qualche altra struttura militare in una zona controllata da Delhi. Per Pechino, al contrario, sarebbero stati gli indiani a “lanciare un attacco provocatorio” e a sconfinare in territorio cinese.
La vallata himalayana al centro di questi ultimi scontri era già stata motivo di contesa durante la guerra del 1962 tra Cina e India. Dai primi di maggio di quest’anno, gli attriti sono tornati a manifestarsi pericolosamente dopo un faccia a faccia tra militari di pattuglia dei due paesi nella località di Pangong Tso.
Per quanto riguarda gli ultimi sviluppi, alcune ricostruzioni ipotizzano che Pechino abbia posizionato un numero consistente di militari, equipaggiati di armamenti pesanti, in un tratto di terra a ridosso del confine dove in precedenza non c’era traccia di presenza cinese. Questa mossa sarebbe stata la risposta alla costruzione di infrastrutture da parte indiana, tra cui edifici fortificati e strade probabilmente anche in una zona di pertinenza cinese, che permetterebbero a Delhi di ottenere un vantaggio strategico cruciale nell’area contesa.
Scaramucce di varia intensità sono piuttosto frequenti, ma si risolvono quasi sempre con accordi verbali raggiunti dagli ufficiali indiani e cinesi. Prima di questa settimana, le ultime vittime indiane erano state registrate nel 1975, mentre per trovare un bilancio così grave è necessario risalire al 1967.
La diversa qualità degli eventi di lunedì renderanno difficile un ritorno senza scosse alla situazione precedente. Episodi di questo genere servono soprattutto al governo di estrema destra di Nuova Delhi per alimentare i sentimenti nazionalisti, utili al perseguimento di obiettivi strategici ben precisi, da collegare alle ambizioni da grande potenza della classe dirigente indiana e all’allineamento in atto alle posizioni anti-cinesi di Washington.
Per l’analista indiano Shishir Upadhyaya, ad ogni modo, la ragione più profonda dell’inasprimento del confronto è il riassestamento degli equilibri di potere tra le due potenze nucleari asiatiche e, in particolare, “l’espansione delle ambizioni marittime cinesi nell’oceano Indiano, in grado potenzialmente di indebolire o annullare il vantaggio strategico” di Delhi in queste acque. In conseguenza di ciò, l’India continua a partecipare a iniziative anti-cinesi, come la partnership quadrilaterale che include Stati Uniti, Giappone e Australia, alimentando ancora di più le tensioni con Pechino, col rischio di vedere esplodere pericolose crisi anche in altre aree calde del confronto.
Il ruolo americano risulta inoltre centrale in queste dinamiche. Il deterioramento del clima in Asia centro-meridionale è d’altra parte e in primo luogo la diretta conseguenza del riassetto strategico di Washington in quest’area del pianeta per contrastare la sfida cinese. Nei piani USA, l’India svolge un ruolo determinante fin dai tempi dell’amministrazione di George W. Bush.
Le élites indiane restano peraltro divise sull’opportunità di puntare interamente su Washington per promuovere i propri interessi, a fronte delle opportunità economico-commerciali prospettate dalla Cina, ma l’approdo alla guida del paese dell’attuale primo ministro, Narendra Modi, ha segnato un’accelerazione dell’allineamento con gli Stati Uniti. Ciò ha fatto per contro dell’India un elemento centrale della controffensiva cinese, con i risultati che si sono potuti osservare questa settimana lungo la linea di confine nella regione himalayana.
In questo quadro, la proposta fatta a maggio dal presidente americano Trump di mediare tra India e Cina per sbloccare lo stallo di confine non solo è stata respinta, soprattutto da Pechino, ma è stata valutata correttamente dalla leadership cinese come un nuovo tentativo di intromissione di Washington per favorire il governo di Delhi.
La lettura di Pechino degli eventi di lunedì appare particolarmente significativa. Il sito di news del governo cinese Global Times ha spiegato come l’India stia ostentando un’attitudine aggressiva sulle questione di confine in primo luogo perché “ritiene che la Cina non desideri incrinare i rapporti con Delhi per via delle crescenti pressioni strategiche degli USA”. In altri termini, la Cina tenderebbe a evitare una risposta forte alle presunte provocazioni indiane per non ritrovarsi ancora più isolata di fronte all’offensiva congiunta di Washington e Delhi.
Per la leadership cinese questa attitudine indiana è del tutto erronea, così come lo è un’altra considerazione che, sempre secondo Pechino, sarebbe alla base delle decisioni dell’amministrazione Modi nella regione di Ladakh. Vale a dire l’illusione che le forze armate indiane siano superiori a quelle cinesi, soprattutto grazie al sostegno americano, assicurato dai vari accordi in ambito militare, tecnologico e logistico sottoscritti da Delhi e Washington negli ultimi anni.
Visto il livello di rischio che comporterebbe un’escalation dello scontro, è opinione comune che Cina e India finiranno per risolvere pacificamente, almeno per il momento, la disputa di confine più recente. Le forze in gioco sono però tali da rendere estremamente improbabile una risoluzione definitiva del conflitto tra i due paesi, i cui interessi si scontrano anzi su molteplici fronti, dal Pakistan al Mar Cinese Meridionale, dalle Maldive allo Sri Lanka. Il fattore di gran lunga più esplosivo resta comunque l’inevitabile intreccio della rivalità sino-indiana con le manovre in Asia di Washington e la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina che sta segnando sempre più il panorama internazionale degli ultimi anni.
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Dopo quattro mesi di negoziati, i due partiti che si sono tradizionalmente divisi il potere nella Repubblica d’Irlanda hanno raggiunto un faticoso accordo per provare a far nascere un nuovo inedito governo con la partecipazione dei Verdi. Fianna Fáil e Fine Gael non hanno mai fatto parte di uno stesso esecutivo in tutta loro storia, nonostante gli orientamenti conservatori che accomunano entrambi. La forte crescita del Sinn Féin nelle elezioni di febbraio e la crisi scatenata dall’epidemia di Coronavirus hanno però costretto i due principali partiti irlandesi a prendere una decisione che, almeno in prospettiva, potrebbe avere effetti dirompenti sugli equilibri politici di questo paese.
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Le proteste contro la brutalità della polizia negli Stati Uniti hanno preso nuovo vigore nel fine settimana in conseguenza di un altro assassinio di un americano di colore, accaduto questa volta ad Atlanta, in Georgia. Nel contempo, le dimostrazioni stanno stimolando un acceso dibattito nel paese e dando vita a svariate proposte di riforma delle forze di sicurezza. La mobilitazione popolare senza precedenti negli ultimi decenni continua tuttavia a non avere un chiaro obiettivo politico e rischia di svanire, se non sotto i colpi della repressione auspicata dall’amministrazione Trump, nelle paludi della “battaglia” esclusivamente razziale promossa dagli ambienti più o meno legati al Partito Democratico.
Già le manifestazioni che si erano allargate a macchia d’olio dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis il 25 maggio scorso avevano messo all’ordine del giorno la necessità di intervenire a livello federale e locale per limitare le violenze delle forze di polizia. Al Congresso di Washington, la maggioranza democratica nella Camera dei Rappresentanti aveva presentato un disegno di legge che, sia pure tutt’altro che radicale e con poche possibilità di essere appoggiato dai repubblicani, rappresenta un segnale di risposta della classe politica USA alle richieste provenienti dai dimostranti.
Negli ultimi giorni si sono mossi in maniera più incisiva anche sindaci, consigli comunali e governatori con azioni legislative che potrebbero ricevere un impulso dai fatti di Atlanta di venerdì scorso. In California, ad esempio, sono state proibite dal governatore democratico Gavin Newsom le manovre più estreme a cui ricorrono spesso gli agenti di polizia per immobilizzare i sospettati e che rischiano di provocare il soffocamento.
Nello stato di New York, invece, il governatore Andrew Cuomo, anch’egli democratico, ha firmato una nuova legge che proibisce questo stesso strumento a disposizione delle forze dell’ordine, mentre diventerà meno complicata la pubblicazione dei precedenti disciplinari degli agenti di polizia. A Washington, infine, il consiglio comunale ha approvato una misura per ora provvisoria che limita le protezioni di cui godono i poliziotti coinvolti in procedimenti penali.
La misura più significativa è stata registrata a Minneapolis, dove venerdì il consiglio comunale ha votato all’unanimità una risoluzione che promuove la stesura di un piano per individuare un nuovo sistema di gestione della sicurezza dopo che alcuni giorni prima era stato sciolto clamorosamente il dipartimento di Polizia della città. I membri del consiglio della metropoli del Minnesota e lo stesso sindaco democratico, Jacob Frey, hanno insistito prevedibilmente sul fattore “razziale” nel denunciare il sistema da riformare e nel prospettare quello che dovrebbe nascere.
I due argomenti preferiti che sarebbero emersi dalle proteste di queste settimane sono in effetti lo smembramento delle forze di polizia, per essere sostituite da progetti partecipativi delle varie comunità locali dai contorni non del tutto chiari, e la riduzione dei fondi destinati alla polizia così da mettere a disposizione maggiori risorse per programmi sociali. Se la prima ipotesi ha trovato pochi sostenitori negli ambienti ufficiali, ad eccezione della città di Minneapolis, la seconda risulta decisamente popolare anche tra molti politici, soprattutto democratici.
Ciò che sembra fare la differenza tra gli eventi attuali e quelli molto simili, anche se di portata minore, degli anni scorsi scaturiti da episodi di violenza delle forze di polizia è appunto il sostegno garantito alle proteste dal Partito Democratico americano, così come, entro certi limiti, da alcune grandi banche e corporations. I vertici militari, inoltre, hanno espresso più volte la loro opposizione a un intervento dell’esercito per reprimere le proteste, contraddicendo apertamente le indicazioni della Casa Bianca.
Gli stessi orientamenti sono in parte visibili a proposito della “comune” auto-gestita creata in alcuni quartieri della città di Seattle, nello stato di Washington. Il presidente Trump ha scritto un tweet minaccioso nei giorni scorsi intimando alle autorità locali di mettere fine all’esperimento, ma fino ad ora sembra esserci poco interesse a intervenire, sia da parte del sindaco sia del governatore, entrambi democratici. Questa sorta di protezione per il momento garantita agli attivisti della cosiddetta Capitol Hill Autonomous Zone (CHAZ) è dovuta in larga misura al fatto che a svolgere un ruolo di spicco in essa è il gruppo Black Lives Matter (BLM), protagonista assoluto, almeno per i media ufficiali, delle manifestazioni in atto.
Quest’ultimo fattore offre lo spunto per qualche considerazione interessante sugli attuali scenari americani. L’aspetto più importante e, probabilmente, meno confortante è che determinate forze legate al “sistema” stanno cercando di incanalare le dimostrazioni contro la brutalità della Polizia USA verso un epilogo inoffensivo, principalmente attraverso iniziative di legge o proposte di “riforma” in larga misura di facciata.
Simili sforzi sono da ricondurre al Partito Democratico e a organizzazioni della società civile che a esso fanno riferimento, come la stessa Black Lives Matter. In questo senso, il tentativo di cavalcare le proteste serve anche a proseguire la lotta contro l’amministrazione Trump, dopo i fallimenti del “Russiagate” e del procedimento di impeachment, in modo da trasformare la mobilitazione in corso in uno strumento elettorale per portare Joe Biden alla Casa Bianca.
La genuinità degli scrupoli del Partito Democratico per la battaglia contro i metodi violenti della polizia è facilmente immaginabile se si pensa che, durante i due mandati di Obama alla Casa Bianca e con una maggioranza democratica al Congresso, le forze dell’ordine negli Stati Uniti hanno ucciso in media più di mille persone ogni anno. Allo stesso tempo, l’ultima amministrazione democratica guidata da un presidente di colore aveva rafforzato i programmi che prevedono il trasferimento di equipaggiamenti militari ai dipartimenti di polizia americani e quasi sempre preso le parti degli agenti accusati di omicidi e violenze nelle rare occasioni in cui questi ultimi erano oggetto di incriminazioni.
Questa realtà è confermata dal fatto che Black Lives Matter è un prodotto dell’establishment liberal e attinge da contributi non esattamente disinteressati di entità riconducibili a Wall Street o ad altri grandi interessi economici legati al sistema di potere, come la Ford Foundation. L’obiettivo è quello di evitare una mobilitazione unitaria contro il sistema e le forze di Polizia come strumento della classe che detiene il potere negli Stati Uniti. Analizzando i dati, d’altra parte, emerge come gli afro-americani siano proporzionalmente la minoranza che registra il maggior numero di morti per mano della polizia, ma in senso assoluto sono i bianchi le vittime più numerose. Anche alle manifestazioni, secondo alcune indagini, sarebbero sempre i bianchi a partecipare in numero più consistente.
A far parte e a trovare interesse nelle manifestazioni allargatesi in fretta in queste settimane sono quindi, come minimo, centinaia di migliaia di americani delle classi più oppresse e senza distinzione di razza, finalmente in grado di intravedere un’alternativa al vicolo cieco di una politica bloccata e dai caratteri oligarchici.
La vera sfida non sembra essere perciò tanto o non solo tra i dimostranti e le autorità, quanto tra la massa scesa nelle strade di centinaia di città americane, che nutre speranze di cambiamento soprattutto in ambito economico e sociale, e quei gruppi organizzati che perseguono un disegno politico limitatissimo e riconducibile ai soli termini razziali del problema.
Gli eventi di questi giorni segnano in ogni caso una salutare inversione di tendenza rispetto alla deriva reazionaria che ha segnato il clima politico americano degli ultimi decenni. Il predominio di ambienti che rappresentano solo un’altra faccia della classe dirigente rischia tuttavia di neutralizzare il potenziale rivoluzionario o, per lo meno, le speranze di cambiamento in senso progressista e di favorire un colpo di mano delle forze di estrema destra, fomentate ogni singolo giorno dal presidente Trump e dalla sua amministrazione.