La condanna dei dazi americani sulle importazioni cinesi, emessa questa settimana dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), potrebbe aprire una nuova linea d’attacco per l’amministrazione Trump contro le strutture sovranazionali e le norme che regolano gli scambi internazionali. Anche se la conclusione del tribunale del WTO rappresenta dal punto di vista legale una sconfitta per Washington, è infatti fuori discussione che la Casa Bianca possa decidere di adeguarsi in un futuro più o meno lontano.

A oltre cinque anni dall’inizio dell’aggressione dell’Arabia Saudita contro lo Yemen, gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo cruciale nel conflitto che è diventato da tempo il più grave disastro umanitario attualmente in corso nel pianeta. Dal 2015, entrambe le amministrazioni succedutesi a Washington hanno cercato e ostentato motivazioni pseudo-legali per giustificare l’appoggio ai regimi direttamente responsabili del massacro. Dietro le quinte, però, si stavano svolgendo accese discussioni tra i consiglieri legali del dipartimento di Stato e i loro superiori, tutti consapevoli di essere in presenza di azioni che avrebbero potuto portare ad accuse per crimini di guerra anche ai più alti livelli del governo americano.

Con la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele da una parte ed Emirati Arabi Uniti e Bahrein dall’altra, ratificata martedì alla Casa Bianca, è stata di fatto liquidata – e con un gesto di aperto tradimento – la questione palestinese come elemento centrale dell’approccio dei paesi arabi allo stato ebraico. Lo “storico” accordo è il frutto degli sforzi dell’amministrazione del presidente americano Trump, che spera di raccoglierne i frutti nelle elezioni di novembre, ma risponde anche ai calcoli dei regimi coinvolti. Che la clamorosa svolta possa portare i risultati sperati per questi ultimi, rimane tuttavia in forte dubbio.

Una nuova conferma del carattere orwelliano della compagnia fondata da Jeff Bezos si è avuta nei giorni scorsi con l’ingresso nel consiglio di amministrazione di Amazon dell’ex numero uno della famigerata Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), Keith Alexander. La scelta dell’ex generale risponde ad alcune esigenze ben precise dell’evoluzione di Amazon, non da ultima quella della sorveglianza e del controllo quasi totale della propria forza lavoro.

Alexander è stato per quasi cinque anni – dall’agosto 2005 al maggio 2010 – il principale responsabile dei programmi di raccolta indiscriminata di informazioni sulle comunicazioni elettroniche degli utenti di praticamente tutto il mondo. Le operazioni da regime totalitario della NSA furono rivelate al mondo da Edward Snowden nel 2013 e, in un riconoscimento tardivo quanto sterile, proprio settimana scorsa la parte relativa al monitoraggio massivo dei cittadini americani è stata dichiarata illegale e anticostituzionale da un tribunale federale.

Le ultime rivelazioni sulla duplicità del presidente americano Trump nella gestione dell’emergenza Coronavirus hanno aperto un nuovo fronte di attacco per i democratici a meno di otto settimane dalle elezioni. Il comportamento indiscutibilmente criminale dell’inquilino della Casa Bianca non è però una sorpresa, così che le indiscrezioni che questa settimana hanno anticipato l’uscita dell’ultimo libro del noto giornalista, Bob Woodward, sembrano essere una testimonianza d’accusa più per quest’ultimo e i suoi contatti nel governo e nei media che per lo stesso presidente.

Woodward, noto in tutto il mondo per avere rivelato lo scandalo Watergate che nel 1974 costrinse alle dimissioni Richard Nixon, ha consegnato mercoledì alla stampa USA alcune registrazioni delle 18 interviste concessegli da Trump per il suo ultimo lavoro (“Rage”), in uscita la prossima settimana.

Le frasi più incriminanti per il presidente riguardano appunto le fasi iniziali dell’epidemia. Il 7 febbraio, ad esempio, Trump confidava all’anziano giornalista di avere appena discusso del virus col presidente cinese, Xi Jinping, dal quale aveva avuto conferma del fatto che il COVID-19 poteva avere un impatto “mortale”, molto peggio della “influenza più aggressiva” e con una possibile percentuale di mortalità del “5%”. Trump spiegava anche come il virus avesse un alto livello di contagiosità, “per via aerea”, mettendo in luce un approccio “scientifico” molto diverso da quello tenuto a livello pubblico.

Ancora prima, sul finire di gennaio, Trump era stato anche avvisato dal suo consigliere per la Sicurezza Nazionale, Robert O’Brien, del fatto che l’epidemia sarebbe stata “la più grave minaccia alla sicurezza nazionale della sua presidenza”. Agli americani, però, Trump continuava ad assicurare che la malattia esplosa in Cina e in arrivo anche negli USA non costituiva una minaccia maggiore di un comune raffreddore e che, con ogni probabilità, sarebbe svanita di lì a poco nel nulla senza particolari conseguenze.

Il negazionismo ostentato da Trump, nonostante le informazioni che la sua amministrazione aveva a disposizione, ha provocato una perdita di tempo di settimane che avrebbero potuto risultare determinanti nel frenare il contagio e salvare migliaia di vite. Per spiegare il suo comportamento, nell’intervista a Woodward del 19 marzo seguente, Trump ammetteva di avere minimizzato la pericolosità del virus e che lo avrebbe fatto ancora, in quanto non voleva “creare il panico” negli Stati Uniti.

L’unico panico che Trump intendeva evitare era in realtà quello che poteva scatenarsi a Wall Street. Dall’inizio del suo mandato, il riferimento praticamente esclusivo delle prestazioni dell’amministrazione repubblicana è rappresentato dagli indici di borsa. In fretta e furia, infatti, ancora a marzo la Casa Bianca e il Congresso prepararono un mega-pacchetto di sostegno all’economia da seimila miliardi di dollari, in gran parte destinato al mondo degli affari.

Per il resto, pur essendo perfettamente consapevole dei rischi, Trump si mise alla guida di una campagna inizialmente per tenere aperti tutti i settori dell’economia e, dopo un periodo di lockdown ottenuto solo a seguito delle proteste che si erano diffuse nel paese, per far tornare i lavoratori nelle fabbriche. Il ritorno forzato al lavoro e l’allentamento delle misure restrittive avrebbero poi determinato una nuova vertiginosa impennata di contagi e decessi.

Le rivelazioni di Woodward sono dunque una prova del fatto che Trump ha mentito deliberatamente sul Coronavirus e, così facendo, ha favorito l’esplodere del contagio in tutti gli Stati Uniti. Per contro, la testimonianza del veterano giornalista del Washington Post apre un ventaglio di responsabilità che non si fermano alla Casa Bianca.

Lo stesso Woodward ha preferito tacere sulla realtà che era emersa durante le sue interviste al presidente, probabilmente per non “bruciare” un’esclusiva che avrebbe potuto monetizzare rivelandola pubblicamente alla vigilia dell’uscita del suo libro, cioè questa settimana. Il suo silenzio lo rende evidentemente e in qualche modo complice del presidente e, infatti, sulla stampa americana è in corso un’accesa discussione attorno al fatto che il giornalista fosse tenuto o meno a rivelare agli americani la condotta di Trump e i rischi del virus.

C’è tuttavia dell’altro in questa vicenda. Woodward è un “insider” che può vantare agganci nell’apparato di potere USA come pochi altri nel mondo dei media ed è perciò probabile che non abbia deciso e agito da solo nella gestione del materiale esplosivo raccolto alla Casa Bianca. In altri termini, le informazioni che Woodward aveva in mano a febbraio e a marzo grazie alle dichiarazioni di Trump venivano sostanzialmente dall’intelligence americana e quindi, per definizione, erano a disposizione anche del Congresso e della stampa ufficiale.

Per quanto riguarda i politici, compresi quelli del Partito Democratico, è noto che ad almeno una parte di essi vengono consegnate regolarmente informazioni sensibili da parte dei servizi segreti. Una questione così importante come il probabile impatto di una pandemia doveva senza dubbio far parte precocemente dei briefing dell’intelligence ai leader del Congresso. A conferma di ciò c’è anche il fatto che alcuni deputati e senatori, anche democratici, già a fine gennaio decisero di vendere parecchie azioni dei loro portafogli in previsione di un possibile crollo dei mercati.

In merito alla stampa, è risaputo che giornali come New York Times e Washington Post ricevono puntualmente imbeccate dall’intelligence USA per pubblicare “esclusive” che servono a influenzare l’opinione pubblica o a colpire un determinato bersaglio politico. Visto anche che Bob Woodward era a conoscenza delle informazioni sul COVID-19, è di conseguenza probabile che almeno qualcuno all’interno dei media più importanti fosse a conoscenza della realtà.

La decisione di far passare la versione negazionista di Trump non è quindi solo da attribuire alla Casa Bianca, ma fu probabilmente una scelta collettiva della classe dirigente americana, d’altronde in sostanza concorde nel cercare di limitare l’impatto del virus sui grandi interessi economici e finanziari, anche se a costo di milioni di contagi e centinaia di migliaia di morti.

Il fatto che le rivelazioni su Trump ottenute da Woodward siano uscite solo ora dipende da due fattori. Il primo, già ricordato, è di natura editoriale, cioè l’imminente pubblicazione del libro del giornalista. Il secondo è tutto politico e, nelle intenzioni di quegli stessi ambienti che hanno taciuto sei mesi fa, la nuova offensiva contro la Casa Bianca serve a inasprire la battaglia elettorale in un momento in cui la candidatura di Joe Biden sembra vicina a esaurire la propria spinta, facendo intravedere lo spettro di un secondo mandato di Donald Trump.


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