- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Sul fatto che gli Stati Uniti e la loro politica estera rappresentino la forza più distruttiva del pianeta negli ultimi due decenni ci sono pochissimi dubbi. I numeri della devastazione esportata in decine di paesi sono tuttavia rimasti finora in larga misura sconosciuti o indefiniti, giocando sostanzialmente a favore dei difensori dell’imperialismo americano. Una scrupolosa ricerca condotta da un progetto di una università USA ha ora invece delineato in termini concreti lo sconvolgente bilancio – sia pure provvisorio e sottostimato – delle campagne belliche intraprese da Washington dopo l’11 settembre 2001. I risultati confermano come la promozione degli interessi a stelle a strisce abbia prodotto un livello di distruzione quasi senza precedenti nell’ultimo secolo.
Lo studio è firmato dalla Brown University e si concentra soprattutto sugli otto conflitti più violenti scatenati o a cui hanno partecipato gli Stati Uniti dal 2001: Afghanistan, Filippine, Iraq, Libia, Pakistan, Siria, Somalia e Yemen. Il dato indagato più a fondo dai ricercatori è quello del numero di profughi e richiedenti asilo che hanno creato queste guerre, la cui responsabilità è interamente o in grandissima parte da attribuire ai governi americani. Il totale stimato è di 8 milioni di persone costrette a fuggire all’estero e addirittura di 29 milioni di profughi interni.
Questo numero (37 milioni), già di per sé sconcertante, è come anticipato in precedenza da considerarsi di natura conservativa. Gli stessi autori della ricerca spiegano infatti che l’accuratezza dei calcoli su vittime e profughi nelle zone di guerra è tradizionalmente inadeguata. I numeri potrebbero perciò essere superiori anche di 1,5 o due volte quelli proposti.
Inoltre, lo studio considera, per quanto riguarda la Siria, il periodo successivo all’intervento diretto degli Stati Uniti nel 2014, ufficialmente per combattere lo Stato Islamico (ISIS). Se si includono al contrario anche gli anni dal 2011, cioè dall’inizio di un conflitto alimentato in primo luogo proprio da Washington tramite l’appoggio a gruppi armati islamici fondamentalisti, il totale dei rifugiati per tutte e otto le guerre dal 2001 a oggi potrebbe risultare in una cifra che va dai 48 ai 59 milioni.
Questo numero è paragonabile a quello relativo alla Seconda Guerra Mondiale, quando le persone costrette a lasciare i luoghi in cui vivevano sono valutate dagli storici tra i 30 e i 64 milioni. Comunque si considerino i dati, le guerre che nel nuovo secolo portano il marchio americano hanno già di gran lunga provocato maggiori sofferenze e danni materiali di alcuni dei conflitti più sanguinosi del 20esimo secolo, a molti dei quali gli USA presero parte. Nella Prima Guerra Mondiale, ad esempio, i profughi furono circa 10 milioni, nella guerra che segnò la separazione tra India e Pakistan 14 milioni, in Vietnam 13 milioni.
Per mettere in prospettiva questi numeri, la stima più prudente sui rifugiati – 37 milioni – corrisponde grosso modo all’intera popolazione del Canada. Le guerre USA sono poi responsabili del raddoppiamento del numero dei rifugiati avvenuto su scala globale tra il 2010 e il 2019 (da 41 a 79,5 milioni). Singolarmente, nessun dipartimento o agenzia governativa americana ha tenuto il conto dei danni provocati in questo ambito. I ricercatori hanno perciò dovuto appoggiarsi alle informazioni messe a disposizione da organizzazioni internazionali, come l’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR).
Quelle che dunque per la retorica di Washington sono state iniziative belliche necessarie alla promozione della democrazia, alla difesa della “sicurezza nazionale” o alla sconfitta del cancro del terrorismo, per le popolazioni coinvolte hanno significato “bombardamenti aerei, fuoco di artiglieria, irruzioni armate nelle proprie abitazioni, incursioni con droni, battaglie armate, stupri”. Ma anche “distruzione di case, interi quartieri, ospedali, scuole, posti di lavoro, fonti di cibo e acqua”, nonché fuga da “minacce di morte e pulizia etnica su larga scala”. Questi sono, in sostanza e in aggiunta a un numero altrettanto vertiginoso di morti, gli effetti delle operazioni belliche attuate dagli Stati Uniti per la difesa degli interessi strategici ed economici planetari della loro classe dirigente.
A questo bilancio va aggiunto anche quello derivante dalle attività di governi, eserciti, organizzazioni armate e milizie varie – da al-Qaeda ai Talebani fino all’ISIS – dei paesi coinvolti nei conflitti che, tuttavia, sono da considerare una conseguenza delle iniziative americane. Gli autori dello studio avvertono inoltre che gli stessi effetti sono stati causati in misura quantitativamente minore anche in un’altra ventina di paesi, dove gli Stati Uniti hanno operato e continuano a operare con militari sul campo, droni, programmi di addestramento, sorveglianza e vendita di armi, tra cui Kenya, Mali, Niger, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Tunisia e Uganda.
Gli effetti provocati dallo sradicamento forzato non sono soltanto di ordine psicologico ed economico sulle singole persone le cui vite si sono incrociate tragicamente con le mire dell’imperialismo USA. I danni sono evidentemente anche culturali, sociali e politici per i paesi e le comunità che hanno perso milioni di membri e per quelle che ospitano i profughi, spesso privi dei mezzi necessari ad assisterli e a evitare perciò l’esplodere di ulteriori tensioni e conflitti.
I paesi che hanno dovuto pagare il conto più salato in termini di profughi sono l’Iraq (9,2 milioni) e la Siria (7,1 milioni solo a partire dal 2014). Questi numeri corrispondono per entrambi a circa il 37% della loro popolazione. In termini percentuali è però la Somalia ad avere il bilancio più grave per quanto riguarda i rifugiati (46%). Per il paese del Corno d’Africa i dati si riferiscono al periodo che inizia nel 2002, quando gli USA hanno inaugurato l’appoggio militare al governo riconosciuto dalle Nazioni Unite in opposizione alla cosiddetta Unione delle Corti Islamiche. Dal 2006, poi, Washington ha intensificato gli sforzi in quest’area strategicamente cruciale del continente africano con la giustificazione di combattere i fondamentalisti di al-Shabaab.
Gli altri cinque conflitti più rovinosi del 21esimo secolo innescati dall’intervento americano o a cui gli Stati Uniti hanno partecipato hanno invece causato un numero di profughi nella misura seguente: 5,3 milioni in Afghanistan (26% della popolazione), 3,7 milioni in Pakistan (3%), 1,7 milioni nelle Filippine (2%), 4,4 milioni nello Yemen (24%), 1,2 milioni in Libia (19%). Di questo esercito di disperati, quasi due milioni hanno cercato rifugio in Europa e negli stessi Stati Uniti. Per quanti in Occidente continuano a interrogarsi sulle ragioni degli “sbarchi” senza riflettere sulle responsabilità dei loro governi, quasi sempre impegnati a fianco di Washington in queste guerre, la ricerca dell’università americana potrà forse offrire qualche spunto interessante.
Una parte importante dello studio, anche se meno documentata, riguarda le vittime delle avventure belliche a stelle e strisce. In questo caso, i numeri sono probabilmente ancora più imprecisi di quelli dei rifugiati. Ad ogni modo, anche così i dati sono altrettanto scioccanti. Le guerre in Afghanistan, Iraq, Siria, Pakistan e Yemen contano da sole fino a 786 mila morti a causa delle operazioni militari. Se si includono i decessi per i fattori derivanti dalla guerra, come malattie o malnutrizione, si superano facilmente i 4 milioni. Per gli stessi autori, stime credibili potrebbero aggirarsi in realtà sui 12 milioni di morti.
Pesantissimo è anche il bilancio per militari e “contractors” americani. In questo caso i morti potrebbero essere circa 15 mila, per non parlare del numero di veterani tornati in patria con mutilazioni o danni psicologici permanenti. I dati del governo USA risalenti al 2018 parlano di 1,7 milioni di soldati in congedo con una qualche disabilità causata dall’aver servito in uno dei tanti teatri di guerra del 21esimo secolo.
Il panorama che esce dalla ricerca della Brown University è quello causato da una potenza che da almeno due decenni sta provocando morte e distruzione in tutto il mondo in sostanza per rimediare militarmente al declino della propria posizione internazionale, minacciata dall’ascesa di altri paesi. Le campagne di questi anni sono un affare bipartisan a Washington che si manifesta, tra l’altro, in un appoggio senza esitazioni di tutta la classe politica a una macchina da guerra, così come ai colossi privati della produzione di armamenti, che si nutre di un bilancio che sfiora ormai gli 800 miliardi di dollari l’anno.
Complessivamente, ma anche in questo caso si tratta solo di una stima, il costo materiale di tutta la “guerra al terrore” condotta dall’autunno del 2001 ammonta alla cifra quasi inconcepibile di 6.400 miliardi di dollari. Per quanto il bilancio economico, di vittime e di distruzione appaia colossale, è tutt’altro che da escludere un’ulteriore escalation nel prossimo futuro.
Gli obiettivi strategici e militari americani da un paio d’anno non sono infatti più focalizzati sulla minaccia del “terrorismo”, bensì sulla “competizione tra grandi potenze”. In altre parole, le guerre combattute in questi anni contro organizzazioni con un potenziale relativamente limitato come al-Qaeda e ISIS lasceranno il posto o si affiancheranno a conflitti di più ampia portata con paesi dotati di eserciti formidabili e armi nucleari. Le conseguenze che ne deriveranno per popolazioni, economie e infrastrutture sono facilmente immaginabili.
- Dettagli
- Scritto da Mario Lombardo
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
Con le proteste contro il presidente Lukashenko che non accennano a fermarsi, in questo inizio di settimana ha tenuto banco in Bielorussia la misteriosa sparizione e le ricostruzioni conflittuali della sorte dell’ultima leader dell’opposizione – o presunta tale – rimasta in patria, Maria Kolesnikova. Se la tenuta del regime di Minsk continua a non essere messa in serio dubbio dalla maggioranza degli osservatori, nondimeno l’Occidente e i paesi dell’Europa orientale alleati di Washington e Bruxelles continuano a soffiare sul fuoco del malcontento, con l’obiettivo non tanto di appoggiare le aspirazioni democratiche della popolazione bielorussa, quanto di aggiungere un altro tassello alla strategia di accerchiamento della Russia di Putin.
Per quanto riguarda la Kolesnikova, il panico si era scatenato lunedì in Occidente dopo la diffusione della notizia del suo rapimento in centro a Minsk da parte di uomini mascherati che l’avrebbero spinta in un van di colore scuro. Assieme a lei c’erano altri due attivisti dell’opposizione, Anton Rodnenkov e Ivan Kravtsov. Fonti della polizia bielorussa, citate dall’agenzia di stampa russa Interfax, avevano invece assicurato che nessuno dei tre era in stato di fermo.
Per alcune ore, l’enigma circa lo status di questi ultimi è stato al centro dell’interesse della stampa internazionale e, soprattutto, ha dato la possibilità ai governi occidentali e anti-russi in genere di montare una nuova campagna contro la brutalità di Lukashenko. Il capo della diplomazia UE, Josep Borrell, e i ministri degli Esteri di Germania e Regno Unito hanno subito espresso preoccupazione per le condizioni della Kolesnikova e dei suoi due colleghi. Da Bruxelles sono poi arrivate minacce di sanzioni contro membri della cerchia di potere di Lukashenko, sia per il presunto rapimento sia per le violenze seguite alle proteste esplose dopo le discusse elezioni presidenziali del 9 agosto scorso.
Durissima è stata in particolare la presa di posizione del ministro degli Esteri lituano, Linas Linkevicius, il cui paese, assieme alla Polonia, coerentemente con la tradizionale feroce attitudine russofoba è in prima linea nella battaglia contro Lukashenko. Linkevicius ha definito i metodi a cui sarebbe stata sottoposta Maria Kolesnikova degni della NKVD, la polizia politica dell’Unione Sovietica di Stalin. Lo stesso diplomatico lituano ha affermato che simili episodi non sono ammissibili nell’Europa del 21esimo secolo.
Se forse non lo sono da questa parte dell’oceano, lo sono invece negli Stati Uniti, di cui la Lituania è uno strettissimo alleato. Nel corso delle proteste contro la brutalità della polizia americana degli ultimi mesi, infatti, nelle città USA sono stati documentati svariati rapimenti “extra-giudiziari” di manifestanti, immobilizzati da individui non identificati e caricati su veicoli privi di segni distintivi. I fermati in questo modo sono stati rilasciati dopo molte ore, senza che contro di loro sia mai stato emesso alcun provvedimento giudiziario ufficiale.
Ad ogni modo, martedì sono poi emerse versioni dei fatti contrastanti. I leader dell’opposizione Rodnenkov e Kravtsov sarebbero giunti in Ucraina. A confermarlo è stato il ministero degli Interni di questo paese, che ha precisato come il loro abbandono del territorio bielorusso non sia stata una scelta volontaria ma seguita a un provvedimento di espulsione deciso da Minsk.
Meno chiaro è il caso della Kolesnikova. Anch’essa avrebbe dovuto essere espulsa e spedita in Ucraina, ma le cose non sono andate come dovevano per Lukashenko. A questo proposito, sempre da Kiev è arrivato un dettaglio che ha infiammato gli account sui social network dei sostenitori occidentali dell’opposizione bielorussa. La Kolesnikova avrebbe cioè distrutto il suo passaporto, impedendo così agli agenti dei servizi di sicurezza bielorussi di farle oltrepassare il confine con la forza.
Diversa è stata la ricostruzione della TV di stato bielorussa. In questo caso, i tre oppositori di Lukashenko erano diretti volontariamente verso il confine con l’Ucraina prima dell’alba di martedì ma, una volta arrivati nei pressi di un check-point, la loro auto avrebbe accelerato per evitare una pattuglia di guardie di frontiera. Un qualche incidente sarebbe poi seguito e Maria Kolesnikova avrebbe abbandonato l’automobile, per poi essere fermata e messa agli arresti dagli agenti di confine.
La Kolesnikova rimarrebbe dunque in territorio bielorusso, mentre le altre principali leader auto-proclamate della rivolta si trovano ormai all’estero. Sviatlana Tsikhanouskaya, la faccia più nota in Occidente dell’opposizione e prima sfidante sconfitta da Lukashenko nelle presidenziali, ha trovato rifugio in Lituania, mentre Veronika Tsepkalo è in Polonia. Come queste ultime, che avevano preso il posto sulle schede elettorali dei mariti, anche la Kolesnikova aveva sostituito un candidato arrestato e a cui era stato impedito di correre per la presidenza, il banchiere Viktor Babariko.
A un mese dalle contestate elezioni, la mobilitazione popolare in Bielorussa era tornata a livelli importanti nella giornata di domenica con una manifestazione che, secondo alcuni gruppi dell’opposizione, ha potuto contare su oltre centomila persone nella sola Minsk. Le forze di sicurezza di Lukashenko erano nuovamente intervenute ricorrendo spesso a metodi brutali che, come all’inizio della protesta, sembrano essere una delle ragioni principali del perdurare delle dimostrazioni.
Gli arrestati nel fine settimana sono stati un centinaio e ancora una volta le preoccupazioni maggiori del regime sembrano riguardare gli scioperi e le manifestazioni nelle fabbriche del paese, molte delle quali controllate dallo stato. Se la mobilitazione dei lavoratori bielorussi appare più o meno sotto controllo, grazie ai sindacati ufficiali così come a licenziamenti e intimidazioni, ci sono segnali di un persistente quanto giustificato malcontento nei confronti di Lukashenko.
La situazione in questo senso non promette nulla di buono se si considera l’impatto delle proteste sull’economia del paese. I dati forniti lunedì dalla Banca Centrale bielorussa hanno mostrato ad esempio come l’ex repubblica sovietica abbia bruciato quasi un sesto delle sue riserve auree e di valuta estera nel solo mese di agosto per sostenere la propria moneta durante il caos di queste settimane.
I timori per una rivolta che possa sfuggire di mano non agitano solo Lukashenko, ma anche la stessa opposizione filo-occidentale, riunita nel cosiddetto Consiglio di Coordinamento. Questa è una delle ragioni che spinge i leader della protesta a tenere aperta la porta delle trattative con il regime. L’altro motivo è da collegare invece al vicolo cieco in cui si ritrovano, quanto meno al momento e soprattutto per via del sostegno assicurato da Mosca a Lukashenko. La Bielorussia è d’altronde un elemento fondamentale per il Cremlino nella strategia di respingimento dell’offensiva UE/NATO verso i confini russi.
Ciò non toglie che le manovre occidentali continueranno, nel tentativo di destabilizzare il paese facendo leva sulle frustrazioni della popolazione bielorussa e i metodi anti-democratici di Lukashenko, la cui permanenza al potere non è vista peraltro con particolare interesse nemmeno dalla Russia nel medio e lungo periodo.
Le preoccupazioni dell’Occidente e dei governi di Lituania, Polonia e Ucraina sono soprattutto per il possibile compiersi del progetto di “Stato Unitario” tra Russia e Bielorussia, sul tavolo da due decenni ma sempre osteggiato da Lukashenko prima della recente marcia indietro, resasi necessaria per incassare l’appoggio di Putin. Con questo piano di integrazione realizzato, il fronte anti-russo vedrebbe infatti spegnersi del tutto e anche per il futuro qualsiasi velleità di “rivoluzione colorata”, ovvero di penetrare in Bielorussia per strappare il paese all’orbita strategica di Mosca.
- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
L’operazione che sta dietro al vero o presunto avvelenamento dell’oppositore del Cremlino, Alexei Navalny, sembra avere fatto nel fine settimana un passo importante verso quello che potrebbe essere il suo principale obiettivo. Questa sensazione si è avuta domenica, dopo che il governo tedesco, nonostante i moltissimi aspetti oscuri, per non dire assurdi, della vicenda, ha preso una posizione per certi versi clamorosa collegando per la prima volta il caso del “dissidente” russo alla costruzione del gasdotto Nord Stream 2.
- Dettagli
- Scritto da Michele Paris
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
La nomina insolitamente rapida di un nuovo primo ministro e l’intervento del presidente francese, Emmanuel Macron, non sembrano avere convinto la maggior parte della popolazione del Libano della genuinità dei progetti di cambiamento ufficialmente messi in moto per il paese mediorientale, precipitato in una crisi gravissima dall’emergenza Coronavirus e dalla spaventosa esplosione al porto di Beirut del 4 agosto scorso.
Proprio la seconda visita in meno di un mese di Macron e l’indicazione ufficiale del diplomatico Mustapha Adib a capo del governo da parte della maggioranza dei partiti libanesi hanno scatenato ancora una volta le proteste popolari. Martedì sono scesi nuovamente nelle strade della capitale migliaia di manifestanti, affrontati dalla polizia mentre cercavano di farsi strada verso la sede del Parlamento e intenzionati a celebrare a loro modo il centenario dalla creazione dello Stato del Grande Libano, avvenuta durante il mandato francese.
La creazione di un nuovo governo si era resa necessaria dopo le dimissioni del governo di Hassan Diab, seguite all’esplosione che ha provocato poco meno di 200 vittime e migliaia di feriti, nonché privato di un’abitazione circa 300 mila residenti di Beirut. Diab era in carica da una manciata di mesi e a sua volta aveva assunto la carica di primo ministro dopo le dimissioni del leader sunnita filo-occidentale e vicino ai sauditi, Saad Hariri, sull’onda delle proteste contro l’ultra-corrotto sistema oligarchico e clientelare libanese.
Nel paese dei cedri, la formazione di un esecutivo è solitamente un affare che richiede mesi o anni di trattative tra le varie fazioni delle élites che rappresentano le numerose confessioni tra cui è divisa una popolazione di poco più di 4 milioni di abitanti. In questa occasione, le principali forze politiche si sono invece accordate in tempi brevi e a larga maggioranza per scegliere il 48enne ex ambasciatore in Germania, decisamente poco conosciuto al grande pubblico del Libano.
Adib ha ricevuto 90 voti lunedì in Parlamento sui 120 totali, grazie al sostegno dei principali partiti, dai sunniti del Movimento Il Futuro ai cristiani maroniti del Movimento Patriottico Libero, guidato dal presidente libanese Michel Aoun, fino agli sciiti di Amal e, soprattutto, Hezbollah. Secondo il sistema settario del Libano, il primo ministro di questo paese deve sempre essere di fede sunnita, mentre la carica di presidente è riservata a un cristiano e quella di “speaker” del Parlamento a uno sciita.
Sulla rapida nomina di Adib ha influito il grave stato di crisi del paese affacciato sul Mediterraneo, ma con ogni probabilità anche le pressioni internazionali, più che evidenti dalla doppia visita di Macron. I governi occidentali spingono in particolare per un esecutivo in grado di negoziare con le istituzioni finanziarie internazionali, come il Fondo Monetario (FMI), per ricevere un pacchetto di aiuti in cambio di profonde riforme economiche e sociali. L’altro obiettivo, probabilmente ancora più sentito, riguarda invece il ruolo di Hezbollah, di cui si dirà meglio in seguito.
Se il metro di giudizio sono le richieste occidentali e quelle dei manifestanti libanesi, la scelta di Adib non è esattamente di rottura. Pur non avendo un passato politico di alto profilo, il premier in pectore è considerato un protetto dell’ex primo ministro e imprenditore multimiliardario, Najib Mikati, di cui è stato a lungo consigliere. Questi suoi legami con l’establishment lo rendono prevedibilmente sgradito ai movimenti di protesta e, oltretutto, Adib non può nemmeno vantare un’esperienza tale da essere considerato in grado di gestire un frangente così delicato.
Il nome di Adib ha avuto comunque il via libera di Macron e dell’Occidente. Il presidente francese ha ricordato alla classe politica libanese come da essa ci si aspetti in ogni caso iniziative concrete per ottenere gli aiuti internazionali promessi. A suo dire, anzi, se entro i prossimi tre mesi il paese non si sarà avviato seriamente sulla strada delle “riforme”, l’Europa potrebbe addirittura valutare l’ipotesi di imporre sanzioni nei confronti dei politici libanesi.
Che Macron e gli altri leader occidentali credano davvero in un cambiamento concreto della realtà politica ed economica del Libano con un primo ministro e un governo scelti e controllati dalla classe politica responsabile della situazione attuale è del tutto improbabile. Le forze che hanno dato in fretta il loro consenso all’incarico ad Adib intendono piuttosto prendere tempo per rimandare indefinitamente una serie di provvedimenti che, se adottati, finirebbero per mettere a rischio le loro stesse posizioni di privilegio.
Le pressioni e le minacce velate di Macron puntano perciò a un obiettivo parzialmente diverso da quello dichiarato a livello ufficiale, anche se con esso è in qualche modo intrecciato. La nuova campagna partita da Parigi per tornare a esercitare una certa influenza sul Libano, verosimilmente con il consenso di Stati Uniti e Israele, intende in sostanza utilizzare la prospettiva degli aiuti finanziari come incentivo per ribaltare le priorità strategiche di Beirut.
Nel mirino ci sono in sostanza il ruolo di Hezbollah e l’ascendente dell’Iran sul Libano. Più precisamente, l’offensiva occidentale in atto in questo paese, assieme causa e conseguenza della crisi odierna, serve in primo luogo a spezzare l’asse della resistenza sciita e, in seconda battuta, a ostacolare e possibilmente invertire il percorso del Libano verso oriente, ovvero verso i piani di integrazione euro-asiatica promossi principalmente dalla Cina e che hanno tra gli snodi principali proprio la Repubblica Islamica.
In questi anni, le sirene cinesi hanno suonato insistentemente in un Libano affamato di aiuti, investimenti e progetti infrastrutturali, nonostante i tradizionali legami con l’Occidente di buona parte della popolazione e della propria classe politica. Il cambiamento di rotta, sia pure tutt’altro che univoco né condiviso da tutte le forze politiche, è andato di pari passo con gli eventi della vicina Siria e con il rafforzarsi delle posizioni di Hezbollah.
Questa realtà ha alimentato una campagna furiosa contro il “Partito di Dio” e i suoi sponsor a Teheran, il cui operato, fondamentale non solo per difendere il paese dalla minaccia di Israele, è stato e continua a essere dipinto come la ragione di tutti i mali che affliggono il Libano. Questa ossessione, da collegare come già spiegato anche all’espansione dell’influenza cinese, è in definitiva alla base dell’interesse di Macron per Beirut. Com’è ovvio, simili scrupoli non sono un’esclusiva francese. Gli Stati Uniti sono anch’essi in prima linea, come conferma la presenza a Beirut nella giornata di mercoledì, cioè poche ore dopo il ritorno in patria di Macron, dell’assistente segretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente, David Schenker.
Hezbollah, da parte sua, è ben consapevole delle dinamiche in atto, ma i suoi leader sono costretti a muoversi con estrema cautela, alla luce sia della situazione politica interna e internazionale sia del persistere delle proteste che i media occidentali e quelli filo-occidentali libanesi cercano di rivolgere contro lo stesso partito-milizia sciita e la presunta eccessiva influenza dell’Iran.
Il fattore decisivo per l’uscita dalla crisi o, quanto, per segnarne la prossima fase è dunque forse proprio il futuro del movimento popolare che non accenna a spegnersi, stretto tra un establishment intoccabile, un sistema ultra-settario che continua a tenere in ostaggio il paese, interferenze esterne tutt’altro che disinteressate e una crisi economica virtualmente senza precedenti.
- Dettagli
- Scritto da Mario Lombardo
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
La campagna elettorale negli Stati Uniti si sta infuocando a tal punto che in questi giorni si è assistito allo spettacolo di un presidente che ha apertamente celebrato e incoraggiato le violenze di organizzazioni neofasciste. L’atteggiamento di Donald Trump punta esattamente ad alimentare un clima di odio, diretto contro i manifestanti in piazza per protestare la brutalità della polizia, e dipingere qualsiasi elemento di opposizione al suo governo, incluso il Partito Democratico, come una minaccia eversiva di estrema sinistra.