L’arresto all’aeroporto Vnukovo di Mosca del “dissidente” russo Aleksei Navalny è stato accolto in Occidente con reazioni di sdegno a dir poco sproporzionate, anche se tutt’altro che inaspettate. L’intera sceneggiata del ritorno in patria del presunto eroe anti-Putin, vittima la scorsa estate di un avvelenamento altrettanto improbabile, sembra essere stata anzi orchestrata proprio da governi e servizi di sicurezza occidentali, con lo scopo di rilanciare l’immagine di un politico non esattamente popolare in Russia e, soprattutto, di intensificare le pressioni sul Cremlino alla vigilia del passaggio di consegne alla Casa Bianca.

Le ultime settimane dell’amministrazione Trump hanno visto l’implementazione deliberata di una serie di provvedimenti sul fronte internazione che indicano il tentativo di fissare dei paletti ben precisi alla politica estera del presidente americano entrante, Joe Biden. La questione non riguarda solo l’Iran, ma anche e forse soprattutto la Cina, di gran lunga il principale rivale strategico degli Stati Uniti. A questo scenario va ricondotta l’ultima provocatoria iniziativa presa dal dipartimento di Stato a proposito di Taiwan, sia pure relativamente attenuata dalla cancellazione all’ultimo minuto di una clamorosa visita a Taipei dall’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite.

Nella serata italiana di mercoledì, Donald Trump è diventato il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a subire due procedimenti di impeachment davanti al Congresso di Washington. Il voto, promosso dalla leadership democratica alla Camera dei Rappresentanti e appoggiato da una decina di deputati repubblicani, ha inviato al Senato la pratica di incriminazione per i fatti del 6 gennaio scorso, anche se è improbabile che il procedimento arrivi a conclusione in tempi brevi e, di certo, non prima dell’insediamento di Joe Biden.

La guerra scatenata dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati contro lo Yemen ha già provocato la peggiore catastrofe umanitaria del pianeta, ma le recenti decisioni prese dal governo americano uscente potrebbero rendere a breve ancora più tragica la situazione nel paese della penisola arabica. Con una decisione riconducibile alla strategia di “massima pressione” contro l’Iran, il dipartimento di Stato USA ha aggiunto questa settimana alla propria lista delle organizzazioni terroristiche i “ribelli” Houthi sciiti che controllano buona parte del territorio yemenita, mettendo in serio pericolo il flusso di aiuti destinati a una popolazione da tempo allo stremo.

Tra i paesi che stanno avendo maggiore successo nella campagna di vaccinazioni anti-Covid a livello mondiale c’è senza alcun dubbio Israele. Lo stato ebraico ha infatti già somministrato la prima dose a circa il 16% dei suoi quasi dieci milioni di abitanti. Il primo ministro Netanyahu ha poi assicurato che entro tre mesi praticamente tutta la popolazione di Israele sarà “immunizzata”, guarda caso in concomitanza con le elezioni anticipate previste per il 23 marzo. Il successo del piano di vaccinazioni di Israele nasconde però un’altra realtà, quella della popolazione palestinese, finora esclusa quasi del tutto e costretta anche in questo caso a pagare le politiche di apartheid del governo di Tel Aviv nonostante gli obblighi che quest’ultimo avrebbe secondo quanto previsto dal diritto internazionale.


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