Il 1 maggio in El Salvador si è insediato il nuovo parlamento, controllato per oltre i due terzi dal partito di governo Nuove Idee e dai suoi alleati di destra Gana e Pcn. La prima mossa della nuova maggioranza è stata quella di destituire i magistrati della Sala costituzionale e il procuratore generale, rimpiazzandoli con persone di totale fiducia del presidente Nayib Bukele. L’immediata condanna degli Stati Uniti e la crisi che ne è seguita non deve però ingannare, né farci pensare che USA e Bukele non siano due facce della stessa medaglia.

 

I primi a muoversi sono stati proprio esponenti del nuovo governo statunitense. Per il senatore democratico Albio Siles si è trattato di un “abuso di potere” e di un “atto illegale di vendetta che porta verso l’autoritarismo”. Anche la vicepresidente Kamala Harris e il segretario di stato Antony Blinken hanno espresso preoccupazione per lo stato della democrazia salvadoregna. Dichiarazioni allarmanti anche da parte della Commissione interamericana dei diritti umani e del relatore speciale delle Nazioni unite per l'indipendenza dei giudici e avvocati.

Abituato a sentirsi come il “bambino viziato” di Trump in America Centrale (Bukele lo definì un "presidente molto gentile e simpatico") e facendosi forte dell’ampio sostegno accordatogli dalla popolazione nelle elezioni presidenziali del 2019 e con il voto plebiscitario di febbraio,  Bukele si è indubbiamente sentito spiazzato e ha reagito, come è solito fare, attraverso le reti sociali. “Le nostre porte sono più aperte che mai. Ma con tutto il rispetto: stiamo facendo pulizia in casa nostra... non è incombenza vostra”, ha twittato mentre in parlamento i giochi erano oramai fatti.

Durante tutto il mese di maggio la tensione è aumentata e il distanziamento tra Bukele e il referente politico ed economico naturale e tradizionale di El Salvador ha subito una forte accelerazione. Secondo vari analisti, fin dal suo insediamento nel 2019, la strategia di Bukele è stata quella di “creare nemici”, mostrandosi così alla popolazione come un presidente forte, deciso, operativo ed efficiente.

“Bukele vuole riaffermare un concetto molto semplice e, nel contempo, molto pericoloso: l'autorità è il potere e il potere è la forza bruta. Un atteggiamento che risponde alla strategia del presidente per presentarsi come qualcosa di diverso, positivo, moderno che permetta al paese di lasciarsi dietro il passato”, ha detto il cattedratico dell’Università Centroamericana (Uca) Carlos Molina, poco dopo il ‘golpe’ parlamentare.

Secondo Molina, il vero obiettivo di Bukele non sarebbe solo impadronirsi delle istituzioni e nascondere la dilagante corruzione della sua amministrazione, bensì disputare il potere economico alle élite tradizionali e il capitale simbolico ai costruttori di conoscenza e coscienza nel paese, come per esempio le università. Per fare ciò, lui e il suo gruppo sembrano disposti a fare qualsiasi cosa, anche se questo vuol dire entrare in contrasto con gli obiettivi (condivisi) del loro principale alleato internazionale.

Annientare la sinistra

Visto cosí, il conflitto tra Stati Uniti e Bukele assume contorni molto diversi da quelli disegnati per settimane dalla stampa mainstream.

“L’obiettivo principale degli Stati Uniti in El Salvador è annientare definitivamente il Fronte Farabundo Martí (Fmln) e qualsiasi opzione di sinistra. Non ci sono riusciti durante la guerra e nemmeno con il sostegno dato per circa 15 anni ai disciplinati governi di Arena (estrema destra). Hanno quindi puntato tutto su Bukele che, effettivamente, è quasi riuscito nell’intento. Il timore ora degli Stati Uniti è che il loro alleato perda di vista l’obiettivo e si dedichi a contendere il potere all’oligarchia tradizionale, usando metodi che lo rendono impresentabile ai settori della politica e all’opinione pubblica statunitense. Il governo Biden ha bisogno di preservare un’apparenza democratica”, spiega l’economista e analista politico César Villalona.

“Assumere il controllo delle istituzioni, per di più in piena congiuntura di crisi economica e con un indebitamento galoppante che impedirà a Bukele di realizzare tutto ciò che ha promesso in campagna elettorale, potrebbe portare - aggiunge Villalona - a una veloce perdita di consenso, a una nuova accelerazione del fenomeno migratorio, ma anche alla riattivazione di un progetto alternativo progressista. Scenari che terrorizzano il nuovo governo statunitense”.

Un paese dipendente dagli USA

Si stima che negli Stati Uniti vivano tra i 2,5 e i 3 milioni di salvadoregni, una cifra enorme se consideriamo che la popolazione di El Salvador è appena inferiore ai 7 milioni, in un territorio grande come la Lombardia. I soldi che tutti gli anni gli emigranti salvadoregni mandano nel loro paese di origine è di poco inferiore ai 6 miliardi di dollari. Ciò rappresenta circa il 20% del Pil nazionale ed equivale a quasi il 90% della spesa pubblica. Inoltre, gli Stati Uniti sono i destinatari del 45% delle esportazioni.

Per l’analista politico, contrariamente a quanto vuole fare credere la stampa egemonica, gli Stati Uniti non sono nemici di Bukele, né il presidente salvadoregno vuole realmente rompere con loro. Ciò che esiste è una contraddizione non di fondo, né strategica, ma sui tempi e modalità di gestione dell’obiettivo comune. Nonostante ciò, i protagonisti di questa crisi sono ancora impegnati a mostrare i muscoli e l’esito finale resta ancora incerto.

La scorsa settimana, l’Agenzia  di cooperazione degli Stati Uniti (Usaid), ben conosciuta in America latina per il suo lavoro cospirativo contro governi non allineati con le politiche di Washington, attraverso il finanziamento di ONG legate a movimenti e partiti di opposizione, ha deciso  di ritirare l’aiuto finanziario alla Corte suprema di giustizia, alla Procura generale, alla Polizia e all’Istituto d’accesso all’informazione pubblica. I fondi verranno dirottati verso una non ben identificata “società civile”, per promuovere “la trasparenza, combattere la corruzione e monitorare i diritti umani”.

La lotta alla corruzione è diventato il nuovo cavallo di battaglia dell’amministrazione Biden in America Centrale. L’applicazione di “due pesi e due misure” a seconda dello stato delle relazione con i vari governi della regione, come nel caso di El Salvador, è un elemento fondamentale per interpretare cosa stia realmente accadendo.

Con o senza Bukele

Non deve stupire quindi se gli Stati Uniti stiano forzando i tempi per riportare Bukele a più miti consigli. Nei giorni scorsi, la congressista democratica della California, Norma Torres, ha pubblicato una lista di funzionari ed ex funzionari pubblici di El Salvador, Guatemala e Honduras, segnalati di gravi reati di corruzione. Tra di essi figurano anche stretti collaboratori di Bukele, come Carolina Recinos, attuale capo di gabinetto, “per avere partecipato a significativi atti di corruzione durante il suo mandato”. Segnalati anche l'ex ministro della sicurezza Rogelio Rivas e l’ex presidente del parlamento Guillermo Gallegos.

Già nel passato, il presidente salvadoregno si era scontrato con Torres. In quell’occasione, la congressista aveva attaccato i presidenti dei tre paesi per le ondate migratorie di fine 2020 e inizio 2021. “Ho visitato il confine per parlare con i migranti in fuga dai loro paesi. Molti stanno fuggendo dai narco-governi di Nayib Bukele, Juan Orlando Hernández e Alejandro Giammattei”, aveva twittato. Bukele aveva risposto invitando tutti i latinoamericani del 35° distretto della California a non votare mai più per la congressista. “Non lavora per voi, ma per mantenere i vostri paesi nel sottosviluppo!”.

Una risposta che aveva ipocritamente scatenato le ire degli Stati Uniti, abituati a interferire e a usare metodi illeciti per influenzare le elezioni nei paesi latinoamericani e favorire i candidati a loro graditi. In quell’occasione, il congressista Siles parlò addirittura di “minaccia alla sicurezza nazionale per gli Stati Uniti”.

Secondo le principali agenzie di notizie, Bukele avrebbe risposto a tanta pressione con un avvicinamento ulteriore al governo cinese, un fattore potenzialmente destabilizzante in chiave della geopolitica statunitense. Per Villalona si stanno tergiversando i fatti.

In effetti, l’avvicinamento alla Cina è iniziato con l’ex presidente Maurizio Funes ed è continuato con Sánchez Cerén (Fmln). L’apertura commerciale ha portato la Cina a essere il settimo mercato per le esportazioni salvadoregne. Sánchez Cerén ha firmato 14 protocolli di cooperazione e ha assicurato trasferimenti non rimbosabili (donazioni) per un valore di 150 milioni di dollari. Bukele sta semplicemente approfittando dell’accordo firmato da Sánchez Cerén e lo sta presentando come un avvicinamento strategico al gigante asiatico.

“Se non si risolvono le contraddizioni, gli Stati Uniti hanno tutti gli strumenti per fare cadere Bukele e sostituirlo con il suo vice (Félix Ulloa). Quello che staranno ben attenti a non fare è lasciare spazio alla nascita di un nuovo progetto alternativo di sinistra. Il loro obiettivo resta lo stesso, con o senza Bukele”, conclude Villalona.

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