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Il ritiro dalla corsa alla nomination democratica di Bernie Sanders ha di fatto consegnato la vittoria nelle primarie del Partito Democratico all’ex vice-presidente Joe Biden. Significativamente, la decisione del senatore “democratico-socialista” del Vermont è arrivata in piena emergenza Coronavirus negli Stati Uniti, cioè quando la sua proposta politica “radicale”, incentrata in buona parte su un ruolo più forte dello stato nel settore della sanità, sembrava in grado di raccogliere un consenso sempre più vasto. A ben vedere, la ragione principale dell’abbandono, determinato da fortissime pressioni dei vertici democratici, a cominciare dall’ex presidente Obama, potrebbe essere proprio il crescente appeal dell’agenda di Sanders in parallelo all’avanzata dell’epidemia.
Il tempismo della sua uscita di scena è stato singolare, visto che è arrivata il giorno dopo il voto nelle primarie del Wisconsin, per le quali i risultati non saranno noti ancora per svariati giorni. Gli exit poll in questo stato non sono infatti disponibili per via delle misure anti-COVID-19. Sul voto c’era stato un duro scontro politico dopo che il governatore democratico aveva rinviato le primarie a giugno, prima della cancellazione del provvedimento da parte della Corte Suprema statale. Se l’intenzione di Sanders era quella di lasciare, è evidente che un annuncio avvenuto solo pochi giorni prima avrebbe evitato il recarsi alle urne di molti votanti democratici che martedì hanno invece rischiato il contagio.
Il ritiro di Sanders ha comunque comportato una prevedibile e avvilente dichiarazione di appoggio a Joe Biden, ovvero la personificazione stessa dell’establishment ultra-corrotto e reazionario contro cui il senatore del Vermont aveva condotto una durissima campagna. In un discorso video di un quarto d’ora postato su Twitter, Sanders ha assicurato che intende indirizzare il “movimento” creato attorno alla sua candidatura verso il vicolo cieco della candidatura Biden.
Il processo che si aprirà ora è sostanzialmente lo stesso di quattro anni fa, quando Sanders uscì da un’aspra contesa con Hillary Clinton e finì per sostenerla in pieno malgrado il complotto orchestrato nei suoi confronti dal Partito Democratico per impedirgli di conquistare la nomination. Se i toni quest’anno sono stati apparentemente meno accesi, dopo i primi successi di Sanders nelle primarie (New Hampshire, Nevada) i vertici democratici avevano mobilitato tutti gli ambienti politici, mediatici e della società civile vicini al partito per resuscitare la campagna di Biden.
Le successive primarie della South Carolina e gli appuntamenti del “Supermartedì” avevano così assicurato il rilancio dell’ex vice-presidente, nemmeno scalfito dall’evidente deteriorarsi delle sue condizioni di salute mentale e dal moltiplicarsi delle accuse di molestie sessuali. La macchina del Partito Democratico ha in definitiva boicottato il candidato che ancora nel mese di febbraio era sulla rampa di lancio verso la nomination e stava generando i maggiori entusiasmi nel paese grazie alla sua agenda progressista.
Nello spiegare il ritiro, Sanders ha rivendicato il suo ruolo nello spostare a sinistra il dibattito politico americano e, a suo dire, il fatto di avere introdotto alcuni temi cruciali, come l’assistenza sanitaria pubblica universale o l’istruzione universitaria gratuita, nella coscienza collettiva del Partito Democratico. Da queste premesse, il 78enne senatore ha prospettato un ruolo determinante dei suoi sostenitori nella formulazione della piattaforma del partito in vista delle presidenziali di novembre. In realtà, anche quest’anno Sanders ha svolto il ruolo previsto per lui dall’establishment democratico, vale a dire quello di incanalare verso il partito l’avversione per il sistema oligarchico americano, se non per il capitalismo stesso, e neutralizzarne la portata potenzialmente rivoluzionaria.
In questo senso, non è un caso che a spingere Sanders verso l’uscita dalla competizione per la nomination sia stata in qualche modo la più grave crisi sanitaria da un secolo a questa parte. La vergognosa gestione dell’epidemia di Coronavirus da parte dell’amministrazione Trump ha mostrato in tutta la sua drammaticità le carenze della sanità americana basata sul settore privato, portando all’attenzione di decine di milioni di persone la necessità di un solido sistema pubblico.
Proprio in questo frangente, le potenzialità della proposta politica di Sanders sembravano poter tornare ad avere un peso determinante, forse addirittura in chiave nomination. Lo sfidante di Biden, invece, ha mollato precisamente in questo momento, quasi a sottolineare la necessità di evitare la radicalizzazione del clima politico negli Stati Uniti. In altre parole, con la minaccia concreta di un’esplosione sociale nel paese, alimentata anche dall’impennarsi del numero dei disoccupati, Sanders ha abbandonato qualsiasi pretesa di alternativa progressista o “rivoluzionaria”, per impedire che la situazione sfuggisse di mano. Sulla decisione ha pesato comunque anche l’opera di convincimento dei leader democratici. La stampa USA ha infatti scritto che Obama aveva intrattenuto “svariate conversazioni telefoniche” con Sanders nelle ultime settimane.
Recentemente, Sanders aveva già provveduto ad attenuare la retorica di “sinistra”, abbracciando inoltre le iniziative del Congresso per ridurre l’impatto economico del Coronavirus, oggettivamente sbilanciate a favore di Wall Street e delle grandi aziende. Sanders aveva votato a favore del pacchetto di aiuti da duemila miliardi di dollari e, parallelamente, nei suoi discorsi non si è più trovata traccia di proposte per reperire risorse tra le enormi ricchezze private americane.
La lezione più importante del secondo fallimento di Bernie Sanders nella corsa alla Casa Bianca, nonostante la capacità di generare un seguito popolare difficilmente eguagliabile da qualsiasi altro politico americano negli ultimi decenni, consiste dunque nell’avere mostrato ancora una volta come siano illusori e inutili i tentativi di utilizzare il Partito Democratico come strumento di cambiamento in senso anche solo moderatamente progressista.
Il ritiro di Sanders lascia ora strada a Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca, anche se non è da escludere che proprio la decisione del senatore del Vermont possa consentire un qualche colpo di mano ai leader democratici se l’ex vice-presidente dovesse mostrarsi impossibilitato, con ogni probabilità per ragioni di salute, a sostenere una campagna efficace contro Trump. Alcune voci sui media americani stanno già circolando sulla possibile alternativa di Andrew Cuomo, la cui gestione dell’emergenza Coronavirus in veste di governatore dello stato di New York continua a essere elogiata dai media vicini al Partito Democratico.
I sondaggi su base nazionale stanno in ogni caso evidenziando un vantaggio più o meno consistente di Biden sull’attuale inquilino della Casa Bianca. Le rilevazioni sono però premature e, a meno che la situazione economica negli Stati Uniti dovesse precipitare nei prossimi mesi, destinate a cambiare drasticamente non appena inizierà la vera e propria campagna elettorale con i due candidati che si fronteggeranno quotidianamente. A contare, infine, non saranno tanto gli equilibri nazionali, quanto le sfide in una manciata di stati perennemente in equilibrio, dall’Ohio alla Florida, dove la strada di un candidato ultra-screditato e legato a doppio filo all’apparato di potere di Washington come Joe Biden risulterà decisamente in salita.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Se fosse possibile riassumere il comportamento di Donald Trump durante l’emergenza Coronavirus, si potrebbe sostenere che il presidente americano stia continuando a lanciare critiche infuocate verso svariate direzioni per la presunta pessima gestione di altri della crisi sanitaria per poi vedersele ritorcere contro. Così è stato questa settimana anche per la clamorosa polemica esplosa attorno alle parole di Trump sull’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), tutt’altro che impeccabile o senza macchia nell’affrontare lo tsunami del COVID-19, ma di gran lunga più all’altezza della situazione rispetto alla Casa Bianca.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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Le manovre statunitensi nel Mar dei Caraibi, alle quali si sono unite Francia e GB, sono politiche, più che militari. La Casa Bianca ha disperato bisogno di consenso per coprire la gestione folle della pandemia oltre che il disastro economico. La guerra alla droga è una messinscena ridicola. Non c’è nessuna guerra alla droga, che peraltro non passa dai Caraibi ma viaggia internamente, partendo dalla Colombia e facendo tappa in Ecuador, in Guatemala e Honduras per giungere poi negli States.
La rotta è ben conosciuta dagli Stati Uniti. Il tentativo di utilizzare la frontiera venezuelana subisce pesanti rovesci e, dato che business is business, la droga sceglie altre vie. Nessuno più della DEA ne è al corrente e desta semmai domande impertinenti la scoperta che il generale venezuelano che più si è distinto nello smantellamento del traffico dalla cocaina sia stato severamente sanzionato dagli Stati Uniti. O forse non è un caso.
Nel tentativo di montare uno show internazionale simile a quello montato a Panama nel 1989 o a Grenada nel 1983, le manovre nei Caraibi cercano di costruire un pretesto per muovere guerra contro Caracas, dato che il suo petrolio, il suo Coltan e il suo oro fanno gola alla combriccola nazi-evangelica che siede alla Casa Bianca, a maggior ragione in presenza di uno scontro tra Russia e Arabia Saudita su produzione e conseguente prezzo del greggio, elemento di forte impatto nella claudicante economia USA.
L’invio della flotta militare verso il Venezuela sembra l’unica strategia possibile per la Casa Bianca per cercare di rovesciare il governo legittimo di Nicolas Maduro. Non è detto che alle minacce seguano i fatti ma certo la messinscena mediatica di Guaidò ha fallito miseramente: privo di seguito, di carisma e di qualità politica, ha come unica caratteristica l’assenza di credibilità. Scoperto a mettersi in tasca 500.000 dollari di aiuti e amico di narcos colombiani, è stato defenestrato in primo luogo dalla stessa opposizione venezuelana, che ha votato un altro presidente per la Camera, togliendogli così persino quel lembo di autorevolezza da eletto, sebbene in una condizione d’illegalità. Difficile riproporlo come leader dell’opposizione se questa stessa l’ha scalzato, dura convincere i già pochi paesi (51 su 194) che l’avevano riconosciuto per obbedienza agli USA. Non è un caso che Guaidò è fuori dalla provocazione che va sotto il nome di “proposta di transizione”: se si accusa illecitamente Maduro di traffico di droga, difficile proporre Guaidò che con i narcos colombiani è più che amico.
Dopo Guaidò è fallita anche la ricetta “boliviana” dell’insurrezione interna: le forze armate sono leali al Presidente Maduro. Tutta un’altra storia dalla Bolivia, dove Evo Morales non pensò di organizzare uno scudo militare efficace contro il golpismo interno. In Venezuela, al contrario, l’unione civico-militare ha rappresentato un ostacolo insormontabile per il golpismo, oltre che un modello di governance e il chavismo è stato abituato a misurarsi nelle strade con il golpismo guarimbero, che è rimasto regolarmente schiacciato dall’organizzazione politico-militare del popolo bolivariano. Le Forze Armate sono ben addestrate ed equipaggiate e un milione di miliziani rischiano di trasformare l’appetito per il boccone venezuelano in una pericolosa indigestione.
C’è anche un fronte di terra nei piani statunitensi, che prevede l’utilizzo dell’esercito colombiano supportato dalle truppe USA di stanza in Colombia e dai paramilitari. Ma per Bogotà non è così semplice: usare la frontiera con lo Stato di Tachira per penetrare in Venezuela vede non poche controindicazioni. Sia per il prezzo pesante da pagare (l’esercito colombiano è specializzato nell’assassinare innocenti da trasformare in “falsi positivi”, non nel combattimento con pari livello), che per il rischio di riaprire il fronte interno con la ex-guerriglia, che rischierebbe di produrre una pericolosa instabilità politica. Questo, senza contare la possibile estensione ad altri paesi del scenario di guerra, il che trasformerebbe il tentativo di imporre obbedienza silente a tre paesi in un generale caos continentale che diverrebbe il peggior dei boomerang per Washington.
Muovere guerra al Venezuela sarebbe l’ultimo errore, il più grave, di una catena di insuccessi.
Per gli USA, infatti, il bilancio generale della guerra al socialismo bolivariano è pessimo: un colpo di stato contro Chavez fallito, il golpismo negli ultimi due anni ricacciato indietro dalle forze armate e dal chavismo, il terrorismo rivelatosi impotente, il narcotraffico dimostratosi incapace, la Colombia inutile allo scopo, il blocco economico, il furto degli averi venezuelani in giro per il mondo e la diplomazia inefficace. Tutte, le hanno provate tutte. Il Venezuela, come prevedibile, da obiettivo alla portata è divenuto rompicapo. Falliti dunque tutti i tentativi di finanziare, armare, addestrare, sostenere politica e diplomaticamente l’opposizione, quella di attaccare direttamente sembra essere la strada unica rimastagli.
Certo, avrebbero potuto incamminarsi sull’unica strada percorribile, quella di relazioni alla pari, di rispetto reciproco, di riconoscimento dei rispettivi sistemi. Il Venezuela non avrebbe mai rappresentato un problema di “sicurezza nazionale”, fa ridere solo il pensarlo. Avrebbe posto sul tavolo una relazione positiva e paritaria ma, comunque, almeno una non belligeranza, un rispetto che è dovuto e non può essere negato o elargito.
Ma gli Stati Uniti non sono in grado di elaborare un processo di dialogo con nessuno; sia perché l’arroganza del comando gli impedisce l’ascolto, sia perché non sono davvero in grado di concepire una linea politica che non preveda la sottomissione a loro con la forza. La cleptocrazia del proprio establishment viaggia in coppia con il furore ideologico degli latinoamericani che risiedono in Florida; sono malati terminali di un finto anticomunismo che occulta la vena predatrice. Hanno serie difficoltà ad analizzare gli scenari che ospitano mentalità diverse dalla loro; una seria incapacità nella gestione di ragionamenti complessi e l’immediato bisogno di semplificazione: tutti elementi che determinano gli errori a catena.
C’è poi una incognita forte sullo scenario caraibico ed è rappresentata dalla risposta possibile di Russia e Cina alla provocazione statunitense. La Cina, che è significativamente esposta dal punto di vista finanziario con Caracas, ha inviato già da tempo apparecchiature ed esperti di guerra elettronica. La Russia, in virtù di un nuovo accordo di cooperazione tecnico-militare, ha fornito a Caracas missili Bation e Iskander, caccia Sukoy SU-30 e il sistema di difesa antiaerea S-400, che ha già mostrato la sua efficacia in Siria proteggendo Damasco dagli attacchi terroristici di Israele. Oltre alla difesa antiaerea il Venezuela è dotato di caccia F-16 statunitensi e dispone di una abbondante dotazione di batterie missilistiche terra-aria mobili e mezzi blindati.
Si tratta di capire quanto Mosca e Pechino intendano puntare sullo scacchiere latinoamericano, considerando che sebbene nessuna delle due capitali abbia voglia di un confronto militare diretto o per procura, i rischi maggiori sono proprio per gli Stati Uniti in una operazione militare che potrebbe ritorcersi contro. Sarà dunque la fermezza euroasiatica che misurerà gli spazi di mediazione con la Casa Bianca. Senza voler minimamente sottovalutare il livello tecnologico e distruttivo del dispositivo militare statunitense nei Caraibi, un attacco non sarebbe una operazione-lampo.
Per citare i due unici successi militari dal 1945 ad oggi degli USA, non vi riuscirono nemmeno con l’isoletta di Grenada nel 1983, dove 600 operai edili cubani bloccarono rangers e marines per diversi giorni. Né vi riuscirono a Panama, nel 1989, dove 23.000 uomini ebbero bisogno di diversi giorni per aver ragione di un minuscola guardia nazionale messa su alla meno peggio da Noriega. Figurarsi in Venezuela oggi. Quale che sia l’esito delle consultazioni, risulta difficile dunque, in questo quadro, pensare ad una passeggiata statunitense, magari da immortalare sul modello di un video-gioco come quelli trasmessi con il bombardamento dell’Irak.
Anche sotto il profilo del consenso interno, Trump farebbe bene a considerare che il Corona virus porterà negli USA tra 250.000 e 350.000 morti. Oltre al dramma umano, la cui responsabilità ricade su un Presidente ignorante ed un Gabinetto di esaltati a tinte criminali, questo produrrà un rischio di collasso persino per le strutture funerarie, oltre al logico diffondersi di una disperazione sociale. Pensare di poterci allegare anche i morti di una guerra che interessa solo ai petrolieri sarebbe follia umana ed elettorale.
Il tempo per le elezioni di novembre è stretto e votare con una guerra in corso sarebbe esiziale per Trump che aveva vinto promettendo il ritiro dei militari da mezzo mondo e di concentrarsi sull’economia.
Potrebbe dunque profilarsi un accordo sul modello di quello sottoscritto nel 1962 per i missili a Cuba tra Krusciov e Kennedy (che prevedeva la rinuncia di missili russi sull’isola in cambio dell’impegno USA di non attaccarla ndr). Ma Trump non è Kennedy: il presidente democratico venne assassinato a Dallas da un complotto di CIA e terroristi cubano americani, mentre quello attuale ha appaltato proprio alla criminale lobby cubano-americana la politica nella regione. Qualcuno, forse Putin, dovrà quindi spiegargli che il decollo del primo caccia e il lancio del primo missile sarebbero l’inizio di un pantano da dove uscirebbe sconfitto. E sebbene nessun presidente USA abbia mai finito il mandato senza almeno una guerra, nessuno ha mai vinto le elezioni con una guerra persa.
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- Scritto da Michele Paris
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Nel pieno dell’emergenza Coronavirus, il ministero della Giustizia britannico ha deciso il rilascio temporaneo di circa 4 mila detenuti dalle carceri di Inghilterra e Galles per contenere la diffusione dell’epidemia in strutture che sono diventate di fatto ad altissimo rischio. Tra coloro che hanno beneficiato del provvedimento non figura però il detenuto politico più famoso del pianeta, il fondatore di WikiLeaks Julian Assange, per il quale il contagio potrebbe risultare letale e rappresenterebbe con ogni probabilità un esito gradito al governo di Londra.
I carcerati per i quali sono state per il momento decise pene alternative sono quelli considerati a “basso rischio” e verranno controllati con dispositivi come braccialetti elettronici. Per quanto riguarda Assange, i suoi legali avevano già presentato un’istanza di scarcerazione il 16 marzo scorso per via del rischio che costituivano le sue condizioni di salute, aggravatesi sensibilmente da anni di persecuzioni e torture subite in Gran Bretagna. Il ricorso era stato ovviamente respinto dal giudice Vanessa Baraitser, incaricata del caso relativo all’estradizione di Assange negli USA nonostante un colossale conflitto di interessi dovuto ai legami del marito con ambienti del “Foreign Office” britannico.
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- Scritto da Pamela Dávila Falconi
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Quito. Immagini dolorose e scioccanti diffuse in tutto il mondo sugli effetti della pandemia Covid-19 nella provincia di Guayas e in particolare nella città di Guayaquil, il principale porto del nostro paese. Il 29 febbraio 2020, l'allora Ministro della Salute riferì che il primo caso di coronavirus era già stato rilevato nel paese. Quel giorno, quando la terribile entità del disastro poteva essere evitata, la nostra storia è cambiata per sempre.
Nonostante l'urgenza e l’attenzione con le quali doveva essere gestita questa pericolosa pandemia, l'irresponsabilità delle autorità ha consentito una partita di calcio con uno stadio quasi pieno, proprio in quei giorni, così come è stato permesso celebrare una festa di nozze in uno dei quartieri più ricchi di Guayaquil, con ospiti europei. Due eventi che hanno aumentato significativamente la diffusione del virus in città.
Un altro contribuito fondamentale alla rapida diffusione della pandemia, oltre alla mancanza di attenzione da parte del governo del governo Lenin Moreno, è stato senza dubbio l'estremo modello finanziario di riduzione considerevole del budget dei servizi pubblici che h prosciugato il sistema sanitario e privilegiato altri tipi di investimenti, come la consegna di 355 milioni di Dollari negli ultimi 2 anni alle forze armate ecuadoriane.
Da parte sua, Víctor Álvarez, presidente del Collegio dei medici di Pichincha, ha spiegato che, nonostante la dichiarazione del governo in merito a un presunto aumento del sistema sanitario, in realtà ciò che esiste è piuttosto un deficit che colpisce il diritto della popolazione a ricevere cure di qualità, perché diminuendo il budget, anche la voce relativa a medicinali, attrezzature, forniture diminuisce e causerebbe persino tagli al personale sanitario.
Allo stesso modo, in un'intervista recentemente rilasciata alla rete della CNN, il ministro della salute ecuadoriano, Juan Carlos Zevallos, ha riconosciuto che i morti di Covid-19 in Ecuador sono 1500, numeri che contraddicono i dati forniti dalle autorità ecuadoriane che parlano di 145 persone. Nell’intervista il ministro afferma che “i cadaveri e il numero dei morti non possono essere nascosti poiché questo è completamente indegno ed è un segno di totale mancanza di trasparenza”, sottolineando che “c'è stato un aumento senza precedenti del numero di defunti in città (Guayaquil) che vanno da 700 a 1500 morti in un periodo di tempo molto breve, e che questo è qualcosa che è diventato ingestibile”.
In Ecuador, gli ospedali non hanno la capacità di assistere i pazienti infetti da Covid-19, poiché non dispongono degli strumenti e del personale necessari, come denunciato da medici e infermieri. Come conseguenza, soprattutto nelle famiglie più povere di Guayaquil ci sono stati casi strazianti come, ad esempio, quello di un uomo che morto da sette giorni nella sua casa situata in un quartiere periferico e il cui corpo inerte si stava decomponendo davanti agli occhi e al dolore di suo fratello. E soprattutto casi multipli di corpi abbandonati per le strade senza il minimo supporto da parte delle istituzioni pubbliche. Questa schifosa verità è ancora ripetuta in modo angosciante, mentre le morti e l'oblio del governo stanno minando tutti.
Di fronte a questa travolgente situazione, in cui ci stanno lasciando intenzionalmente morire, prendendo in considerazione quanto previsto dallo "Statuto di Roma", all’Art. 7 - "Crimini contro l'umanità" - dove lo sterminio è definito come "l'imposizione intenzionale, da parte di un gruppo di potere, di condizioni di vita che impediscono a un grande conglomerato umano di accedere a cibo, cibo, medicine e servizi sanitari, che finisce per mettere a rischio vita delle persone ", la Federazione nazionale degli avvocati dell'Ecuador ha deciso di sporgere denuncia presso il procuratore della Corte penale internazionale contro il Presidente dell'Ecuador, Lenin Moreno Garcés, così come contro Richard Martínez (ministro delle finanze) e María Paula Romo per il crimine di sterminio.
Va ricordato che quando il governo Lenin Moreno dovette decidere tra LIFE e DEBT, decise di pagare il DEBT. Ha preferito pagare 325 milioni di Dollari al FMI e non indirizzarli all'emergenza. Eppure quei soldi avrebbero potuto essere usati per acquistare almeno attrezzature di protezione professionale per medici, barellieri, infermieri, cioè per il personale di prima linea. Avremmo avuto bisogno di quei soldi per poter portare materie prime e preparare qui, nel nostro paese, nei laboratori ecuadoriani, i farmaci le cui dosi sono urgentemente richieste per alleviare la pandemia, la produzione di maschere e, fondamentalmente, respiratori artificiali che avrebbero impedito la morte di molte persone. Invece siamo in uno scenario agghiacciante, con morti e morenti nelle case, nelle strade; con le porte chiuse degli ospedali dove, per mancanza di test di Covid-19 o per nascondere la verità e difendere il regime, vengono stilati certificati di morte per "Polmonite virale non specificata".
L'inefficacia e la crudeltà dell'attuale governo sono state evidenziate in innumerevoli video che documentano una realtà dove coloro che sono costretti a vivere con dolore e morte e che cercano aiuto sono trattati dal governo come bugiardi dalla stampa di regime. Una verità negata con un cinismo enorme, che parla di 700 morti mentre chi vi lavora conta già tra i 2.500 e 3.500 morti. Il silenzio del governo è finito quando alcuni media internazionali hanno puntano lo sguardo su questo piccolo paese colpito dalla pandemia, dall'indolenza e dall'abbandono, e solo allora la verità ha messo il governo Moreno con le spalle al muro e il mondo ha iniziato a conoscere la verità.
Ciò ha motivato diversi presidenti a prendere il governo dell'Ecuador come un cattivo esempio, quello di un governo che nasconde la verità per cercare di appiattire la terrificante curva di morti e infezioni. Moreno però non aveva scelta: non ha rassegnato le dimissioni ma ha riconosciuto pubblicamente di aver mentito, che i dati ufficiali non erano veritieri e ha ordinato che siano resi trasparenti. Ma si è dimenticato di dire che chi aveva nascosto la verità sono funzionari di un governo disumano ai suoi ordini.
I prezzi folli dei medicinali, delle forniture necessarie per la prevenzione del contagio, dei test per verificare l'esistenza del coronavirus, dell'accesso ai servizi sanitari pubblici, colpiscono duramente gli strati più umili. A questo, simbolicamente, si aggiunge la decisione di chiudere i mercati popolari e le vendite di strada, lasciando solo a grandi supermercati e imprese private la possibilità di vendere. Così un altro giro di vite a beneficio degli imprenditori e dei poteri economici che il governo ha palesemente deciso di proteggere a scapito del settore popolare.
Moreno e i suoi soci avevano negoziato apertamente con uomini d'affari e banchieri l’impegno aperto a favorire i loro profitti futuri. La successiva firma di una lettera di intenti con il Fondo monetario fu la conseguenza di ciò. Insieme si sono sbarazzati del vicepresidente Jorge Glas con false accuse. Dopo il fallimento dell'amministrazione di María Alejandra Vicuña, Otto Sonnenholzner, un eminente radiofonico Guayaquil upstart, è stato nominato come suo sostituto, che cercano di istituire come unico candidato per le elezioni presidenziali del 2021.
Sulla base di questa politica concentrata, hanno smantellato lo stato di diritto e l'istituzionalità, hanno ridotto il budget per l'istruzione, la salute e gli investimenti sociali. La scusa è stata la lotta contro la corruzione.
Tutto questo caos istituzionale che si vive in Ecuador, così come in altri paesi del mondo, ci porta a concludere che siamo nelle mani di personaggi totalmente senza scrupoli, disonesti e avidi. Governanti che non sono minimamente interessati alla loro gente, ma solo al potere, al denaro e al raggiungimento di determinati dividendi politici, attraverso bugie e inganni per l'intera popolazione.
Per 3 anni, la libertà di pensiero, espressione, partecipazione e diritti sono stati ridotti a una dichiarazione che sostanzialmente serve a condizionare la coscienza dei cittadini. La manipolazione opportunistica, il processo e l'errore del morenoismo furono l'inizio della distribuzione del potere e dell'autoritarismo, dell'arroganza e della qualità camaleontica che caratterizza l'attuale governo e che è ora il suo imperativo pragmatico.
Se c'è un aspetto trascurabile in politica, è proprio quello dell'ambizione, quando è lo standard monetario che segna i disegni dell'essere umano. Perché i politici insaziabili non misurano mai fin dove l'avidità può portarli o chi possono influenzare lungo il cammino: la loro sarà sempre distruzione e disonestà, cinismo senza limiti. In questa sinistra equazione tra potere, capitale e calcolo, c'è una combinazione macabra. È lì che sorgono aberrazioni morali, le atrofie della personalità e l'autorità della coscienza di produrre grandi eventi storici si estingue.
Come dice Noam Chomsky, “la crisi del coronavirus avrebbe potuto essere prevenuta se avesse avuto autentici leader politici”. O, per dirla con Shakespeare, nel suo Re Lear, “il momento della pestilenza è quello in cui uomini pazzi guidano i ciechi.”