In un clima politico già abbastanza acceso, la morte della giudice “liberal” della Corte Suprema degli Stati Uniti, Ruth Bader Ginsburg, ha inserito un nuovo infuocato argomento di scontro che potrà avere esiti non del tutto prevedibili a poche settimane dalle elezioni presidenziali. Che Trump e i repubblicani riescano alla fine a ratificare in fretta e furia la nomina di un successore, senza alcun dubbio con inclinazioni ultra-reazionarie, appare estremamente probabile, nonostante i possibili ostacoli, ma la determinazione della Casa Bianca a sfruttare il decesso, assieme alle resistenze dei democratici, potrebbero riflettersi sull’esito del voto e sugli equilibri già precari del sistema “democratico” americano.

Con la puntualità di una bomba a orologeria è giunto il rapporto della missione d’inchiesta sul Venezuela, nominata nove mesi fa dal presidente del Consiglio dei diritti umani. La prima cosa da notare è che, sebbene i media si sforzino di presentare tale rapporto come espressione delle Nazioni Unite tout-court, si tratta in realtà del parto di uno specifico e limitato gruppo di lavoro, composto da tre individui che, a quanto pare, non hanno mai messo piede su territorio venezuelano e si sono limitati a qualche testimonianza de relato, raccolta per giunta in buona parte su di un apposito sito web, studiato apposta per garantire l’anonimato dei testimoni https://www.ohchr.org/SP/HRBodies/HRC/FFMV/Pages/Call.aspx.

I tre non sembrano essere personalità di grande spessore o celebrità, né sembra essi possano vantare grandi meriti in materia di diritti umani. Una, Marta Valiñas, è un’oscura giovane praticante portoghese. Il secondo, Paul Seils, è stato direttore dell’Istituto per la giustizia transizionale e di lui si conosce un recente articolo sulla Colombia, sorprendentemente focalizzato sui “crimini” delle FARC, proprio nel momento in cui la giustizia colombiana ha arrestato l’ex presidente Uribe per il suo ruolo nella promozione dei crimini dei paramilitari e settori della destra militare, paramilitare e civile di quel Paese sono impegnati per neutralizzare ogni possibile ruolo positivo delle Nazioni Unite nella soluzione del conflitto, giungendo fino al punto di assassinare un funzionario onesto come Mario Paciolla.

Forse il più noto è il terzo componente del gruppo, tale Francisco Cox Vial, avvocato cileno, noto per la sua difesa d’ufficio del governo Piñera, in procinto a sua volta di essere denunciato alla Corte penale internazionale per le sanguinose repressioni dei moti sociali e politici dell’autunno scorso.

Cox, inoltre è stato socio d’affari dell’ex Sottosegretario alla Giustizia di Piñera, Juan Ignacio Piña, il quale in una recente intervista ha difeso a spada tratta la repressione delle manifestazioni cilene, sostenendo che “non vi deve essere dicotomia tra difesa dell’ordine pubblico e difesa dei diritti umani”. Come si vede proprio dei campioni dei diritti umani.

Il rapporto di cui si parla, del resto, è, a quanto se ne può giudicare dalla sintesi pubblicata dall’Alto Commissariato dei diritti umani delle Nazioni Unite, proprio ben poca cosa. Esso intende fare riferimento a un periodo di oltre sei anni, dal 2014 ad oggi, mettendo insieme impropriamente operazioni contro la criminalità e il terrorismo e la presunta repressione del dissenso. Sebbene la sintesi del rapporto si concluda con un appello alla Corte penale internazionale affinché intervenga contro il governo di Maduro, la fragilità delle accuse è confermata dal fatto che, ad oggi, tale Corte è impegnata soprattutto a investigare sui crimini contro l’umanità commessi contro il popolo venezolano da quelli autori delle sanzioni disumane che lo stanno affliggendo, primo fra tutti il governo Trump (https://www.icc-cpi.int/RelatedRecords/CR2020_00597.PDF).

L’elemento da sottolineare con grande nettezza è tuttavia che la carta delle Nazioni Unite viene giocata oggi spregiudicatamente dai nemici del Venezuela e della pace, proprio nel momento in cui sta avendo successo la strategia del governo Maduro per giungere a una pacificazione definitiva del Paese che sarà sancita dalla partecipazione dei settori maggioritari dell’opposizione alle prossime elezioni in programma per il 6 dicembre.

C’è tutto uno schieramento di cui fanno parte personaggi come l’oramai totalmente screditato Segretario dell’OSA Almagro che ha puntato tutto sulla sconfitta di Maduro. Di fronte al fallimento del pagliaccio Guaidò, isolato e abbandonato anche dai suoi più stretti sodali, il fronte internazionale contrario al chavismo e al popolo del Venezuela rilancia proprio sul terreno delle Nazioni Unite.

Un esito paradossale, per un’Organizzazione nata per promuovere la pace e i diritti umani, ma il cui logo viene oggi strumentalizzato dai nemici dell’una e degli altri, mentre sinistramente il Segretario di Stato statunitense Pompeo continua a minacciare l’invasione e la guerra aperta, tentando di mobilitare gli stanchi e svogliati alleati brasiliani e colombiani, che di gatte da pelare ne hanno già moltissime. Che Trump voglia servire ai suoi potenziali elettori, oggi per molti versi sconcertati, una bella invasione di quello che fu un tempo il cortile di casa di Washington? Può darsi, ma le Nazioni Unite che c’entrano cogli Stati Uniti?

La condanna dei dazi americani sulle importazioni cinesi, emessa questa settimana dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), potrebbe aprire una nuova linea d’attacco per l’amministrazione Trump contro le strutture sovranazionali e le norme che regolano gli scambi internazionali. Anche se la conclusione del tribunale del WTO rappresenta dal punto di vista legale una sconfitta per Washington, è infatti fuori discussione che la Casa Bianca possa decidere di adeguarsi in un futuro più o meno lontano.

A oltre cinque anni dall’inizio dell’aggressione dell’Arabia Saudita contro lo Yemen, gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo cruciale nel conflitto che è diventato da tempo il più grave disastro umanitario attualmente in corso nel pianeta. Dal 2015, entrambe le amministrazioni succedutesi a Washington hanno cercato e ostentato motivazioni pseudo-legali per giustificare l’appoggio ai regimi direttamente responsabili del massacro. Dietro le quinte, però, si stavano svolgendo accese discussioni tra i consiglieri legali del dipartimento di Stato e i loro superiori, tutti consapevoli di essere in presenza di azioni che avrebbero potuto portare ad accuse per crimini di guerra anche ai più alti livelli del governo americano.

Con la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele da una parte ed Emirati Arabi Uniti e Bahrein dall’altra, ratificata martedì alla Casa Bianca, è stata di fatto liquidata – e con un gesto di aperto tradimento – la questione palestinese come elemento centrale dell’approccio dei paesi arabi allo stato ebraico. Lo “storico” accordo è il frutto degli sforzi dell’amministrazione del presidente americano Trump, che spera di raccoglierne i frutti nelle elezioni di novembre, ma risponde anche ai calcoli dei regimi coinvolti. Che la clamorosa svolta possa portare i risultati sperati per questi ultimi, rimane tuttavia in forte dubbio.


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