Le tremende esplosioni che hanno squarciato il porto di Beirut appaiono, man mano che i giorni passano e le parole s’intrecciano, sempre meno fatalità e sempre più volontà precisa di qualcuno. A confermare questa lettura ci sono interessi evidenti e specifiche tecniche difficili da confutare. Il racconto della fabbrica di fuochi d’artificio non ha retto; nessuno dotato di un minimo si logica e di senno installa una fabbrica di fuochi pirotecnici in un’area ad alto traffico di persone e merci. Allora,vista la scarsa credibilità di questa pista, in soccorso del depistaggio internazionale è arrivata la storia della nave ormeggiata in porto (ovviamente russa, ma solo perché non vi sono navi cinesi che operano in zona).

Mentre da una parte il governo americano impone sanzioni economiche pesantissime alla popolazione siriana, dall’altra continua a muoversi per rubare letteralmente le risorse energetiche del paese mediorientale. L’amministrazione Trump ha conservato un contingente militare nel nord-est della Siria, con l’obiettivo principale, secondo quanto ammesso dallo stesso presidente, di mettere le mani sui pozzi petroliferi appartenenti a Damasco. Nei giorni scorsi, perciò, sono stati in pochi a sorprendersi della notizia di un accordo palesemente illegale che ha ratificato il furto di petrolio, col rischio oltretutto di far precipitare di nuovo i rapporti tra Stati Uniti e Turchia.


Il Dipartimento di Stato USA e la Casa Bianca hanno di fatto orchestrato un’operazione che, ufficialmente, ha visto i leader delle cosiddette Forze Democratiche Siriane (SDF), a maggioranza curda, stipulare un accordo con la compagnia petrolifera americana Delta Crescent Energy per estrarre greggio, raffinarlo e, per la quota eccedente i bisogni locali, esportarlo sul mercato internazionale.


Circa il 70% dei giacimenti petroliferi siriani è situato nel territorio controllato dalle milizie curde conosciute col nome di Unità di Protezione Popolare (YPG) e che dominano le SDF. I curdi nel nord-est della Siria sono appoggiati dagli Stati Uniti e sono anzi la forza su cui Washington punta per promuovere i propri interessi nel paese, cioè, in definitiva, per cercare di rimuovere il governo di Assad. Prima dello scoppio del conflitto, alimentato dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente, la Siria produceva circa 380 mila barili di petrolio al giorno.


Sull’accordo per lo sfruttamento petrolifero, il governo USA aveva mantenuto un comprensibile riserbo, vista l’illegalità di esso e gli imbarazzi che ha poi effettivamente creato sul fronte diplomatico. Giovedì scorso la notizia aveva però iniziato a trapelare dopo che era emersa nel corso di un’audizione al Senato del segretario di Stato, Mike Pompeo.


In quella circostanza, il senatore repubblicano Lindsey Graham aveva rivelato che il comandante delle SDF, Mazloum Abdi, lo aveva informato di un accordo petrolifero con una compagnia americana non meglio identificata per “modernizzare i pozzi nel nord-est della Siria”. Graham aveva allora chiesto a Pompeo se l’amministrazione Trump appoggiava l’intesa e l’ex direttore della CIA aveva subito risposto affermativamente. A conferma del ruolo determinante svolto dalla Casa Bianca, Pompeo aveva poi aggiunto che il raggiungimento di un accordo aveva richiesto più tempo del previsto e che il governo USA si sta ora adoperando per la sua implementazione.


A livello ufficiale, Washington sostiene che il controllo della produzione e dell’esportazione di greggio nella Siria nord-orientale serve a garantire ai curdi i mezzi per il sostentamento della popolazione locale e per combattere su tre fronti, contro ciò che resta dello Stato Islamico (ISIS), le forze di Damasco e quelle turche. In realtà, si tratta di un puro e semplice furto di risorse che appartengono al governo legittimo della Siria. L’autonomia delle forze curde non è in alcun modo riconosciuta da Damasco, tantomeno per quanto riguarda la gestione del petrolio, e il contingente militare americano continua a occupare in modo del tutto illegittimo e illegale questa porzione di territorio siriano.


La reazione del governo di Assad alla notizia dell’accordo tra i curdi e Delta Crescent Energy è stata comprensibilmente molto dura. “L’accordo è nullo e non ha alcun fondamento legale” ha affermato correttamente il comunicato emesso da Damasco. Ciò che è accaduto nei giorni scorsi è secondo Assad un “accordo tra le SDF e una compagnia petrolifera americana per rubare il petrolio siriano con il sostegno dell’amministrazione USA”. Le milizie curde siriane avevano sottratto all’ISIS i pozzi petroliferi alcuni anni fa e, con il contributo militare americano, hanno in seguito respinto svariati tentativi delle forze governative di riconquistarne il legittimo controllo.


In una dichiarazione rilasciata alla testata on-line Politico, uno degli amministratori di Delta Crescent Energy, James Cain, ha confermato la regia dell’amministrazione Trump e abbozzato i contorni di un’operazione condotta come se il territorio siriano fosse poco più di un protettorato di Washington. Cain ha spiegato come la sua compagnia si sia impegnata a “tenere informato il dipartimento di Stato” circa l’andamento delle trattative con i curdi e, pur “non cercandone l’approvazione”, lo scrupolo è stato quello di agire “secondo gli interessi americani”.


L’idea che il petrolio siriano appartenga al popolo di questo paese e debba essere controllato dal governo di Damasco non ha dunque sfiorato i vertici di Delta Crescent Energy. Che la Casa Bianca e il dipartimento di Stato abbiano scelto questa compagnia poco conosciuta e di importanza decisamente minore rispetto ai colossi petroliferi USA non è un caso. L’operazione risponde d’altra parte a interessi diplomatici e strategici ancora prima che commerciali e Delta Crescent Energy era il candidato ideale per portarla a termine.


La compagnia è stata creata nel paradiso fiscale del Delaware nel febbraio 2019 e ha tra i suoi “partner” alcuni ex esponenti dell’apparato militare e diplomatico americano, come il già citato James Cain, ex ambasciatore USA in Danimarca, e James Reese, ex ufficiale dei corpi speciali Delta Force dell’esercito americano. Agendo con ogni probabilità su indicazione del dipartimento di Stato, i vertici della compagnia hanno negoziato per oltre un anno con i curdi, per poi ottenere una “licenza” dal Tesoro americano lo scorso mese di aprile.


L’atteggiamento degli Stati Uniti in Siria continua dunque a essere tutt’altro che all’insegna del disimpegno, come sostengono alcuni ambienti di potere a Washington critici dell’amministrazione Trump. Lo scorso mese di luglio era entrato ad esempio in vigore anche il cosiddetto “Caesar Act”, una legge che impone sanzioni estremamente dure contro le compagnie siriane e quelle di altri paesi che intendono intrattenere rapporti commerciali e finanziari con Damasco.
L’iniziativa, volta a strangolare l’economia della Siria, è in sostanza una nuova punizione per la resistenza del governo di Assad contro la guerra condotta senza successo sotto la regia americana nell’ultimo decennio. Oltre a impedire virtualmente le transazioni commerciali, con l’obiettivo di affamare la popolazione siriana e fomentare una rivolta contro il governo, gli Stati Uniti hanno così ratificato anche il furto sistematico di una delle principali fonti di entrate del paese, come appunto il petrolio.


L’accordo tra i curdi siriani e la compagnia Delta Crescent Energy rischia in ogni caso di incrinare nuovamente i rapporti tra Stati Uniti e Turchia, dopo che negli ultimi mesi si era registrata una certa distensione in conseguenza soprattutto delle frizioni tra Ankara e Mosca sul fronte libico. Com’è noto, la Turchia considera i curdi dell’YPG un’organizzazione terroristica legata al PKK e praticamente tutta la politica siriana del presidente Erdogan è rivolta a impedire la formazione di un’entità curda autonoma nel nord della Siria. Dall’agosto del 2016, la Turchia ha condotto tre operazioni militari oltre il confine siriano, tutte dirette contro la minaccia del “terrorismo” curdo.


Il ministero degli Esteri turco ha condannato senza mezzi termini l’accordo petrolifero dei giorni scorsi. Con esso, secondo Ankara, gli Stati Uniti sono complici nel “finanziamento del terrorismo” e, essendo illegale dal punto di vista del diritto internazionale, costituisce una minaccia all’integrità territoriale, all’unità e alla sovranità della Siria. Il possibile riaccendersi dello scontro tra USA e Turchia sul nodo curdo-siriano introduce così una nuova complicazione in una relazione tra alleati già più volte sull’orlo del baratro negli ultimi anni, fornendo a Mosca e Damasco un potenziale appoggio strategico per provare a riconquistare finalmente il territorio siriano che ancora sfugge al completo e legittimo controllo del governo di Assad.

Un misterioso scontro tra Israele e Hezbollah al confine meridionale libanese ha mostrato in questi giorni quanti e di quale gravità siano gli scenari caldi in Medio Oriente che minacciano di fare esplodere una conflagrazione generale in qualsiasi momento. Lo scontro, finora più verbale che materiale, ha anche fatto luce sulla delicata situazione del governo di coalizione di Tel Aviv, costretto a fare i conti con la seconda ondata del Coronavirus e dibattuto tra le velleità di contenere il cosiddetto “asse della Resistenza” sciita e i timori di innescare una guerra di cui a pagare il conto più salato potrebbe essere forse lo stesso stato ebraico.

Le polemiche e le proteste contro l’impiego di agenti federali di vari corpi speciali in alcune città americane non hanno fatto nulla per convincere il presidente Trump a desistere da un’iniziativa gravemente lesiva dei diritti democratici e con ogni probabilità anti-costituzionale. Anzi, la Casa Bianca ha già preparato l’invio di centinaia di altre truppe per reprimere le manifestazioni contro la brutalità della polizia, a cominciare da Portland, nell’Oregon, da qualche settimana vero e proprio fulcro della rivolta e simbolo delle tensioni sociali che stanno iniziando a esplodere negli Stati Uniti.

L’ordine di chiusura reciproco di due consolati deciso dai governi di Washington e Pechino ha suggellato un’altra settimana caratterizzata dall’inasprirsi dello scontro sino-americano. Oltre alla nuova diatriba, nei giorni scorsi è arrivata anche una durissima presa di posizione dell’amministrazione Trump che, tramite il segretario di Stato Pompeo, ha apertamente minacciato la rottura degli equilibri diplomatici degli ultimi quarant’anni con la Cina, spianando la strada a un possibile confronto di natura militare.

Nella mattinata di lunedì, le autorità cinesi hanno preso possesso del consolato USA nella città sud-occidentale di Chengdu, nella provincia di Sichuan, dopo l’ordine di evacuazione imposto venerdì ai diplomatici americani. L’iniziativa cinese, com’è noto, è la risposta a quella simile decisa martedì scorso dagli Stati Uniti. Per la Casa Bianca, la rappresentanza cinese a Houston, in Texas, era un centro di spionaggio e ne aveva ordinato perciò la chiusura con un preavviso di 72 ore.

Secondo alcune ricostruzioni in gran parte ignorate dai media ufficiali, la ragione immediata della misura estrema presa da Washington sarebbe tuttavia un’altra. Il governo USA aveva cioè rifiutato la richiesta delle autorità cinesi di sottoporre a test di positività al Coronavirus ed eventualmente a quarantena i diplomatici americani destinati a tornare a Wuhan dopo avere lasciato la Cina all’inizio dell’epidemia. I due governi stavano trattando sulle modalità del ritorno, come hanno spiegato alcuni media cinesi, ma la fermezza di Washington nel respingere i test e di Pechino nel ridurre al minimo il rischio di “casi di ritorno” hanno impedito una risoluzione dello stallo e innescato gli ordini di chiusura dei due consolati.

Dopo la chiusura della rappresentanza cinese di Houston, il dipartimento di Giustizia americano aveva anche incriminato quattro militari cinesi operanti in territorio USA e ritenuti agenti di intelligence sotto copertura. Uno di essi si era rifugiato nel consolato cinese di San Francisco, ma è stato in seguito arrestato assieme agli altri tre colleghi. Al di là delle ragioni immediate delle misure adottate da entrambi i governi nei giorni scorsi, la recente escalation indica un rapido scivolamento verso un conflitto sempre più aspro e forse nemmeno riconducibile a scenari esclusivamente da “guerra fredda”.

Il discorso pubblico di giovedì scorso del segretario di Stato Pompeo ha chiarito a sufficienza quali siano le basi della rivalità con Pechino e le intenzioni di Washington. L’ex direttore della CIA aveva annunciato il superamento del paradigma di “cieco coinvolgimento” della Cina, ovvero ha invocato un nuovo approccio alle ambizioni e all’allargamento dell’influenza cinese, basato non più sul dialogo o sul “contenimento”, bensì sulla messa in atto di politiche aggressive e unilaterali, possibilmente in stretta collaborazione con gli alleati americani.

Significativamente, Pompeo ha aperto una nuova fase del confronto con Pechino parlando dalla biblioteca intitolata all’ex presidente Nixon. Quest’ultimo, sotto la regia dell’allora consigliere per la Sicurezza Nazionale, Henry Kissinger, negli anni Settanta del secolo scorso aveva orchestrato la distensione con la Cina, principalmente in funzione anti-sovietica. Con l’intervento di qualche giorno fa, Pompeo ha dato notizia del fallimento di questo approccio, lanciando una battaglia per un “21esimo secolo di libertà” contro la prospettiva di un “secolo cinese” e una “nuova tirannia” di un regime definito “marxista-leninista”.

L’assurdità di quest’ultima affermazione è testimoniata dall’evoluzione stessa della Cina a partire proprio dall’incontro tra Nixon e Mao Zedong del 1972 e dalla ratifica delle piene relazioni diplomatiche tra i due paesi sette anni più tardi. Nei quattro decenni successivi, l’economia cinese si è infatti integrata nei circuiti del capitalismo internazionale, diventando prima un serbatoio di manodopera a basso costo per i paesi sviluppati e oggi una minaccia alla posizione dominante degli Stati Uniti. Ciò che costituisce una minaccia mortale per il capitalismo americano non sono né una Cina comunista, molto difficilmente definibile come tale, né tantomeno i metodi di un regime anti-democratico o “totalitario”, quanto l’emergere di questo paese come potenza globale.

Questa sfida agli interessi strategici USA è tanto più formidabile in quanto, da un lato, è lo specchio del declino del capitalismo americano e, dall’altro, deve essere combattuta da Washington in un panorama che vede la Cina pienamente coinvolta nel sistema economico e commerciale globale, con intrecci dall’importanza enorme anche con gli stessi Stati Uniti.

La vastità della sfida lanciata da Washington è tale da giustificare un altro degli elementi chiave del discorso di Pompeo. Il segretario di Stato USA ha sollecitato i propri alleati a fare una scelta di campo e a mettere da parte le ambiguità. Mentre finora molti paesi, compresi quelli dell’Europa occidentale, hanno cercato di trovare un punto di equilibrio tra i legami strategici e nell’ambito della “sicurezza” con l’alleato americano e quelli economico-commerciali con Pechino, l’irrigidimento delle posizioni degli Stati Uniti nei confronti della Cina renderà sempre più complicato un atteggiamento di questo genere.

Il deteriorarsi dei rapporti tra USA e Cina non è il risultato di presunte attività “maligne” di Pechino, quanto la diretta conseguenza della crisi economica, politica e sociale scatenata dall’epidemia di Coronavirus oltreoceano. La disperazione della classe dirigente americana di fronte all’accelerazione di dinamiche in atto da tempo ha portato a galla e rafforzato tendenze tutt’altro che nuove o limitate al Partito Repubblicano e alla cerchia dei “falchi” che consigliano il presidente Trump.

L’offensiva anti-cinese è infatti un affare interamente bipartisan a Washington ed era stata anzi l’amministrazione Obama a inaugurare quella “svolta” asiatica che ha messo in moto la macchina diplomatica e militare USA per cercare di ridimensionare le ambizioni di Pechino. Il candidato del Partito Democratico alla Casa Bianca, l’ex vicepresidente Joe Biden, in varie occasioni ha inoltre attaccato Trump da destra sulla Cina, lasciando intendere, se possibile, un ulteriore aumento delle pressioni su Pechino in caso di successo nelle elezioni di novembre.

Una cupa analisi dello stato delle relazioni sino-americane pubblicata nel fine settimana dal New York Times ha confermato i sentimenti sostanzialmente univoci dell’establishment degli Stati Uniti nei confronti del “dilemma” cinese. Le fonti citate dall’articolo testimoniano di questa situazione e disegnano un quadro nel quale il governo americano, “dal presidente Trump in giù”, intende fare dello “scontro, dell’intimidazione, dell’aggressione e dell’antagonismo” la cifra dei rapporti con la Cina, “indipendentemente da chi guiderà gli Stati Uniti il prossimo anno”.

Il messaggio recepito a Pechino non può essere più chiaro ed è stato d’altra parte rafforzato da una lunga serie di iniziative al limite dell’isteria prese a Washington negli ultimi mesi. L’elenco include almeno le accuse di avere tenuto inizialmente nascosta la gravità dell’epidemia di Coronavirus, la guerra contro Huawei, la denuncia, con annesse sanzioni, del trattamento della minoranza Uigura musulmana nello Xinjiang, la revoca dello status speciale di Hong Kong dopo il giro di vite contro le proteste, lo stop ai visti di ingresso negli USA per gli studenti legati alle forze armate cinesi e la recente presa di posizione ufficiale che ha dichiarato illegali tutte le rivendicazioni territoriali di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

Se c’è una conclusione che può essere tratta dagli sviluppi più recenti, culminati nella chiusura dei consolati di Houston e Chengdu, è che ad oggi il rischio di una guerra aperta tra le prime due potenze del pianeta risulta più concreto che mai. A fugare qualsiasi dubbio in questo senso è stato, tra gli altri, il direttore dell’influente testata ufficiale in lingua inglese Global Times, Hu Xijin, il quale nel fine settimana dal suo account del social network cinese Weibo ha invitato il governo del suo paese a dotarsi in fretta di nuove armi nucleari, unico deterrente a suo dire in grado di “tenere l’arroganza americana al di sotto dei livelli di guardia”.


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