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Ley de Urgente Consideración: si chiama così perché il Parlamento ha a disposizione solo 90 giorni per discuterla. In così breve tempo deputati e senatori hanno dovuto esaminare circa 500 articoli di una mega proposta di legge che configura un paese nettamente spostato a destra. Voluta dal governo del presidente Luis Lacalle Pou (Partido Nacional), entrato in funzione il primo marzo, la legge è stata approvata l'8 luglio dal Senato dopo il via libera dei deputati la settimana precedente.
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- Scritto da Mario Lombardo
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Nell’arco di appena ventiquattro ore, il governo conservatore britannico è passato da difensore dei diritti umani in tutto il pianeta a cinico trafficante di armi pronto ad assistere un regime sanguinario come quello saudita. L’apparente schizofrenia di Londra deve sorprendere solo in parte, visto che l’immagine di paladino della democrazia è esclusivamente di facciata, ed è da ricondurre alle scosse di assestamento che stanno attraversando la classe politica britannica nel dopo Brexit e nel pieno del rimescolamento degli equilibri strategici globali.
Lunedì il ministro degli Esteri, Dominic Raab, aveva presentato alla Camera dei Comuni una nuova legge, ispirata a una simile in vigore da qualche tempo negli Stati Uniti, che permette al Regno Unito di imporre sanzioni punitive a organizzazioni e individui coinvolti in violazioni dei diritti umani. Il capo della diplomazia del governo di Boris Johnson ha per ora deciso una prima tranche di sanzioni, applicate a 49 persone ed “entità” di appena quattro paesi.
Due di questi sono molto prevedibilmente Russia e Corea del Nord, bersagli consueti della logora retorica pseudo-democratica occidentale. Uno – il Myanmar – lo è solo un po’ meno, visto che dopo un breve flirt con l’Occidente sembra essere vicino a tornare nell’orbita della Cina. Maggiore sorpresa hanno provocato invece le sanzioni contro l’Arabia Saudita. Alcuni funzionari del regime sono finiti sulla lista nera di Londra perché coinvolti nel brutale assassinio del giornalista-dissidente Jamal Khashoggi nel consolato del regno a Istanbul.
Qualche commentatore ha fatto notare come la presa di posizione britannica si ispiri alle misure punitive implementate frequentemente da Washington, non tanto per difendere democrazia e diritti umani quanto per promuovere gli interessi strategici americani ovunque questi siano in gioco. Lo stesso linguaggio del ministro degli Esteri britannico ha ricalcato in vari punti le sanzioni USA, dal “congelamento dei beni” dei destinatari di queste ultime al riferimento nel nome della legge all’avvocato russo Sergey Magnitsky, morto in carcere a Mosca nel 2009 e celebrato in Occidente per avere scoperto una frode fiscale da centinaia di milioni di dollari.
In un certo senso, la stretta aderenza all’esempio americano sembra indicare che il Regno Unito ha tutta l’intenzione di allinearsi all’alleato d’oltreoceano nel programmare il proprio futuro fuori dall’Unione Europea. D’altro canto, se l’iniziativa contro crimini e abusi fosse seria, la lista di proscrizione di Londra dovrebbe includere, oltre che svariati esponenti dell’attuale governo e di quelli che l’hanno preceduto, in primo luogo proprio gli Stati Uniti.
Ironicamente, mentre Raab rivendicava il ruolo del Regno Unito nella difesa dei diritti umani nel mondo, sull’esempio di Washington, da Ginevra la relatrice ONU per gli assassini extragiudiziari denunciava clamorosamente l’amministrazione Trump per l’uccisione mirata lo scorso gennaio a Baghdad del generale iraniano Qasem Soleimani. Per Agnès Callamard, infatti, quell’operazione è stata niente di meno che un crimine ingiustificato e una violazione del diritto internazionale.
Le nuove sanzioni di Londra hanno ad ogni modo fatto più rumore negli ambienti politici britannici per l’esclusione della Cina. Misure punitive contro individui di nazionalità cinese sarebbero state ugualmente strumentali, ma l’aspetto più interessante è da ricercare nel contesto da cui è scaturita la quasi rivolta di una parte dei parlamentari conservatori, scagliatisi sul governo Johnson per avere risparmiato Pechino.
Da un lato, le proteste esplose in questi ambienti ferocemente anti-cinesi appaiono inutili, poiché il governo di Londra ha di recente già intrapreso la strada dello scontro frontale contro Pechino. Ad esempio, solo negli ultimi giorni, Johnson ha riconfermato la linea dura in merito alle vicende di Hong Kong, giungendo a offrire la cittadinanza britannica a tre milioni di residenti dell’ex colonia, mentre ha fatto un passo forse decisivo verso l’esclusione completa di Huawei dalla realizzazione della rete 5G nel Regno Unito.
Non c’è dubbio in ogni caso che l’arma dei “diritti umani” avrebbe un altro livello qualitativo, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica, e potrebbe aiutare a garantire una certa copertura nell’implementazione di politiche dettate unicamente da interessi economici e strategici. Da qui l’invito dei conservatori “ribelli” a estendere le sanzioni anche alla Cina.
A ben vedere, tuttavia, il fatto che Raab e Johnson abbiano per il momento risparmiato Pechino sembra rivelare altro. Per cominciare, un peso lo hanno avuto senza dubbio i legami economici, commerciali e finanziari tra Cina e Gran Bretagna, tanto più dopo le reazioni non esattamente entusiaste di Pechino alle ultime iniziative riguardanti Hong Kong e Huawei. A questo aspetto vanno poi collegate le riserve di almeno una parte della classe dirigente britannica circa l’opportunità di disegnare un percorso anti-cinese per il futuro del Regno Unito.
Qualcuno, invece, ha visto nelle esitazioni del “Foreign Office” in merito alla Cina un messaggio a Washington. Londra attenderebbe cioè segnali e incentivi dall’amministrazione Trump, in ambito strategico e commerciale, per limitare gli effetti negativi di un eventuale ripudio della Cina come partner a tutto campo una volta sciolti i legami con Bruxelles.
Che la nuova legge sui diritti umani e le sanzioni di Londra, introdotta solennemente lunedì da Dominic Raab, sia dunque una farsa è piuttosto chiaro. Lo stesso governo Johnson non si è nemmeno preoccupato di non renderlo troppo evidente, visto che letteralmente poche ore dopo l’intervento in Parlamento del ministro degli Esteri è stata annunciata un’iniziativa diametralmente opposta.
Come accennato all’inizio, martedì il ministro del Commercio, Liz Truss, ha riautorizzato la vendita di armi a uno dei regimi con le maggiori responsabilità in materia di violazione dei diritti umani. Armamenti ed equipaggiamenti militari per svariati miliardi di sterline potranno tornare a prendere la strada dell’Arabia Saudita, dopo che un tribunale britannico aveva congelato le forniture lo scorso anno. Lo stop alle licenze di vendita alla monarchia wahhabita era stato deciso in risposta a una denuncia che accusava il governo di Londra di non avere valutato a sufficienza il “rischio umanitario” derivante da queste transazioni, in particolare per gli effetti distruttivi provocati nel quadro della guerra criminale scatenata da Riyadh in Yemen.
A cancellare la moratoria è stato un colpo di spugna magistrale deciso da un governo che si era appena proclamato paladino dei diritti umani nel mondo. La ministra Truss ha cioè certificato che la presunta indagine condotta dal suo governo non ha riscontrato rischi sistematici per i civili in Yemen da collegare alla vendita di armi ai sauditi. Per Londra, la lunga lista di massacri di civili nel paese della penisola arabica, verosimilmente portati a termine anche con le armi prodotte in Gran Bretagna, è fatta soltanto di “incidenti isolati” che non comportano un intento criminale da parte di Riyadh.
Su questa valutazione ha influito il fatto che l’Arabia Saudita è il primo cliente dei produttori di armi del Regno Unito. Il colosso BAE Systems ha ad esempio venduto armi e fornito assistenza per manutenzione di aerei da guerra al regno per un valore complessivo di 15 miliardi di sterline negli ultimi cinque anni. Secondo alcune stime, il solo conflitto in Yemen ha fruttato dal 2015 più di 5 miliardi di dollari ai produttori britannici.
Se l’assassinio di Khashoggi merita quindi l’imposizione di sanzioni, peraltro da ricondurre più che altro alle aperture saudite a Russia e Cina, secondo la sensibilità umanitaria altamente selettiva di Londra il massacro di decine di migliaia di yemeniti può invece proseguire, sempre che contribuisca a realizzare profitti per l’industria bellica di Sua Maestà.
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- Scritto da Fabio Marcelli
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La decisione del giudice britannico di attribuire le 31 tonnellate d’oro custodite nella Banca d’Inghilterra dal go verno venezuelano all’autoproclamato “presidente” per burla del Venezuela Guaidò, non è ovviamente uno scherzo, anche se ne ha tutta l’apparenza. Si tratta innanzitutto di un gravissimo atto di furto, pirateria e brigantaggio internazionale. Un richiamo diretto alla “gloriosa” tradizione britannica della guerra da corsa, quando Sir Francis Drake ed altri scorrazzavano per i mari al servizio di Sua Maestà la Regina Elisabetta.
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- Scritto da Michele Paris
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Le crescenti pressioni internazionali degli ultimi giorni e la natura esplosiva del provvedimento in fase di preparazione hanno spinto il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, quanto meno a rimandare la prevista annessione unilaterale di una parte del territorio occupato della Cisgiordania. La decisione è stata presa probabilmente anche in seguito al mancato via libera degli Stati Uniti, dovuto alle divisioni interne all’amministrazione Trump su un provvedimento che rischia di trasformarsi in un boomerang sia per Washington che per Tel Aviv.
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- Scritto da Mario Lombardo
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L’ultima gigantesca fake news anti-russa, pubblicata nel fine settimana dal New York Times, continua a rimbalzare sui media americani e a dominare il dibattito politico di Washington nonostante l’assurdità delle accuse rivolte al Cremlino e la totale assenza di prove del comportamento attribuito a Mosca. L’intelligence militare russa, com’è ormai noto, avrebbe offerto incentivi in denaro ai Talebani per spingerli a uccidere militari che fanno parte del contingente americano di occupazione dell’Afghanistan.
I tre autori del pezzo, uscito venerdì scorso sulla versione on-line del quotidiano newyorchese e il giorno successivo su quella cartacea, si sono basati come sempre per la loro “esclusiva” sulle imbeccate di anonimi “funzionari” governativi e dei servizi segreti USA, le cui confidenze vengono puntualmente spacciate come fatti incontrovertibili da quello che dovrebbe essere il più autorevole giornale americano.
La notizia aveva il preciso scopo immediato di scatenare un polverone di polemiche contro il presidente Trump e ravvivare, come accade a intervalli regolari, la campagna di demonizzazione contro la Russia di Putin. Sulla questione della “taglia” messa dai russi sulla testa dei soldati americani si sono così scatenati nel fine settimana tutti i network d’oltreoceano, nessuno dei quali ha sollevato anche un solo dubbio sulla veridicità del rapporto del Times.
Seguendo un copione ben collaudato, lunedì la palla è passata alla politica. I leader democratici al Congresso hanno per primi ripreso le accuse contro la Casa Bianca e il suo inquilino, bollato come un burattino di Putin, per poi chiedere chiarezza sia al presidente sia ai servizi segreti USA, soprattutto sul possibile fatto che Trump fosse stato informato per iscritto già nel mese di febbraio circa il pericolo che incombeva sui militari americani a causa delle manovre di Mosca.
La messinscena è stata corredata dal solito coro di insulti e accuse nei confronti di Putin, a cui si è presto unita buona parte dei membri repubblicani del Congresso. Tra i più coloriti nell’esprimere la propria indignazione per un’operazione che con ogni probabilità non è mai avvenuta è stato il senatore repubblicano dell’Oklahoma, James Inhofe, il quale ha ricordato come sia risaputo “da tempo che Putin è un criminale e un assassino”.
Ancora, briefing tra il Congresso e la Casa Bianca sono stati convocati con urgenza. Lunedì è stato ragguagliato sullo scandalo del momento un gruppo di parlamentari repubblicani, mentre martedì è toccato ai democratici. Trump e la sua portavoce, Kaleigh McEnany, hanno dato invece una spiegazione perfettamente coerente con la natura inconsistente della vicenda, cioè che il presidente non era stato messo al corrente dei presunti fatti denunciati dal Times perché l’informazione riguardante le ricompense offerte dai russi ai Talebani non risultava credibile.
Un’analisi fattuale di questa “rivelazione” sarebbe di poca utilità, visto che essa non contiene nessun fatto concreto né alcuna prova di quanto viene sostenuto. L’articolo iniziale e i successivi di contorno sono pura propaganda, diffusa da quelli che assomigliano più a stenografi della CIA che non a giornalisti. L’operazione del Times non è nuova ma si inserisce in uno schema che viene continuamente alimentato sulle ceneri del defunto “Russiagate” con obiettivi ben precisi. Questi ultimi sono riconducibili allo sforzo del “deep state” americano per creare un clima di isteria collettiva volto a dipingere il governo di Putin come un nemico mortale degli Stati Uniti e, in ultima analisi, a preparare la popolazione a una futura guerra contro la seconda potenza nucleare del pianeta.
Nell’immediato, questi ambienti ferocemente anti-russi puntano a tenere alta la pressione sulla Casa Bianca per scoraggiare anche il minimo segnale di distensione tra Washington e Mosca. La prima conseguenza di ciò sarà probabilmente l’affondamento del piano di Trump di invitare nuovamente la Russia di Putin al prossimo G7, in modo anche da frustrare qualsiasi ipotesi di riavvicinamento strategico tra l’Occidente e Mosca nel quadro internazionale che prenderà forma dopo l’emergenza Coronavirus.
Con l’operazione orchestrata assieme al New York Times, gli oppositori dell’amministrazione Trump all’interno dell’apparato di potere americano hanno anche come obiettivo il boicottaggio del complicato processo di pace in corso in Afghanistan. L’accordo siglato tra la Casa Bianca e i Talebani a inizio anno prevede la graduale uscita di scena del contingente di occupazione USA dal paese centro-asiatico, vincolata al lancio e al successo di negoziati di pace tra i Talebani e il governo-fantoccio di Kabul.
In molti a Washington vedono però con preoccupazione un ritiro dall’Afghanistan, paese considerato cruciale nel “grande gioco” dell’integrazione euro-asiatica e alla luce della competizione strategica con Russia e Cina. Come minimo, poi, queste manovre mirano a estromettere il Cremlino dagli sforzi diplomatici in atto in Afghanistan, seminando nel governo di Kabul il dubbio dell’inaffidabilità del governo di Mosca come facilitatore della trattativa con i Talebani.
Per quanto riguarda ancora il merito delle accuse sollevate dall’articolo del Times, una riflessione superficiale sulle vicende afgane e sugli obiettivi russi basterebbe a svelare l’esclusiva per quello che realmente è, vale a dire un’operazione di propaganda. Prima ancora di ciò, lo stesso giornale di New York, così come il Washington Post, il Wall Street Journal e altri media che hanno tempestivamente “confermato” le rivelazioni iniziali, sono stati anch’essi costretti ad ammettere che non esistono prove dei pagamenti russi ai Talebani per colpire i militari americani in Afghanistan.
Inoltre, dagli stessi articoli dei giorni scorsi emerge come all’interno della comunità dell’intelligence USA ci fossero voci discordanti che giudicavano inattendibile il presunto rapporto sul piano russo. Soprattutto, le fonti principali delle accuse contro il Cremlino sarebbero militanti e criminali detenuti in Afghanistan, più o meno legati ai Talebani. Dell’affidabilità di confessioni ottenute in questo modo è quasi inutile discutere e anche l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), secondo quanto riportato dal Washington Post, si sarebbe mostrata estremamente scettica circa le informazioni ricavate da simili interrogatori. Tutte le ricostruzioni apparse sulla stampa “mainstream”, in ogni caso, sono infarcite di precisazioni (“vaghe informazioni di intelligence”, “prove non del tutto confermate”) che, a ben vedere, finiscono per smontare la tesi centrale costruita contro il Cremlino.
Il Pentagono, inoltre, tramite un portavoce ha emesso un comunicato lunedì per smentire l’esistenza di prove che confermino “le recenti accuse sollevate dalla stampa”, riferendosi in particolare a una notizia diffusa dalla Associated Press. L’agenzia di stampa americana aveva scritto che l’intelligence USA stava indagando la morte di tre militari in un attentato dell’aprile 2019 vicino alla base aerea di Bagram come un possibile episodio da collegare ai pagamenti fatti dai servizi segreti militari russi (GRU) ai Talebani.
Anche in questo caso non vengono fornite prove o indizi che giustifichino i sospetti. È probabile piuttosto che fonti governative USA abbiano passato l’informazione alla Associated Press per rimediare a uno dei tanti punti deboli della notizia originariamente pubblicata dal New York Times, cioè che Mosca poteva forse avere la responsabilità indiretta della morte di un solo militare americano in Afghanistan. Nessun commentatore o giornale ufficiale ha poi fatto notare come sia assurdo che i russi abbiano potuto pensare che esistesse la necessità di incoraggiare i Talebani ad attaccare e uccidere membri delle forze di occupazione, quando da quasi vent’anni stanno già combattendo una guerra sanguinosa che ha fatto più di 2.300 vittime tra i militari americani.
Non c’è dubbio, d’altro canto, che Mosca segua con estrema attenzione le vicende afgane, com’è ovvio che sia per ragioni geografiche e strategiche. Anzi, l’approccio della Russia ai Talebani si è evoluto nel tempo fino a considerare gli “studenti del Corano” come una forza con cui confrontarsi nel futuro assetto dell’Afghanistan. I Talebani controllano peraltro già oggi più della metà del territorio del paese asiatico. L’attitudine russa è perciò del tutto comprensibile e legittima, ma questa realtà, rafforzata dai numerosi colloqui tenuti tra i rappresentanti talebani e del Cremlino, viene sfruttata dalla stampa americana per dimostrare l’esistenza di legami criminali che hanno l’obiettivo di colpire le forze armate USA.
Va ricordato, infine, che se anche la notizia riportata dal New York Times fosse vera, le accuse rivolte contro Mosca si riferirebbero a operazioni dalla rilevanza trascurabile se paragonate ai danni causati alla Russia dagli Stati Uniti. Per restare al solo Afghanistan, la guerra fomentata da Washington negli anni Ottanta contro l’occupazione sovietica, tramite la creazione, il finanziamento e la fornitura di armi ai guerriglieri mujaheddin, provocò, secondo alcune stime, circa 15 mila vittime tra i soldati russi. In molti altri teatri di guerra, poi, il denaro, le armi e le manovre dei militari e dei servizi segreti americani hanno provocato un numero imprecisato di vittime russe, come ad esempio in Cecenia o in Siria.
Nel complesso, l’intera vicenda dimostra ancora una volta l’intenzione di una parte della classe dirigente americana di voler fare della Russia il nemico numero uno di Washington, tramite la menzogna e la costante falsificazione della realtà. Il livello di disperazione e di ottusità che questa ossessione dimostra è stato riassunto perfettamente da un comunicato del ministero degli Esteri russo nel fine settimana: “Questo piano banale illustra chiaramente le scarse abilità intellettuali dei propagandisti dell’intelligence americana, i quali, non essendo in grado di ideare qualcosa di plausibile, sono costretti a inventarsi un’assurdità” come quella pubblicata venerdì scorso dal New York Times.