Una delle principali e più esplosive linee d’attacco degli Stati Uniti contro la Cina è la crescente messa in discussione dello status e delle relazioni consolidate negli ultimi quattro decenni con l’isola di Taiwan. Pur aderendo formalmente alla politica di “una sola Cina”, le ultime due amministrazioni americane e, in particolare, quella attuale hanno promosso una revisione di fatto delle posizioni USA, alimentando lo scontro attorno a un elemento cruciale per la sovranità di Pechino e, nel contempo, mettendo Taiwan e i suoi abitanti al centro di un eventuale rovinoso conflitto tra le due super-potenze.

 

Quelle che sono a tutti gli effetti deliberate provocazioni contro la Cina stanno seguendo soprattutto due direttive negli ultimi mesi. La prima riguarda la promozione e l’avanzamento di relazioni diplomatiche formali tra Washington e Taipei. Pechino, com’è noto, considera Taiwan come una sorta di provincia ribelle che prima o poi dovrà tornare a far parte della madrepatria e giudica perciò qualsiasi iniziativa che implichi il riconoscimento dell’indipendenza dell’isola una minaccia alla propria sovranità, a cui opposrsi di conseguenza anche con la forza militare.

La seconda è invece l’incremento costante delle forniture di armi verso l’isola che, inevitabilmente, genera un atteggiamento più aggressivo da parte cinese e una tendenza generale alla militarizzazione dell’area che include lo stretto di Taiwan. A questo proposito, la Reuters ha rivelato nei giorni scorsi come il dipartimento di Stato americano abbia recentemente notificato al Congresso di Washington tre pacchetti di fornitura di armi a Taiwan per ottenerne l’approvazione formale, come previsto dalla legge USA.

Il materiale in questione include sistemi di lancio mobili, missili a lungo raggio e sofisticati sensori per i velivoli da guerra F-16. In preparazione ci sarebbero poi almeno altre quattro tranches di forniture con equipaggiamenti ancora più sensibili, come droni di ultima generazione, missili anti-nave e mine subacquee, teoricamente utili a scoraggiare o a contrastare una possibile invasione dal mare del territorio taiwanese.

La notizia pubblicata dall’agenzia di stampa fa seguito a svariate dichiarazioni di esponenti dell’amministrazione Trump che, con ogni probabilità coordinandosi con le autorità di Taipei, hanno invitato il governo dell’isola a dotarsi in fretta di sistemi militari adeguati alla minaccia cinese. Il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente, Robert O’Brien, settimana scorsa aveva appunto sostenuto che Taiwan “deve investire nelle proprie capacità difensive”, indicando in particolare gli armamenti necessari a condurre una guerra contro un invasore proveniente dal mare. A suo dire, Taiwan dovrebbe aumentare sensibilmente le spese in questo ambito e non limitarsi ad affidare la propria difesa, come è stato fatto finora, a una quota di appena l’1,2% del PIL, contro un paese, come la Cina, “impegnato nel più formidabile processo di militarizzazione degli ultimi 70 anni”.

O’Brien nella stessa occasione aveva anche avvertito indirettamente la Cina a non tentare un’azione di questo genere. Il consigliere della Casa Bianca si era sbilanciato a ricordare a Pechino le difficoltà di un’operazione via mare, per poi lasciare nell’incertezza quanti si chiedevano quale sarebbe la risposta americana all’eventuale invasione cinese di Taiwan.

Le posizioni americane su Taiwan vanno interpretate alla luce delle priorità strategiche di Pechino che, anche per via dei precedenti storici, non intende in nessun modo consentire all’isola di diventare una base da cui gli Stati Uniti potrebbero condurre una guerra contro la Cina. Per questa ragione e per le implicazioni relative alla sovranità cinese, l’atteggiamento di Washington è a dir poco irresponsabile, visto che mette Taiwan in una posizione estremamente pericolosa, al solo fine di promuovere i propri interessi strategici e militari in Asia orientale.

Con l’illusione della copertura americana, il governo taiwanese del Partito Democratico Progressista, tradizionalmente su posizioni indipendentiste, sta così a sua volta intensificando le provocazioni e la retorica anti-cinese. Anzi, recentemente anche l’opposizione del Kuomintang (KMT), associato alla fazione della classe dirigente di Taiwan favorevole a relazioni più strette con la madrepatria, sembra avere sposato la linea dura contro la Cina. Infatti, proprio il KMT ha da poco presentato in parlamento due proposte di legge straordinarie che, se implementate, rischiano di fare esplodere il conflitto con Pechino.

Una di esse stabilisce che Taiwan richiederà “assistenza diplomatica, economica e militare” agli Stati Uniti se la Cina dovesse minacciare “la sicurezza e il sistema socio-economico” dell’isola. La seconda abbandona invece l’ambito delle ipotesi per sollecitare il governo della presidente, Tsai Ing-wen, a “promuovere attivamente il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti”.

Quest’ultima eventuale iniziativa costituirebbe il superamento di un limite inaccettabile per la Cina. La proposta è tanto più rischiosa se si considera che negli ultimi tempi si sono verificati svariati incontri diplomatici ad alto livello tra USA e Taiwan che quasi mai erano avvenuti dopo il riconoscimento ufficiale di Pechino come legittimo governo della Cina da parte dell’amministrazione Nixon negli anni Settanta del secolo scorso.

Il caso più recente è quello della visita a Taiwan del ministro della Sanità, Alex Azar, e del sottosegretario di Stato, Keith Krach, rispettivamente nel mese di agosto e di settembre. I due membri dell’amministrazione Trump sono stati gli esponenti di governo americano più alti in grado a recarsi sull’isola in veste ufficiale dal 1979, anno del riconoscimento formale da parte di Washington della politica di “una sola Cina”.

La stessa presidente Tsai in un discorso tenuto sabato scorso durante la commemorazione di un evento della prima rivoluzione cinese, che avrebbe portato alla creazione della Repubblica di Cina, lo stesso nome ufficiale dell’attuale Taiwan, ha gettato benzina sul fuoco del confronto con Pechino. In sostanza, la presidente ha affermato apertamente l’appoggio del suo governo alle iniziative e agli obiettivi degli Stati Uniti in Estremo Oriente, mentre allo stesso tempo ha parlato dei rapporti con la Cina in termini paritari, respingendo così implicitamente la politica di “una sola Cina”.

Significativo è stato anche il riferimento e la promessa di collaborare con gli sforzi dell’amministrazione Trump per sganciare le econome degli USA e dei loro alleati da quella cinese. Per la presidente di Taiwan “lo smantellamento e il riallineamento delle linee di approvvigionamento e distribuzione globali sono un fenomeno ormai irreversibile” e Taipei intende partecipare in pieno a questo processo.

Sull’onda dunque delle pressioni americane, il governo di Taiwan appare sempre più vicino al punto di rottura con la madrepatria. In serio pericolo è il cosiddetto “Consenso del 1992”, anno in cui Pechino e Taipei, dove allora governava il Kuomintang, si accordarono sul concetto di “una sola Cina”, riconoscendo in parallelo il loro disaccordo sul legittimo rappresentate della sovranità nazionale. Una eventuale violazione formale di questo accordo porterebbe con ogni probabilità a una guerra aperta con il possibile intervento degli Stati Uniti.

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