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La crisi politica che sta attraversando Israele da oltre un anno si è avvicinata sorprendentemente a una possibile soluzione martedì con l’emergere improvvisa dell’ipotesi di un governo di “unità nazionale” formato dai due principali partiti del paese. A sbloccare lo stallo è stata l’elezione a presidente del parlamento (“Knesset”) del leader dell’opposizione, Benny Gantz, con una mossa che ha di fatto rilanciato la posizione del primo ministro, Benjamin Netanyahu, e frantumato in maniera clamorosa l’alleanza di “centro-sinistra”, ovvero la coalizione “Blu e Bianca” guidata dallo stesso ex capo di Stato Maggiore israeliano.
Il voto del 2 marzo scorso aveva decretato un altro sostanziale pareggio tra il Likud di Netanyahu e il raggruppamento politico guidato da Gantz. Quest’ultimo era sembrato però a un certo punto essere vicino a mettere assieme i 61 seggi necessari a creare un nuovo governo, grazie a un accordo sia con il partito laico di estrema destra Yisrael Beiteinu dell’ex ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, sia con la “Lista Congiunta” arabo-israeliana.
La fragilissima intesa aveva spinto il presidente dello Stato ebraico, Reuven Rivlin, ad assegnare un mandato esplorativo a Gantz, ma la complicata ipotesi di governo non si è mai materializzata. Tre deputati della coalizione “Blu e Bianca” di Gantz si erano infatti subito dichiarati indisponibili ad appoggiare un esecutivo che avrebbe dovuto contare sui voti di parlamentari arabi. Più in generale, la tenuta di un gabinetto basato su uno spettro politico che avrebbe incluso la destra estrema di Lieberman e la sinistra araba appariva da subito pressoché impossibile da garantire.
Su uno scenario che minacciava di precipitare verso la quarta elezione anticipata consecutiva in poco più di un anno si è alla fine abbattuta la crisi del Coronavirus. Negli ultimi giorni, le vicende politiche in Israele sono diventate frenetiche. Tra le iniziative del governo Netanyahu di istituire un regime ultra-autoritario con la scusa di combattere il diffondersi dell’epidemia e le manovre apparentemente contraddittorie all’interno della Knesset, il risultato è stato un probabile governo formato dalle due formazioni rivali confrontatesi negli ultimi tre appuntamenti con le urne.
Nei giorni scorsi, l’ormai ex “speaker” dell’unica camera del parlamento di Israele, Yuli Edelstein, si era rifiutato di aprire la Knesset e tenere un voto sulla scelta del suo successore perché a suo dire ciò non era permesso dalle norme sanitarie implementate dal governo contro il Coronavirus. La Corte Costituzionale israeliana aveva allora ordinato l’apertura della Knesset e, per tutta risposta, Edelstein, tra i più fedeli alleati di Netanyahu, si era dimesso.
I media avevano raccontato di un Gantz intenzionato a riconvocare il parlamento per cercare di mandare in porto alcune misure che, grazie alla tenue maggioranza appena assemblata, avrebbero decretato la fine della carriera politica di un Netanyahu atteso da un umiliante processo per corruzione e abuso di potere. Al centro della campagna elettorale di Gantz c’era sempre stato d’altra parte l’obiettivo di mettere da parte Netanyahu e la promessa di non partecipare a un governo col Likud se non ci fosse stato un avvicendamento nella leadership di questo partito.
Giovedì, il parlamento è dunque tornato a riunirsi ma, a sorpresa, l’aula ha eletto Benny Gantz a presidente della Knesset, garantendo di riflesso a Netanyahu la permanenza nel proprio incarico. Dietro alla decisione di Gantz di prendersi la carica di “speaker” c’è un accordo con il Likud e lo stesso primo ministro per un governo di “unità nazionale” che, secondo i media israeliani, potrebbe contare su circa 78 dei 120 seggi totali.
Netanyahu resterebbe alla guida dell’esecutivo per i prossimi 18 mesi, al termine dei quali cederebbe la mano a Gantz. A conferma che l’elezione a presidente della Knesset di giovedì potrebbe essere una manovra tattica e provvisoria, Gantz viene indicato come prossimo ministro degli Esteri, mentre il suo alleato, Gabi Ashkenazi, dovrebbe assumere la carica di ministro della Difesa. La rotazione tra i due leader alla guida del governo è da tempo un elemento centrale della proposta di quanti auspicavano una soluzione negoziata tra le due principali forze politiche di Israele. Che Netanyahu mantenga il proprio impegno è però quanto meno dubbio, visto che la mossa di questa settimana ha in sostanza distrutto l’alleanza di Gantz.
L’ex capo di Stato Maggiore porterà in dote solo una quindicina di seggi, poiché alcuni dei partiti che fanno parte della coalizione “Blu e Bianca” hanno criticato fortemente la sua decisione e annunciato che lasceranno l’alleanza. Con un “alleato” così indebolito e un’opposizione spaccata, è altamente probabile che Netanyahu finirà per consolidare la propria posizione e, non è da escludere, potrà decidere nei prossimi mesi di indire un altro voto anticipato per liquidare Gantz e ricostruire una coalizione di estrema destra.
In molti hanno caratterizzato il comportamento di Benny Gantz come un vero e proprio tradimento del mandato elettorale, in base al quale avrebbe dovuto essere del tutto esclusa l’ipotesi di una collaborazione con Netanyahu. Il “centro-sinistra” israeliano ha poi commesso l’ennesimo suicidio, come conferma l’annuncio del Partito Laburista di voler partecipare al nuovo esecutivo, offrendo alla destra la certezza di restare anche per il prossimo futuro la principale forza politica del paese.
A sbloccare la situazione è stata ad ogni modo una telefonata tra Gantz e Netanyahu nella serata di mercoledì. Gantz si è accordato con il primo ministro nonostante la ferma contrarietà degli altri due leader di maggiore spicco della sua coalizione, l’ex ministro delle Finanze Yair Lapid, numero uno del partito Yesh Atid, e l’ex generale Moshe Ya’alon di Telem. Entrambi hanno infatti denunciato Gantz e confermato il loro addio alla coalizione “Blu e Bianca”, proponendosi come alternativa di opposizione al nascente esecutivo.
Gantz, da parte sua, ha giustificato la propria decisione con la nuova realtà emersa in seguito all’esplosione dell’epidemia di Coronavirus, la quale avrebbe costretto i leader politici israeliani a mettere da parte le divisioni. Così facendo, tuttavia, l’ex macellaio di Gaza ha distrutto l’unica alternativa realistica, almeno in questo momento, alla destra in Israele, legando oltretutto il proprio incerto futuro politico a quello di un Netanyahu passato in pochi giorni dalla disperazione ad essere sempre più il padrone del panorama politico dello Stato ebraico.
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- Scritto da Giorgio Trucchi
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Col passare dei giorni aumentano i Paesi e le popolazioni contagiate dalla pandemia di Covid-19. Ad eccezione di alcuni casi, i governi delle nazioni colpite hanno imposto misure drastiche per rallentare almeno la diffusione del coronavirus. Misure che spesso si scontrano con i diritti fondamentali dei cittadini. Proteggono le frontiere interne ed esterne, militarizzano città e territori, decretano stato d’emergenza e coprifuoco, cercando così di alleviare le debolezze e i fallimenti cronici di un sistema sanitario vittima sacrificale di un modello economico neoliberale privatizzatore, individualista e acaparratore.
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- Scritto da Mario Lombardo
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La prima reazione del governo americano di fronte all’esplosione della crisi del Coronavirus è stata quella di negare la gravità della situazione e di attribuirne la responsabilità interamente alla Cina. In seguito, davanti all’evidenza della diffusione inarrestabile del contagio, l’amministrazione Trump è corsa parzialmente ai ripari con una serie di provvedimenti in larga misura inefficaci per i cittadini ma virtualmente senza limiti per Wall Street. Il corollario di questo piano d’azione è ora l’assalto ai diritti democratici consolidati, attualmente in fase di studio sotto forma di proposta di legge presentata nei giorni scorsi dalla Casa Bianca al Congresso di Washington.
La testata on-line Politico.com ha citato documenti predisposti dall’amministrazione Trump nei quali è contenuto un piano di intervento in ambito legale e giudiziario che, con la scusa di adattare il sistema all’emergenza in atto, minaccia di cambiare profondamente il panorama democratico americano. Le implicazioni sarebbero devastanti soprattutto per le norme costituzionali del giusto processo, visto che quanto è previsto è tra l’altro la sospensione indefinita del cosiddetto “habeas corpus”, principio cruciale del diritto anglo-sassone che stabilisce il diritto di chiunque venga arrestato ad apparire davanti a un giudice per vedere convalidato o eventualmente annullato il provvedimento di privazione della libertà.
Nel concreto, la misura che il segretario alla Giustizia, William Barr, avrebbe chiesto al Congresso consiste nel garantire ai giudici federali la facoltà di congelare tutti i procedimenti giudiziari “pre e post-arresto, processuali, pre e post-processuali”, sia in ambito penale sia civile. In sostanza, tutte le protezioni garantite dalla Costituzione USA potrebbero essere sospese in caso di “disastri” su scala nazionale, ma anche di “disobbedienza civile” o di “altre situazioni di emergenza”. Il presidente Trump ha dichiarato l’emergenza nazionale a causa del Coronavirus il 13 marzo scorso.
Il presidente dell’Associazione degli avvocati penalisti americani, Norman Reimer, ha evidenziato i pericoli derivanti soprattutto dal riferimento alla fase “pre-arresto”. Infatti, se l’amministrazione Trump dovesse ottenere quanto richiesto, ci sarebbe la possibilità di “essere arrestati e mai portati davanti a un giudice fino a che le autorità non decidano che l’emergenza sia conclusa”.
Oltre alla detenzione preventiva indefinita, tra le altre richieste della Casa Bianca c’è lo stop alla scadenza dei termini di prescrizione nei procedimenti penali e civili per tutta la durata dell’emergenza e per i dodici mesi successivi alla fine di essa. Controversa è anche l’ipotesi di convocare udienze processuali in videoconferenza senza il consenso o la presenza dell’imputato.
Le associazioni americane a difesa dei diritti civili hanno messo in guardia dalla minaccia rappresentata dalle proposte di legge avanzate dall’amministrazione Trump. Queste ultime si aggiungono d’altra parte alla stretta già decisa o prospettata sugli ingressi dei migranti negli Stati Uniti. L’emergenza Coronavirus potrebbe insomma essere sfruttata per limitare in maniera ancora più drastica il diritto di asilo negli USA.
Il tentativo di demolire l’impalcatura democratica americana in periodi di crisi non è certo nuovo, dal momento che ha caratterizzato praticamente tutte le amministrazioni susseguitesi dopo i fatti dell’11 settembre 2001. Quanto sta cercando di fare Trump in questo frangente potrebbe essere però ancora più pericoloso, proprio perché andrebbe ad aggiungersi a una situazione già segnata dalla costante erosione dei diritti democratici negli ultimi due decenni.
L’articolo di Politico.com è stato raccolto da pochi altri giornali negli Stati Uniti e lo stesso popolare sito di informazione ha minimizzato i rischi del disegno di legge, poiché esso avrebbe poche o nessuna possibilità di essere approvato dalla Camera dei Rappresentanti a maggioranza democratica. La natura del Partito Democratico, da tempo il partito di riferimento dell’apparato della “sicurezza nazionale” USA, rende tuttavia illusorie simili speranze e del tutto reale il rischio sollevato dalla recente rivelazione.
Le manovre del governo per continuare a mantenere il controllo anche con metodi autoritari e anti-democratici, per non dire dittatoriali, di fronte al possibile aggravarsi della crisi sanitaria sono in ogni caso di ampio raggio e, prevedibilmente, includono un ruolo determinante per i militari. Newsweek ha a questo proposito pubblicato due articoli nell’ultima settimana che spiegano come i piani di emergenza siano pronti da tempo e, anzi, gli ordini già consegnati agli alti ufficiali americani.
Un piano segreto è stato ad esempio preparato per far fronte a uno scenario nel quale il presidente e coloro che costituzionalmente dovrebbero farne le veci venissero contagiati dal COVID-19 e impossibilitati a svolgere le loro funzioni. In questo caso, l’autorità passerebbe direttamente ai vertici delle Forze Armate, i quali sarebbero chiamati a mettere subito in atto “una qualche forma di legge marziale” nel paese.
Ancora una volta, le normali regole costituzionali verrebbero soppresse e i militari avrebbero il compito di imporre la “continuità governativa”, soffocando ogni segnale di rivolta e “disobbedienza civile”. In violazione della legge, il Pentagono potrebbe utilizzare i soldati sul suolo americano con compiti di polizia e mantenimento dell’ordine, anche se inizialmente l’incarico formale sarebbe quello di far rispettare quarantena e isolamento sociale per combattere la diffusione del virus.
Le voci di un’imminente entrata in vigore della legge marziale negli Stati Uniti continuano a inseguirsi. Migliaia di uomini della Guardia Nazionale risultano d’altra parte già mobilitati in svariati stati americani per collaborare alla lotta contro il Coronavirus. Alcuni politici hanno dovuto smentire pubblicamente l’ipotesi di legge marziale. Il governatore della California, il democratico Gavin Newsom, ha affermato che questa misura non è ancora necessaria, ma ha di fatto lasciato intendere che potrebbe essere valutata concretamente nel prossimo futuro. Ancora più rivelatorio è stato un tweet di settimana scorsa del senatore repubblicano della Florida, Marco Rubio. Il tono perentorio e seccato con cui ha cercato di mettere a tacere quelle che ha definite come “stupide voci” sulla legge marziale è sembrato essere proprio la conferma di come questa ipotesi sia discussa e valutata seriamente ai massimi livelli del governo di Washington.
In cima alle preoccupazioni degli ambienti di potere negli USA come altrove continua dunque a esserci quella della conservazione dell’ordine capitalistico, soprattutto di fronte alla prospettiva di una crisi economica pesantissima che si potrebbe innestare su un panorama già segnato da tensioni sociali esplosive.
Il trasformarsi di una crisi sanitaria in crisi sociale e, possibilmente, in rivolta è stato previsto da tempo ai vertici militari e del governo. Nel 2006 uno studio del dipartimento per la Sicurezza Interna dell’allora amministrazione Bush elencava infatti una serie di misure estreme da implementare, soprattutto grazie all’intervento delle Forze Armate, in caso di proteste popolari scatenate in tutto il paese a causa del diffondersi incontrollato di una qualche “pandemia”.
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- Scritto da Fabrizio Casari
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La brigata medica Henry Reeve, è una istituzione benemerita. Prende il nome da un cittadino newyorkese che difese l’indipendenza di Cuba. Il suo attuale comandante è il Dottor Carlos Perez e la definizione formale è quella di Contingente Internacional de Médicos Especializados en Situaciones de Desastres y Graves Epidemias. La sua specialità è quella di affrontare le emergenze, di arrivare dove nessuno arriva, di portare cure dove tutti fuggono, di vincere guerre che tutti ritengono che, visti i rischi da correre, è preferibile perdere. I suoi galloni, la Brigada Henry Reeve se li è conquistati sul campo - anzi sui diversi campi - in ogni dove dell’Africa e dell’America Latina. Quando si tratta di conquistare paesi e depredarli, infatti, ci sono gli statunitensi; quando si tratta di salvare vite in cambio di niente, ci sono i cubani.
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- Scritto da Michele Paris
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In un momento di gravissima emergenza sanitaria globale e in presenza di richieste di aiuto di paesi quasi allo stremo, questa settimana il governo degli Stati Uniti ha dimostrato ancora una volta il livello infimo di umanità che contraddistingue il suo comportamento. Mentre in molti tra politici, governi e semplici commentatori sui social media stanno chiedendo un allentamento delle sanzioni, la Casa Bianca ha infatti ostentato nuovamente il suo volto peggiore, non solo declinando ogni invito ad attenuare le pressioni sull’Iran, ma decidendo nel pieno della crisi in atto ulteriori misure punitive contro un paese costretto a far fronte agli effetti devastanti dell’epidemia di Coronavirus.
La Repubblica Islamica continua a essere ufficialmente il terzo paese con il maggior numero di decessi per COVID-19, anche se è forte il sospetto che il bilancio provvisorio di oltre 1.100 vittime e più di 17 mila contagiati sia ampiamente sottostimato. Il pericolo che l’impatto del virus assuma proporzioni indicibili è da collegare in primo luogo alla carenza di materiale sanitario, come mascherine protettive, kit per effettuare i testi di positività e ventilatori polmonari, dovuta alle sanzioni commerciali americane già in vigore.
La situazione è ancora più vergognosa se si considera che a livello ufficiale le forniture di medicinali ed equipaggiamenti medici dovrebbero essere garantite all’Iran per ragioni “umanitarie” e lo stesso governo USA ha affermato nei giorni scorsi che l’eccezione sarà confermata anche per l’emergenza COVID-19. In realtà, gli ostacoli alla vendita di questi beni è fortemente limitata e i dati parlano di un crollo delle importazioni di materiale medico a partire dalla reintroduzione delle sanzioni da parte dell’amministrazione Trump nel 2018.
Le nuove sanzioni le ha annunciate martedì il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ufficialmente in risposta agli ultimi attacchi lanciati contro una base militare USA in Iraq, attribuiti da Washington alle milizie sciite filo-iraniane di questo paese. Il dipartimento di Stato ha aggiunto nove “entità” alla lista nera, assieme a tre individui di nazionalità iraniana. L’accusa è la solita di essere coinvolti in “transazioni significative” di petrolio iraniano, prima e legittima fonte di entrate per la Repubblica Islamica.
Con l’altro pretesto sempre utilizzato per punire l’Iran, ovvero il fantomatico programma nucleare militare di Teheran, il governo americano ha colpito anche sei persone e 18 compagnie che sarebbero appunto responsabili di avere contribuito allo sviluppo di esso. Incredibilmente, Pompeo ha avuto anche il coraggio di chiedere un gesto umanitario alle autorità iraniane e di liberare i cittadini americani detenuti dalla Repubblica Islamica proprio mentre sbatteva la porta in faccia a un paese in piena emergenza e strozzato dalle sanzioni di Washington.
Non serve d’altronde uno sforzo di immaginazione per comprendere come la Casa Bianca intenda sfruttare la crisi sanitaria causata dal Coronavirus per fare ulteriori pressioni sulla leadership iraniana e, se dovessero presentarsi le condizioni, tentare una spallata. A dare voce a questi auspici è stato tra gli altri un anonimo esponente dell’amministrazione Trump in un’intervista alla CNN nella quale ha parlato dell’emergenza COVID-19 come di una “Chernobyl iraniana”, riferendosi all’evento che precedette e forse accelerò la dissoluzione dell’Unione Sovietica alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso.
Che gli interessi e gli obiettivi americani in questo momento continuino a essere di natura strategica è testimoniato anche dal collegamento dell’Iran alla Cina fatto nel discorso pubblico di martedì dal segretario di Stato. Pompeo ha usato strumentalmente la definizione di “virus di Wuhan” per poi accusare le autorità iraniane di essersi comportate come quelle cinesi, cioè di avere inizialmente mentito sulla portata dell’epidemia e di non essere state in grado di adottare i provvedimenti necessari a contrastarla. A ben vedere, tuttavia, queste stesse accuse appaiono decisamente più appropriate se rivolte alla gestione della crisi dell’amministrazione Trump.
Sempre gli Stati Uniti e la gestione con metodi mafiosi della loro politica estera potrebbero essere la causa della diffusione fuori controllo del Coronavirus in un’altro paese in difficoltà – il Venezuela – anch’esso nel mirino delle manovre da “cambio di regime” di Washington. A farsi carico direttamente della spietatezza americana è stato in questo caso il Fondo Monetario Internazionale (FMI), i cui vertici hanno respinto in maniera oggettivamente inspiegabile una richiesta di prestito avanzata da Caracas.
L’organo con sede a Washington e in larga misura controllato dagli Stati Uniti ha appena messo a disposizione, almeno in teoria, ingenti fondi a quei paesi che avranno bisogno di attingerne per affrontare l’emergenza COVID-19. In un comunicato della sua direttrice, Kristalina Georgieva, il Fondo si era espresso in termini compassionevoli, prospettando ai governi in difficoltà finanziarie prestiti “flessibili” e a interessi zero. Ciò che non è stato spiegato dal FMI è però che le richieste devono passare attraverso una specifica selezione. Se i paesi richiedenti non appaiono allineati a Washington rischiano di essere esclusi e, nonostante i problemi domestici già enormi, saranno costretti a contare solo sulle proprie forze per combattere il Coronavirus.
Infatti, la richiesta fatta dal Venezuela per ottenere un finanziamento di 5 miliardi di dollari è stata respinta perché, assurdamente, non ci sarebbe “chiarezza” su quale sia il governo legittimo del paese latinoamericano. L’ordine di rimandare al mittente l’istanza del governo Maduro è arrivato evidentemente da Washington e risulta insensato non solo da un punto di vista umanitario ma anche perché contraddice le posizioni ufficiali dello stesso Fondo Monetario Internazionale.
Malgrado gli Stati Uniti stiano cercando senza successo da oltre un anno di installare alla presidenza il fantoccio Juan Guaidó, quest’ultimo è riconosciuto solo da un certo numero di paesi che hanno ceduto alle pressioni di Washington, ma essi rappresentano una minoranza di quelli rappresentati alle Nazioni Unite. Ugualmente, all’interno del FMI, Guaidó non ha il sostegno della maggioranza dei paesi membri e il Fondo continua perciò a riconoscere in modo ufficiale come delegato del Venezuela il ministro delle Finanze del governo Maduro, Simon Alejandro Zerpa Delgado.
Il rifiuto della richiesta di Caracas non ha perciò senso, tanto più perché essa è arrivata sommariamente, senza nemmeno che il FMI e i suoi economisti abbiano avuto il tempo di valutarne la legittimità, come prevede la prassi consolidata di questa istituzione.
Le conseguenze della decisione del Fondo potranno avere effetti anche molto gravi sul Venezuela, alla luce soprattutto delle condizioni delle strutture sanitarie del paese, colpito come l’Iran da pesantissime sanzioni americane. La richiesta di Maduro era arrivata in seguito alla decisione di incrementare la produzione di dispositivi e medicinali utili a combattere l’epidemia nel paese. Per fare ciò, infatti, il Venezuela è costretto a importare alcune materie prime indispensabili e il denaro del FMI avrebbe dovuto servire a finanziare questa urgentissima necessità.