Una nuova conferma del carattere orwelliano della compagnia fondata da Jeff Bezos si è avuta nei giorni scorsi con l’ingresso nel consiglio di amministrazione di Amazon dell’ex numero uno della famigerata Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), Keith Alexander. La scelta dell’ex generale risponde ad alcune esigenze ben precise dell’evoluzione di Amazon, non da ultima quella della sorveglianza e del controllo quasi totale della propria forza lavoro.

Alexander è stato per quasi cinque anni – dall’agosto 2005 al maggio 2010 – il principale responsabile dei programmi di raccolta indiscriminata di informazioni sulle comunicazioni elettroniche degli utenti di praticamente tutto il mondo. Le operazioni da regime totalitario della NSA furono rivelate al mondo da Edward Snowden nel 2013 e, in un riconoscimento tardivo quanto sterile, proprio settimana scorsa la parte relativa al monitoraggio massivo dei cittadini americani è stata dichiarata illegale e anticostituzionale da un tribunale federale.

Le ultime rivelazioni sulla duplicità del presidente americano Trump nella gestione dell’emergenza Coronavirus hanno aperto un nuovo fronte di attacco per i democratici a meno di otto settimane dalle elezioni. Il comportamento indiscutibilmente criminale dell’inquilino della Casa Bianca non è però una sorpresa, così che le indiscrezioni che questa settimana hanno anticipato l’uscita dell’ultimo libro del noto giornalista, Bob Woodward, sembrano essere una testimonianza d’accusa più per quest’ultimo e i suoi contatti nel governo e nei media che per lo stesso presidente.

Woodward, noto in tutto il mondo per avere rivelato lo scandalo Watergate che nel 1974 costrinse alle dimissioni Richard Nixon, ha consegnato mercoledì alla stampa USA alcune registrazioni delle 18 interviste concessegli da Trump per il suo ultimo lavoro (“Rage”), in uscita la prossima settimana.

Le frasi più incriminanti per il presidente riguardano appunto le fasi iniziali dell’epidemia. Il 7 febbraio, ad esempio, Trump confidava all’anziano giornalista di avere appena discusso del virus col presidente cinese, Xi Jinping, dal quale aveva avuto conferma del fatto che il COVID-19 poteva avere un impatto “mortale”, molto peggio della “influenza più aggressiva” e con una possibile percentuale di mortalità del “5%”. Trump spiegava anche come il virus avesse un alto livello di contagiosità, “per via aerea”, mettendo in luce un approccio “scientifico” molto diverso da quello tenuto a livello pubblico.

Ancora prima, sul finire di gennaio, Trump era stato anche avvisato dal suo consigliere per la Sicurezza Nazionale, Robert O’Brien, del fatto che l’epidemia sarebbe stata “la più grave minaccia alla sicurezza nazionale della sua presidenza”. Agli americani, però, Trump continuava ad assicurare che la malattia esplosa in Cina e in arrivo anche negli USA non costituiva una minaccia maggiore di un comune raffreddore e che, con ogni probabilità, sarebbe svanita di lì a poco nel nulla senza particolari conseguenze.

Il negazionismo ostentato da Trump, nonostante le informazioni che la sua amministrazione aveva a disposizione, ha provocato una perdita di tempo di settimane che avrebbero potuto risultare determinanti nel frenare il contagio e salvare migliaia di vite. Per spiegare il suo comportamento, nell’intervista a Woodward del 19 marzo seguente, Trump ammetteva di avere minimizzato la pericolosità del virus e che lo avrebbe fatto ancora, in quanto non voleva “creare il panico” negli Stati Uniti.

L’unico panico che Trump intendeva evitare era in realtà quello che poteva scatenarsi a Wall Street. Dall’inizio del suo mandato, il riferimento praticamente esclusivo delle prestazioni dell’amministrazione repubblicana è rappresentato dagli indici di borsa. In fretta e furia, infatti, ancora a marzo la Casa Bianca e il Congresso prepararono un mega-pacchetto di sostegno all’economia da seimila miliardi di dollari, in gran parte destinato al mondo degli affari.

Per il resto, pur essendo perfettamente consapevole dei rischi, Trump si mise alla guida di una campagna inizialmente per tenere aperti tutti i settori dell’economia e, dopo un periodo di lockdown ottenuto solo a seguito delle proteste che si erano diffuse nel paese, per far tornare i lavoratori nelle fabbriche. Il ritorno forzato al lavoro e l’allentamento delle misure restrittive avrebbero poi determinato una nuova vertiginosa impennata di contagi e decessi.

Le rivelazioni di Woodward sono dunque una prova del fatto che Trump ha mentito deliberatamente sul Coronavirus e, così facendo, ha favorito l’esplodere del contagio in tutti gli Stati Uniti. Per contro, la testimonianza del veterano giornalista del Washington Post apre un ventaglio di responsabilità che non si fermano alla Casa Bianca.

Lo stesso Woodward ha preferito tacere sulla realtà che era emersa durante le sue interviste al presidente, probabilmente per non “bruciare” un’esclusiva che avrebbe potuto monetizzare rivelandola pubblicamente alla vigilia dell’uscita del suo libro, cioè questa settimana. Il suo silenzio lo rende evidentemente e in qualche modo complice del presidente e, infatti, sulla stampa americana è in corso un’accesa discussione attorno al fatto che il giornalista fosse tenuto o meno a rivelare agli americani la condotta di Trump e i rischi del virus.

C’è tuttavia dell’altro in questa vicenda. Woodward è un “insider” che può vantare agganci nell’apparato di potere USA come pochi altri nel mondo dei media ed è perciò probabile che non abbia deciso e agito da solo nella gestione del materiale esplosivo raccolto alla Casa Bianca. In altri termini, le informazioni che Woodward aveva in mano a febbraio e a marzo grazie alle dichiarazioni di Trump venivano sostanzialmente dall’intelligence americana e quindi, per definizione, erano a disposizione anche del Congresso e della stampa ufficiale.

Per quanto riguarda i politici, compresi quelli del Partito Democratico, è noto che ad almeno una parte di essi vengono consegnate regolarmente informazioni sensibili da parte dei servizi segreti. Una questione così importante come il probabile impatto di una pandemia doveva senza dubbio far parte precocemente dei briefing dell’intelligence ai leader del Congresso. A conferma di ciò c’è anche il fatto che alcuni deputati e senatori, anche democratici, già a fine gennaio decisero di vendere parecchie azioni dei loro portafogli in previsione di un possibile crollo dei mercati.

In merito alla stampa, è risaputo che giornali come New York Times e Washington Post ricevono puntualmente imbeccate dall’intelligence USA per pubblicare “esclusive” che servono a influenzare l’opinione pubblica o a colpire un determinato bersaglio politico. Visto anche che Bob Woodward era a conoscenza delle informazioni sul COVID-19, è di conseguenza probabile che almeno qualcuno all’interno dei media più importanti fosse a conoscenza della realtà.

La decisione di far passare la versione negazionista di Trump non è quindi solo da attribuire alla Casa Bianca, ma fu probabilmente una scelta collettiva della classe dirigente americana, d’altronde in sostanza concorde nel cercare di limitare l’impatto del virus sui grandi interessi economici e finanziari, anche se a costo di milioni di contagi e centinaia di migliaia di morti.

Il fatto che le rivelazioni su Trump ottenute da Woodward siano uscite solo ora dipende da due fattori. Il primo, già ricordato, è di natura editoriale, cioè l’imminente pubblicazione del libro del giornalista. Il secondo è tutto politico e, nelle intenzioni di quegli stessi ambienti che hanno taciuto sei mesi fa, la nuova offensiva contro la Casa Bianca serve a inasprire la battaglia elettorale in un momento in cui la candidatura di Joe Biden sembra vicina a esaurire la propria spinta, facendo intravedere lo spettro di un secondo mandato di Donald Trump.

Sul fatto che gli Stati Uniti e la loro politica estera rappresentino la forza più distruttiva del pianeta negli ultimi due decenni ci sono pochissimi dubbi. I numeri della devastazione esportata in decine di paesi sono tuttavia rimasti finora in larga misura sconosciuti o indefiniti, giocando sostanzialmente a favore dei difensori dell’imperialismo americano. Una scrupolosa ricerca condotta da un progetto di una università USA ha ora invece delineato in termini concreti lo sconvolgente bilancio – sia pure provvisorio e sottostimato – delle campagne belliche intraprese da Washington dopo l’11 settembre 2001. I risultati confermano come la promozione degli interessi a stelle a strisce abbia prodotto un livello di distruzione quasi senza precedenti nell’ultimo secolo.

Lo studio è firmato dalla Brown University e si concentra soprattutto sugli otto conflitti più violenti scatenati o a cui hanno partecipato gli Stati Uniti dal 2001: Afghanistan, Filippine, Iraq, Libia, Pakistan, Siria, Somalia e Yemen. Il dato indagato più a fondo dai ricercatori è quello del numero di profughi e richiedenti asilo che hanno creato queste guerre, la cui responsabilità è interamente o in grandissima parte da attribuire ai governi americani. Il totale stimato è di 8 milioni di persone costrette a fuggire all’estero e addirittura di 29 milioni di profughi interni.

Questo numero (37 milioni), già di per sé sconcertante, è come anticipato in precedenza da considerarsi di natura conservativa. Gli stessi autori della ricerca spiegano infatti che l’accuratezza dei calcoli su vittime e profughi nelle zone di guerra è tradizionalmente inadeguata. I numeri potrebbero perciò essere superiori anche di 1,5 o due volte quelli proposti.

Inoltre, lo studio considera, per quanto riguarda la Siria, il periodo successivo all’intervento diretto degli Stati Uniti nel 2014, ufficialmente per combattere lo Stato Islamico (ISIS). Se si includono al contrario anche gli anni dal 2011, cioè dall’inizio di un conflitto alimentato in primo luogo proprio da Washington tramite l’appoggio a gruppi armati islamici fondamentalisti, il totale dei rifugiati per tutte e otto le guerre dal 2001 a oggi potrebbe risultare in una cifra che va dai 48 ai 59 milioni.

Questo numero è paragonabile a quello relativo alla Seconda Guerra Mondiale, quando le persone costrette a lasciare i luoghi in cui vivevano sono valutate dagli storici tra i 30 e i 64 milioni. Comunque si considerino i dati, le guerre che nel nuovo secolo portano il marchio americano hanno già di gran lunga provocato maggiori sofferenze e danni materiali di alcuni dei conflitti più sanguinosi del 20esimo secolo, a molti dei quali gli USA presero parte. Nella Prima Guerra Mondiale, ad esempio, i profughi furono circa 10 milioni, nella guerra che segnò la separazione tra India e Pakistan 14 milioni, in Vietnam 13 milioni.

Per mettere in prospettiva questi numeri, la stima più prudente sui rifugiati – 37 milioni – corrisponde grosso modo all’intera popolazione del Canada. Le guerre USA sono poi responsabili del raddoppiamento del numero dei rifugiati avvenuto su scala globale tra il 2010 e il 2019 (da 41 a 79,5 milioni). Singolarmente, nessun dipartimento o agenzia governativa americana ha tenuto il conto dei danni provocati in questo ambito. I ricercatori hanno perciò dovuto appoggiarsi alle informazioni messe a disposizione da organizzazioni internazionali, come l’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR).

Quelle che dunque per la retorica di Washington sono state iniziative belliche necessarie alla promozione della democrazia, alla difesa della “sicurezza nazionale” o alla sconfitta del cancro del terrorismo, per le popolazioni coinvolte hanno significato “bombardamenti aerei, fuoco di artiglieria, irruzioni armate nelle proprie abitazioni, incursioni con droni, battaglie armate, stupri”. Ma anche “distruzione di case, interi quartieri, ospedali, scuole, posti di lavoro, fonti di cibo e acqua”, nonché fuga da “minacce di morte e pulizia etnica su larga scala”. Questi sono, in sostanza e in aggiunta a un numero altrettanto vertiginoso di morti, gli effetti delle operazioni belliche attuate dagli Stati Uniti per la difesa degli interessi strategici ed economici planetari della loro classe dirigente.

A questo bilancio va aggiunto anche quello derivante dalle attività di governi, eserciti, organizzazioni armate e milizie varie – da al-Qaeda ai Talebani fino all’ISIS – dei paesi coinvolti nei conflitti che, tuttavia, sono da considerare una conseguenza delle iniziative americane. Gli autori dello studio avvertono inoltre che gli stessi effetti sono stati causati in misura quantitativamente minore anche in un’altra ventina di paesi, dove gli Stati Uniti hanno operato e continuano a operare con militari sul campo, droni, programmi di addestramento, sorveglianza e vendita di armi, tra cui Kenya, Mali, Niger, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Tunisia e Uganda.

Gli effetti provocati dallo sradicamento forzato non sono soltanto di ordine psicologico ed economico sulle singole persone le cui vite si sono incrociate tragicamente con le mire dell’imperialismo USA. I danni sono evidentemente anche culturali, sociali e politici per i paesi e le comunità che hanno perso milioni di membri e per quelle che ospitano i profughi, spesso privi dei mezzi necessari ad assisterli e a evitare perciò l’esplodere di ulteriori tensioni e conflitti.

I paesi che hanno dovuto pagare il conto più salato in termini di profughi sono l’Iraq (9,2 milioni) e la Siria (7,1 milioni solo a partire dal 2014). Questi numeri corrispondono per entrambi a circa il 37% della loro popolazione. In termini percentuali è però la Somalia ad avere il bilancio più grave per quanto riguarda i rifugiati (46%). Per il paese del Corno d’Africa i dati si riferiscono al periodo che inizia nel 2002, quando gli USA hanno inaugurato l’appoggio militare al governo riconosciuto dalle Nazioni Unite in opposizione alla cosiddetta Unione delle Corti Islamiche. Dal 2006, poi, Washington ha intensificato gli sforzi in quest’area strategicamente cruciale del continente africano con la giustificazione di combattere i fondamentalisti di al-Shabaab.

Gli altri cinque conflitti più rovinosi del 21esimo secolo innescati dall’intervento americano o a cui gli Stati Uniti hanno partecipato hanno invece causato un numero di profughi nella misura seguente: 5,3 milioni in Afghanistan (26% della popolazione), 3,7 milioni in Pakistan (3%), 1,7 milioni nelle Filippine (2%), 4,4 milioni nello Yemen (24%), 1,2 milioni in Libia (19%). Di questo esercito di disperati, quasi due milioni hanno cercato rifugio in Europa e negli stessi Stati Uniti. Per quanti in Occidente continuano a interrogarsi sulle ragioni degli “sbarchi” senza riflettere sulle responsabilità dei loro governi, quasi sempre impegnati a fianco di Washington in queste guerre, la ricerca dell’università americana potrà forse offrire qualche spunto interessante.

Una parte importante dello studio, anche se meno documentata, riguarda le vittime delle avventure belliche a stelle e strisce. In questo caso, i numeri sono probabilmente ancora più imprecisi di quelli dei rifugiati. Ad ogni modo, anche così i dati sono altrettanto scioccanti. Le guerre in Afghanistan, Iraq, Siria, Pakistan e Yemen contano da sole fino a 786 mila morti a causa delle operazioni militari. Se si includono i decessi per i fattori derivanti dalla guerra, come malattie o malnutrizione, si superano facilmente i 4 milioni. Per gli stessi autori, stime credibili potrebbero aggirarsi in realtà sui 12 milioni di morti.

Pesantissimo è anche il bilancio per militari e “contractors” americani. In questo caso i morti potrebbero essere circa 15 mila, per non parlare del numero di veterani tornati in patria con mutilazioni o danni psicologici permanenti. I dati del governo USA risalenti al 2018 parlano di 1,7 milioni di soldati in congedo con una qualche disabilità causata dall’aver servito in uno dei tanti teatri di guerra del 21esimo secolo.

Il panorama che esce dalla ricerca della Brown University è quello causato da una potenza che da almeno due decenni sta provocando morte e distruzione in tutto il mondo in sostanza per rimediare militarmente al declino della propria posizione internazionale, minacciata dall’ascesa di altri paesi. Le campagne di questi anni sono un affare bipartisan a Washington che si manifesta, tra l’altro, in un appoggio senza esitazioni di tutta la classe politica a una macchina da guerra, così come ai colossi privati della produzione di armamenti, che si nutre di un bilancio che sfiora ormai gli 800 miliardi di dollari l’anno.

Complessivamente, ma anche in questo caso si tratta solo di una stima, il costo materiale di tutta la “guerra al terrore” condotta dall’autunno del 2001 ammonta alla cifra quasi inconcepibile di 6.400 miliardi di dollari. Per quanto il bilancio economico, di vittime e di distruzione appaia colossale, è tutt’altro che da escludere un’ulteriore escalation nel prossimo futuro.

Gli obiettivi strategici e militari americani da un paio d’anno non sono infatti più focalizzati sulla minaccia del “terrorismo”, bensì sulla “competizione tra grandi potenze”. In altre parole, le guerre combattute in questi anni contro organizzazioni con un potenziale relativamente limitato come al-Qaeda e ISIS lasceranno il posto o si affiancheranno a conflitti di più ampia portata con paesi dotati di eserciti formidabili e armi nucleari. Le conseguenze che ne deriveranno per popolazioni, economie e infrastrutture sono facilmente immaginabili.

Con le proteste contro il presidente Lukashenko che non accennano a fermarsi, in questo inizio di settimana ha tenuto banco in Bielorussia la misteriosa sparizione e le ricostruzioni conflittuali della sorte dell’ultima leader dell’opposizione – o presunta tale – rimasta in patria, Maria Kolesnikova. Se la tenuta del regime di Minsk continua a non essere messa in serio dubbio dalla maggioranza degli osservatori, nondimeno l’Occidente e i paesi dell’Europa orientale alleati di Washington e Bruxelles continuano a soffiare sul fuoco del malcontento, con l’obiettivo non tanto di appoggiare le aspirazioni democratiche della popolazione bielorussa, quanto di aggiungere un altro tassello alla strategia di accerchiamento della Russia di Putin.

Per quanto riguarda la Kolesnikova, il panico si era scatenato lunedì in Occidente dopo la diffusione della notizia del suo rapimento in centro a Minsk da parte di uomini mascherati che l’avrebbero spinta in un van di colore scuro. Assieme a lei c’erano altri due attivisti dell’opposizione, Anton Rodnenkov e Ivan Kravtsov. Fonti della polizia bielorussa, citate dall’agenzia di stampa russa Interfax, avevano invece assicurato che nessuno dei tre era in stato di fermo.

Per alcune ore, l’enigma circa lo status di questi ultimi è stato al centro dell’interesse della stampa internazionale e, soprattutto, ha dato la possibilità ai governi occidentali e anti-russi in genere di montare una nuova campagna contro la brutalità di Lukashenko. Il capo della diplomazia UE, Josep Borrell, e i ministri degli Esteri di Germania e Regno Unito hanno subito espresso preoccupazione per le condizioni della Kolesnikova e dei suoi due colleghi. Da Bruxelles sono poi arrivate minacce di sanzioni contro membri della cerchia di potere di Lukashenko, sia per il presunto rapimento sia per le violenze seguite alle proteste esplose dopo le discusse elezioni presidenziali del 9 agosto scorso.

Durissima è stata in particolare la presa di posizione del ministro degli Esteri lituano, Linas Linkevicius, il cui paese, assieme alla Polonia, coerentemente con la tradizionale feroce attitudine russofoba è in prima linea nella battaglia contro Lukashenko. Linkevicius ha definito i metodi a cui sarebbe stata sottoposta Maria Kolesnikova degni della NKVD, la polizia politica dell’Unione Sovietica di Stalin. Lo stesso diplomatico lituano ha affermato che simili episodi non sono ammissibili nell’Europa del 21esimo secolo.

Se forse non lo sono da questa parte dell’oceano, lo sono invece negli Stati Uniti, di cui la Lituania è uno strettissimo alleato. Nel corso delle proteste contro la brutalità della polizia americana degli ultimi mesi, infatti, nelle città USA sono stati documentati svariati rapimenti “extra-giudiziari” di manifestanti, immobilizzati da individui non identificati e caricati su veicoli privi di segni distintivi. I fermati in questo modo sono stati rilasciati dopo molte ore, senza che contro di loro sia mai stato emesso alcun provvedimento giudiziario ufficiale.

Ad ogni modo, martedì sono poi emerse versioni dei fatti contrastanti. I leader dell’opposizione Rodnenkov e Kravtsov sarebbero giunti in Ucraina. A confermarlo è stato il ministero degli Interni di questo paese, che ha precisato come il loro abbandono del territorio bielorusso non sia stata una scelta volontaria ma seguita a un provvedimento di espulsione deciso da Minsk.

Meno chiaro è il caso della Kolesnikova. Anch’essa avrebbe dovuto essere espulsa e spedita in Ucraina, ma le cose non sono andate come dovevano per Lukashenko. A questo proposito, sempre da Kiev è arrivato un dettaglio che ha infiammato gli account sui social network dei sostenitori occidentali dell’opposizione bielorussa. La Kolesnikova avrebbe cioè distrutto il suo passaporto, impedendo così agli agenti dei servizi di sicurezza bielorussi di farle oltrepassare il confine con la forza.

Diversa è stata la ricostruzione della TV di stato bielorussa. In questo caso, i tre oppositori di Lukashenko erano diretti volontariamente verso il confine con l’Ucraina prima dell’alba di martedì ma, una volta arrivati nei pressi di un check-point, la loro auto avrebbe accelerato per evitare una pattuglia di guardie di frontiera. Un qualche incidente sarebbe poi seguito e Maria Kolesnikova avrebbe abbandonato l’automobile, per poi essere fermata e messa agli arresti dagli agenti di confine.

La Kolesnikova rimarrebbe dunque in territorio bielorusso, mentre le altre principali leader auto-proclamate della rivolta si trovano ormai all’estero. Sviatlana Tsikhanouskaya, la faccia più nota in Occidente dell’opposizione e prima sfidante sconfitta da Lukashenko nelle presidenziali, ha trovato rifugio in Lituania, mentre Veronika Tsepkalo è in Polonia. Come queste ultime, che avevano preso il posto sulle schede elettorali dei mariti, anche la Kolesnikova aveva sostituito un candidato arrestato e a cui era stato impedito di correre per la presidenza, il banchiere Viktor Babariko.

A un mese dalle contestate elezioni, la mobilitazione popolare in Bielorussa era tornata a livelli importanti nella giornata di domenica con una manifestazione che, secondo alcuni gruppi dell’opposizione, ha potuto contare su oltre centomila persone nella sola Minsk. Le forze di sicurezza di Lukashenko erano nuovamente intervenute ricorrendo spesso a metodi brutali che, come all’inizio della protesta, sembrano essere una delle ragioni principali del perdurare delle dimostrazioni.

Gli arrestati nel fine settimana sono stati un centinaio e ancora una volta le preoccupazioni maggiori del regime sembrano riguardare gli scioperi e le manifestazioni nelle fabbriche del paese, molte delle quali controllate dallo stato. Se la mobilitazione dei lavoratori bielorussi appare più o meno sotto controllo, grazie ai sindacati ufficiali così come a licenziamenti e intimidazioni, ci sono segnali di un persistente quanto giustificato malcontento nei confronti di Lukashenko.

La situazione in questo senso non promette nulla di buono se si considera l’impatto delle proteste sull’economia del paese. I dati forniti lunedì dalla Banca Centrale bielorussa hanno mostrato ad esempio come l’ex repubblica sovietica abbia bruciato quasi un sesto delle sue riserve auree e di valuta estera nel solo mese di agosto per sostenere la propria moneta durante il caos di queste settimane.

I timori per una rivolta che possa sfuggire di mano non agitano solo Lukashenko, ma anche la stessa opposizione filo-occidentale, riunita nel cosiddetto Consiglio di Coordinamento. Questa è una delle ragioni che spinge i leader della protesta a tenere aperta la porta delle trattative con il regime. L’altro motivo è da collegare invece al vicolo cieco in cui si ritrovano, quanto meno al momento e soprattutto per via del sostegno assicurato da Mosca a Lukashenko. La Bielorussia è d’altronde un elemento fondamentale per il Cremlino nella strategia di respingimento dell’offensiva UE/NATO verso i confini russi.

Ciò non toglie che le manovre occidentali continueranno, nel tentativo di destabilizzare il paese facendo leva sulle frustrazioni della popolazione bielorussa e i metodi anti-democratici di Lukashenko, la cui permanenza al potere non è vista peraltro con particolare interesse nemmeno dalla Russia nel medio e lungo periodo.

Le preoccupazioni dell’Occidente e dei governi di Lituania, Polonia e Ucraina sono soprattutto per il possibile compiersi del progetto di “Stato Unitario” tra Russia e Bielorussia, sul tavolo da due decenni ma sempre osteggiato da Lukashenko prima della recente marcia indietro, resasi necessaria per incassare l’appoggio di Putin. Con questo piano di integrazione realizzato, il fronte anti-russo vedrebbe infatti spegnersi del tutto e anche per il futuro qualsiasi velleità di “rivoluzione colorata”, ovvero di penetrare in Bielorussia per strappare il paese all’orbita strategica di Mosca.

L’operazione che sta dietro al vero o presunto avvelenamento dell’oppositore del Cremlino, Alexei Navalny, sembra avere fatto nel fine settimana un passo importante verso quello che potrebbe essere il suo principale obiettivo. Questa sensazione si è avuta domenica, dopo che il governo tedesco, nonostante i moltissimi aspetti oscuri, per non dire assurdi, della vicenda, ha preso una posizione per certi versi clamorosa collegando per la prima volta il caso del “dissidente” russo alla costruzione del gasdotto Nord Stream 2.


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