Il fatto che il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, abbia incontrato di persona questa settimana alcuni degli alleati-chiave degli USA in Asia orientale, nonostante il Coronavirus e le recenti vicende politiche interne, la dice lunga sull’importanza del vertice andato in scena a Tokyo e delle sue implicazioni anti-cinesi. In Giappone, l’ex numero uno della CIA ha proposto il solito corollario di falsità e accuse contro Pechino, decisamente più appropriate al comportamento del suo paese, per cercare di accelerare sulla formazione di un’alleanza militare in piena regola con i partner raggruppati nel cosiddetto “Quad”.

La notizia della positività al COVID-19 del presidente Trump aveva costretto Pompeo a cancellare le visite in Mongolia e Corea del Sud, ma il segretario ha insistito per presenziare al vertice del “Dialogo Quadrilaterale sulla Sicurezza” nella giornata di martedì. Il capo della diplomazia americana ha incontrato i ministri degli Esteri di Giappone, Australia e India, rispettivamente Toshimitsu Motegi, Marise Payne e Subrahmanyam Jaishankar.

L’evento è servito a consolidare l’offensiva in atto per il contenimento della Cina guidata da Washington. La collaborazione tra i quattro paesi all’interno di questo formato era iniziata nel 2004, ufficialmente per coordinare gli sforzi umanitari seguiti al devastante tsunami che aveva colpito l’Asia sud-orientale. Dopo un periodo di sostanziale disinteresse, negli ultimi anni il meccanismo ha trovato nuova vita, fino a trasformarsi faticosamente in una partnership diplomatica e strategica in parallelo alla crescente aggressività americana nei confronti di Pechino.

L’obiettivo del segretario di Stato Pompeo nel meeting di Tokyo è stato in primo luogo quello di attaccare a tutto campo la Cina, in modo da creare un clima favorevole all’allineamento degli altri tre paesi partecipanti alla linea anti-cinese degli Stati Uniti. Il risultato, nel medio periodo, dovrebbe essere la trasformazione del “dialogo” in un’alleanza militare pronta a “contenere” la Cina o, più probabilmente, a scatenare una guerra contro Pechino.

Per Pompeo, la collaborazione con Australia, Giappone e India sarebbe diventata ormai fondamentale per proteggere i rispettivi popoli “dallo sfruttamento, dalla corruzione e dall’oppressione del Partito Comunista Cinese”. Nella dichiarazione ufficiale rilasciata dall’ufficio di Pompeo dopo l’incontro con i colleghi si legge inoltre che la discussione ha avuto al centro le “attività maligne della Cina nella regione” estremo-orientale.

Nelle sue affermazioni non poteva ovviamente mancare l’accusa alla Cina di avere gestito in modo disastroso il diffondersi dell’epidemia di Coronavirus, a suo dire tenuta nascosta troppo a lungo. La denuncia del segretario di Stato, già onnipresente nelle uscite di Trump sul COVID-19, arriva ironicamente a breve distanza dalle rivelazioni del veterano giornalista americano Bob Woodward che qualche settimana fa aveva spiegato come il presidente e i suoi collaboratori avevano tenute nascoste agli americani le informazioni sulla pericolosità del nuovo virus, perdendo tempo prezioso e aggravando pesantemente il bilancio di vittime negli Stati Uniti.

Pompeo ha poi elencato i punti caldi del continente asiatico, dove la Cina starebbe cercando di allungare i propri tentacoli con intenzioni minacciose. Dal Mar Cinese Meridionale e Orientale al Mekong, dall’Himalaya allo stretto di Taiwan, per il responsabile della diplomazia USA i cinesi puntano a scardinare un sistema di regole consolidato, a destabilizzare e gettare nel caos interi paesi e centinaia di milioni di persone. Quando Stati Uniti e alleati si riferiscono al “sistema di regole”, tuttavia, l’interpretazione corretta è il quadro strategico e gli equilibri militari che rispondono agli interessi di Washington.

Il moltiplicarsi dei fattori di crisi nella regione è collegato piuttosto al rimescolamento delle priorità strategiche degli Stati Uniti in funzione anti-cinese, di fatto un affare bipartisan a Washington e iniziato infatti ai tempi dell’amministrazione Obama. Con l’obiettivo di contenere la crescita della Cina e l’allargamento dell’influenza, soprattutto economica, di questo paese, gli USA hanno cioè alimentato rivalità latenti, come appunto quelle relative alle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale, per favorire un allineamento anti-cinese tra vecchi e nuovi alleati in Asia orientale.

Uno degli elementi più provocatori di questa strategia è il susseguirsi di operazioni di pattugliamento navale nelle acque rivendicate dalla Cina e nello stretto di Taiwan. Proprio attraverso il meccanismo del “Quad”, gli Stati Uniti cercano sempre più di coinvolgere in queste manovre gli altri partner, per lo più ancora prudenti nel prendere iniziative in grado di provocare l’ira di Pechino.

Pompeo, da parte sua, questa settimana a Tokyo ha chiarito che l’interesse di Washington non è quello di incontrare i partner asiatici per intrattenere un semplice dialogo. In cima alle priorità americane c’è piuttosto la creazione di una “vera struttura che si occupi di sicurezza” e, una volta “formalizzata”, che sia in grado di attrarre nuovi membri.

I ministri degli Esteri di Australia, Giappone e India sono stati nelle loro dichiarazioni solo un po’ meno espliciti del collega americano nel descrivere gli obiettivi del vertice di Tokyo. Il riferimento alla necessità di garantire uno spazio “Indo-Pacifico” caratterizzato dal libero mercato, dalla promozione dei diritti umani, dal contrasto alla disinformazione e all’autoritarismo è diretto evidentemente contro Pechino, anche se la Cina non è mai stata nominata in modo esplicito da nessuno dei tre partner degli Stati Uniti.

Questi paesi e, soprattutto, Australia e Giappone hanno profondi legami economici e commerciali con la Cina, così che il rafforzamento dell’architettura strategica e della “sicurezza” promossa da Washington rischia di metterli in una situazione delicata. Privatamente, è comunque certo che i rappresentanti dei tre governi abbiano rassicurato Pompeo circa la disponibilità a seguire la linea dettata dalla Casa Bianca. D’altra parte, una serie di esercitazioni militari altamente provocatorie nei confronti della Cina si sono tenute durante l’estate tra le forze navali americane e quelle degli altri membri del “Quad”.

I lavori in corso a guida americana per la creazione di una potenziale quadruplice alleanza anti-cinese fanno parte di un disegno molto più ampio che include, tra l’altro, la guerra commerciale lanciata da Trump, l’approfondimento dei rapporti con Taiwan, la guerra contro Huawei, le denunce della repressione contro la minoranza musulmana uigura e varie altre campagne di disinformazione.

Soprattutto la guerra tecnologica contro Pechino sta facendo segnare una forte accelerazione, a conferma dell’importanza di questo fattore nel tentativo disperato da parte americana di ostacolare la crescita cinese in questo ambito, identificato come l’elemento cruciale capace di minacciare il primato economico e militare degli Stati Uniti.

La battaglia condotta da Washington per la supremazia tecnologica, come ha raccontato un recente articolo della Nikkei Asian Review, ha ormai “raggiunto un nuovo livello”. La stessa testata ha rivelato che esponenti del governo di Washington stanno ad esempio esercitando pressioni dirette ed esplicite sui produttori di componenti cruciali come i semiconduttori per chiudere i propri impianti in territorio cinese e, più in generale, per tagliare tutti i rapporti con la Cina.

Le grandi aziende operanti in questo settore stanno perciò cercando di riorganizzare le loro operazioni e i canali di fornitura, potendo contare sempre meno su strategie industriali basate sul mantenimento delle relazioni con entrambe le potenze (Stati Uniti e Cina). Questo processo appare estremamente oneroso e rischioso, anche per le stesse compagnie USA, ma il governo di Washington è ormai disposto a pagare questo prezzo, nell’illusione di poter vincere una battaglia per la supremazia asiatica e globale che rischia sempre più di sfociare in un rovinoso conflitto armato.

I cancelli dell’ambasciata di Cuba in Italia sono stati teatro di una manifestazione della solidarietà italiana con l’isola socialista. La manifestazione, che si è svolta nella 53esima ricorrenza della caduta del Comandante Ernesto “Che” Guevara, ha contato anche con la presenza di cubani residenti in Italia ed ha avuto come obiettivo il festeggiamento per la candidatura al Nobel per la pace della brigata medica cubana Henry Reeve, che nel nord Italia come anche in altri paesi d’Europa, ha fornito un contributo straordinario nell’affrontare la fase più critica della battaglia contro il Covid-19.

Il riesplodere della guerra tra Armenia e Azerbaigian attorno allo status dell’enclave del Nagorno-Karabakh rappresenta un serissimo grattacapo per Mosca non solo per via della destabilizzazione che essa comporta in un’area cruciale per gli interessi strategici russi, com’è appunto quella caucasica. Il conflitto è osservato con crescente inquietudine dal Cremlino anche perché sembra sempre più inserirsi in un’offensiva multiforme, la cui regia va ricercata in primo luogo a Washington, che si sta manifestando in parallelo sui fronti di Bielorussia e Kirghizistan.

Sulle origini immediate del riesplodere delle ostilità a fine settembre in Caucaso c’è poca o nessuna chiarezza. Nella maggior parte dei casi, media e osservatori attribuiscono all’Azerbaigian l’inizio delle operazioni militari, con l’obiettivo di riportare sotto il proprio controllo il territorio del Nagorno-Karabakh, di fatto autonomo, anche se non riconosciuto da nessun paese, e auto-governato dalla maggioranza etnica armena. Questa interpretazione è supportata dal fatto che la Turchia sta appoggiando in maniera massiccia lo sforzo bellico di Baku. L’iniziativa turco-azera sarebbe dunque un ulteriore tentativo di promuovere le ambizioni “neo-ottomane” di Erdogan, soprattutto se in competizione con la Russia e l’Occidente.

La fine probabilmente prematura del periodo di ricovero in ospedale del presidente americano Trump e il suo teatrale ritorno alla Casa Bianca nonostante la positività al Coronavirus rappresentano in primo luogo una mossa elettorale per risollevare una campagna che, almeno secondo i sondaggi ufficiali, dovrebbe condurlo alla sconfitta per mano di Joe Biden il 3 novembre prossimo. Nel comportamento arrogante e irrispettoso della salute dei suoi collaboratori c’è però anche un messaggio politico chiarissimo che ha a che fare con la decisione, presa da tempo dalla classe dirigente americana e non solo, di rinunciare a un’efficace battaglia contro l’epidemia, così da evitare ulteriori contraccolpi per gli interessi del business privato.

La sceneggiata orchestrata lunedì per garantirsi la massima copertura mediatica durante i programmi televisivi della serata americana ha mostrato ancora una volta anche le inclinazioni autoritarie di Trump. La passeggiata dall’elicottero che lo ha scaricato nel giardino della Casa Bianca fino alla terrazza, dove si è tolto provocatoriamente la mascherina per infilarsela nella tasca, lo ha dimostrato a sufficienza ed è stata assieme un tentativo di ostentare forza e controllo in un frangente cruciale del suo mandato.

Allo stesso tempo, tutta la messa in scena è apparsa un chiaro segnale alla base di estrema destra del presidente, quasi a ribadire la necessità di mobilitarsi contro un sistema controllato dal “deep state”, di cui le misure restrittive contro il COVID-19 sono uno dei risvolti più odiosi e da combattere attraverso un secondo mandato dello stesso Trump.

Dietro alla vicenda vissuta in questi giorni dall’inquilino della Casa Bianca c’è piuttosto e in primo luogo una condotta che ha mescolato irresponsabilità, menzogne e riserbo ossessivo sulle reali condizioni di Trump. Un comportamento che è perfettamente coerente con il puntuale disinteresse per le più banali misure di sicurezza per evitare il contagio e che ha finito per mettere in serio pericolo decine se non centinaia di persone entrate in contatto, talvolta forzatamente, con il presidente repubblicano.

I medici che stanno seguendo Trump continuano ad esempio a non rivelare quale sia la data del suo ultimo tampone negativo. Dalla Casa Bianca è circolata la notizia che la positività al virus sarebbe stata riscontrata la prima volta giovedì scorso. Se così fosse, ma non è improbabile che ciò sia avvenuto anche prima, è del tutto possibile che Trump abbia avuto qualche sintomo sospetto o fosse già infetto al momento del primo dibattito presidenziale con Biden nella serata di martedì 29 settembre.

Il giorno successivo, in ogni caso, la consigliera Hope Hicks, che secondo la versione ufficiale avrebbe contagiato Trump, ha ricevuto la conferma della positività dopo avere viaggiato in aereo col presidente. Trump, tuttavia, ha proseguito la sua campagna elettorale, partecipando a un evento in New Jersey con circa 200 sostenitori, in grandissima parte privi di mascherina. La conferma della positività di Trump avrebbe così costretto le autorità sanitarie a una frenetica opera di tracciamento in quattro stati, dove migliaia di persone erano entrate potenzialmente in contatto col presidente e il suo staff.

La misura del comportamento al limite del criminale di Trump si è avuta poi nuovamente domenica sera, quando è salito su un SUV per un giro di saluto ai suoi sostenitori fuori dall’ospedale Walter Reed in cui era ricoverato. Sull’auto con i finestrini interamente chiusi, il presidente è stato accompagnato da due agenti del servizio segreto, esposti sconsideratamente a un altissimo rischio di contagio.

La delicatissima situazione politica in cui si trova Trump a poche settimane dal voto ha evidentemente influito sulle azioni di questi giorni. Se il disinteresse per qualsiasi persona diversa da egli stesso non è una novità, è comunque sconvolgente come Trump abbia deciso di tornare così in fretta alla Casa Bianca, dove il contagio rischia di esplodere ancora di più fino a toccare i membri dello staff e della sua famiglia ancora negativi, incluso il figlio più giovane di appena 14 anni.

Altro discorso meritano le informazioni, in buona parte confuse e contraddittorie, sullo stato di salute di Trump e sui farmaci che gli vengono somministrati. Apparentemente, le sue condizioni potrebbero sembrare tutt’altro che preoccupanti e farebbero pensare a effetti di lieve entità causati dal virus. In ospedale, però, il presidente ha ricevuto ossigeno ed è stato trattato con farmaci solitamente utilizzati per pazienti con forme gravi di COVID-19, tanto che, secondo alcune fonti mediche citate dalla stampa USA, il tasso di mortalità per i malati le cui condizioni hanno richiesto cure di questo genere sarebbe superiore al 20%.

Altri specialisti intervenuti sui media in questi giorni hanno fatto notare come per un paziente dell’età e nelle condizioni fisiche di Trump non siano da escludere complicazioni anche improvvise dopo svariati giorni dalla diagnosi e in presenza di un quadro apparentemente confortante. In questo scenario, una permanenza in ospedale di gran lunga superiore alle tre notti trascorse da Trump sarebbe fortemente consigliata. La Casa Bianca dispone in effetti di due unità mediche in grado di garantire interventi tempestivi, ma l’ipotetico precipitare delle condizioni di Trump comporterebbe rischi molto seri e richiederebbe un nuovo trasferimento in ospedale.

Come già anticipato, oltre ai calcoli elettorali, l’atteggiamento quasi di sfida di Trump nei momenti successivi alle dimissioni dal centro medico Walter Reed di Washington è dovuto anche a un altro fattore. Soprattutto nel messaggio video registrato alla Casa Bianca lunedì e diffuso come sempre via Twitter, Trump ha celebrato la sua presunta vittoria sul virus e invitato gli americani a “non consentire che [il COVID-19] prenda il sopravvento” nelle loro vite. Malgrado i 7,4 milioni di contagiati e i 209 mila morti, il presidente ha esortato a “non avere paura”, assicurando che l’America “sta ritornando” e, ancora più esplicitamente, “sta tornando al lavoro”.

In definitiva, Trump ha portato il suo esempio per chiedere agli americani, esclusi dai privilegi sanitari garantiti al presidente, di non lasciare che l’emergenza in corso fermi l’economia USA, mettendo a rischio i profitti di banche e corporation. L’invito a “tornare al lavoro” di Trump, come egli stesso ha fatto nonostante il contagio, è insomma una nuova affermazione delle politiche criminali di apertura indiscriminata e di minimizzazione del rischio, responsabili del disastro sanitario che stanno attraversando gli Stati Uniti.

Qualsiasi segno di debolezza e di arretramento alla vigilia del voto è dunque da evitare nel modo più assoluto da parte di Trump. Tanto più che i media americani continuano a snocciolare sondaggi che mostrano un possibile recupero su Biden ancora di là da venire. Gli equilibri in vista del 3 novembre potrebbero comunque ancora cambiare, soprattutto in presenza di un candidato democratico a dir poco scoraggiante, sia in funzione di possibili “sorprese” nelle prossime settimane sia tenendo in considerazione il valore quasi certamente sottostimato del consenso rilevato per Trump dagli istituti di ricerca, come già accaduto nel 2016.

A giudicare però dai numeri proposti dalle indagini di opinione, a livello nazionale e negli stati decisivi perennemente in bilico, il vantaggio di Biden resta relativamente solido. Uno dei sondaggi più recenti è quello pubblicato martedì dalla Reuters, concentratosi sui sei stati considerati cruciali per l’esito delle presidenziali. Biden è dato in vantaggio in Wisconsin (+6%), Michigan (+5%), Pennsylvania (+5%) e Arizona (+1%), mentre sostanzialmente in bilico risultano Florida e North Carolina, dove entrambi i candidati sono accreditati del 47% dei consensi.

Il ministero dell’Educazione del Regno Unito ha provocato accese polemiche nei giorni scorsi con la pubblicazione di nuove linee guida, decisamente inquietanti, destinate a definire i programmi di insegnamento delle scuole primarie e secondarie inglesi. Con un’iniziativa che riflette l’attitudine classista e anti-democratica del Partito Conservatore al governo, gli istituti interessati dalla decisione dovranno in pratica astenersi dall’insegnare qualsiasi nozione riconducibile a fonti anti-capitaliste.


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