Se esistesse ancora qualche dubbio su quali poteri negli Stati Uniti appoggino nonostante tutto l’amministrazione Trump, uno sguardo all’ultimo rapporto sul carico fiscale delle corporation americane, realizzato dall’Institute on Taxation and Economic Policy (ITEP), consentirebbe di fugarli istantaneamente. Lo studio è particolarmente interessante non solo per la conferma della natura deliberatamente classista anche del sistema fiscale USA, ma perché è il primo che fotografa la nuova realtà creata dalla “riforma” del fisco firmata dal presidente repubblicano nel 2017.

L’elemento più rilevante dell’indagine è che la stessa aliquota ridotta del 21%, riservata alle grandi aziende, rappresenta molto spesso un inganno. La tassa era stata tagliata dal precedente 35% grazie alla legge voluta dalla Casa Bianca (“Tax Cuts and Jobs Act”), ma, come dimostra lo studio ITEP, nel 2018 l’aliquota media effettiva gravante su 379 delle 500 aziende americane più ricche, citate nel famoso elenco di Forbes, è stata solo dell’11,3%.

Furiose proteste si stanno rapidamente espandendo in molte località dell’India contro una nuova legge gravemente discriminatoria approvata la scorsa settimana dal governo federale di estrema destra del primo ministro Narendra Modi. Il provvedimento introduce modifiche alla legge sulla “cittadinanza” e, assieme ad altre iniziative già adottate e in fase di studio sul censimento della popolazione, è diretto contro la minoranza di fede musulmana e prefigura la trasformazione dell’India da stato laico a nazione dai caratteri prettamente indù.

La “prima fase” dell’accordo raggiunto nei giorni scorsi tra gli Stati Uniti e la Cina sulle questioni commerciali è stata propagandata a Washington dall’amministrazione Trump come un vero e proprio trionfo politico ed economico. I dubbi sull’effettiva implementazione dell’intesa sono tuttavia molteplici e lo stesso governo di Pechino è apparso molto più cauto rispetto alla Casa Bianca.

Dopo più di due anni di trattative, i risultati per ora raggiunti consistono, da parte americana, nella sospensione e nella riduzione di alcuni dazi doganali imposti o minacciati da Trump. La Cina, invece, si impegna ad aumentare sensibilmente le importazioni dagli USA di prodotti di varia natura, in particolare nel settore agricolo, e a soddisfare altre richieste di Washington su questioni come l’apertura del proprio settore finanziario e il rispetto della proprietà intellettuale.

Al Summit di Londra i 29 paesi della Nato si sono impegnati a «garantire la sicurezza delle nostre comunicazioni, incluso il 5G». Perché questa tecnologia di quinta generazione della trasmissione mobile di dati è così importante per la Nato? Mentre le tecnologie precedenti erano finalizzate a realizzare smartphone sempre più avanzati, il 5G è concepito non solo per migliorare le loro prestazioni, ma principalmente per collegare sistemi digitali che hanno bisogno di enormi quantità di dati per funzionare in modo automatico.

Le più importanti applicazioni del 5G saranno realizzate non in campo civile ma in campo militare. Quali siano le possibilità offerte da questa nuova tecnologia lo spiega il rapporto Defense Applications of 5G Network Technology, pubblicato dal Defense Science Board, comitato federale che fornisce consulenza scientifica al Pentagono: «L’emergente tecnologia 5G, commercialmente disponibile, offre al Dipartimento della Difesa l’opportunità di usufruire a costi minori dei benefici di tale sistema per le proprie esigenze operative». In altre parole, la rete commerciale del 5G, realizzata da società private, sarà usata dalle forze armate statunitensi con una spesa molto più bassa di quella che sarebbe necessaria se la rete fosse realizzata unicamente a scopo militare.

Gli esperti militari prevedono che il 5G avrà un ruolo determinante nell’uso delle armi ipersoniche: missili, armati anche di testate nucleari, che viaggiano a velocità superiore a Mach 5 (5 volte la velocità del suono). Per guidarli su traiettorie variabili, cambiando rotta in una frazione di secondo per sfuggire ai missili intercettori, occorre raccogliere, elaborare e trasmettere enormi quantità di dati in tempi rapidissimi. Lo stesso è necessario per attivate le difese in caso di attacco con tali armi: non essendoci il tempo per prendere una decisione, l’unica possibilità è quella di affidarsi a sistemi automatici 5G. La nuova tecnologia avrà un ruolo chiave anche nella battle network (rete di battaglia). Essendo in grado di collegare contemporaneamente in un’area circoscritta milioni di apparecchiature ricetrasmittenti, essa permetterà ai reparti e ai singoli militari di trasmettere l’uno all’altro, praticamente in tempo reale, carte, foto e altre informazioni sull’operazione in corso.

Estremamente importante sarà il 5G anche per i servizi segreti e le forze speciali. Renderà possibili sistemi di controllo e spionaggio molto più efficaci di quelli attuali. Accrescerà la letalità dei droni-killer e dei robot da guerra, dando loro la capacità di individuare, seguire e colpire determinate persone in base al riconoscimento facciale e altre caratteristiche.

La rete 5G, essendo uno strumento di guerra ad alta tecnologia, diverrà automaticamente anche bersaglio di ciberattacchi e azioni belliche effettuate con armi di nuova generazione. Oltre che dagli Stati uniti, tale tecnologia viene sviluppata dalla Cina e altri paesi. Il contenzioso internazionale sul 5G non è quindi solo commerciale. Le implicazioni militari del 5G sono quasi del tutto ignorate poiché anche i critici di tale tecnologia, compresi diversi scienziati, concentrano la loro attenzione sugli effetti nocivi per la salute e l’ambiente a causa dell’esposizione a campi elettromagnetici a bassa frequenza. Impegno questo della massima importanza, che deve però essere unito a quello contro l’uso militare di tale tecnologia, finanziato indirettamente dai comuni utenti.

Una delle maggiori attrattive, che favorirà la diffusione degli smartphone 5G, sarà quella di poter partecipare, pagando un abbonamento, a war games di impressionante realismo in streaming con giocatori di tutto il mondo.

In tal modo, senza rendersene conto, i giocatori finanzieranno la preparazione della guerra, quella reale.

 

fonte: Voltairenet.org

La Brexit non è una manifestazione di nazionalismo britannico, ma inglese. Nasce da un delirio di grandezza post-imperiale, da una nostalgia del Kingdom che fu. Ma non unisce affatto i britannici. Al contrario, finirà probabilmente col dividerli, frantumando l’unità del Regno Unito. Da un’analisi più approfondita delle recenti elezioni parlamentari, infatti, emerge che il trionfo di Boris Johnson si è deciso nei fondamentali collegi dell’Inghilterra. In Scozia e in Irlanda del Nord è andata diversamente.

Il 45% degli scozzesi ha votato per il partito indipendentista e anti-Brexit Snp (Scottish National Party), che rispetto alle elezioni precedenti è cresciuto dell’8%, arrivando a 48 seggi su 59, 13 in più rispetto allo scorso parlamento. Nicola Sturgeon, prima ministra scozzese e numero uno dell’Snp, ha detto che con questo voto gli elettori hanno “rinnovato e rafforzato” il mandato al partito di chiedere un secondo referendum per l’indipendenza dal Regno Unito, dopo quello perso nel 2014. Detto, fatto: Ian Blackford, capo dei nazionalisti scozzesi a Westminster, presenterà domanda per la nuova consultazione entro questa settimana. 

In effetti, l’affermazione degli indipendentisti è ancora più significativa perché in Scozia i Conservatori hanno fatto campagna elettorale opponendosi esplicitamente al secondo voto sulla secessione. E hanno perso. “Non pretendo che ogni singola persona che ha votato l’Snp ieri sia necessariamente a favore dell’indipendenza – ha detto Sturgeon – ma gli scozzesi hanno chiesto di scegliere il proprio futuro, hanno detto di non volere un governo dei Conservatori, per il quale non hanno votato, e di non accettare che il proprio paese esca dall’Unione europea”.

Johnson ha già contatto la leader scozzese per dirle che non ha alcuna intenzione di concedere una nuova consultazione, ma Sturgeon gli ha risposto con fermezza: “Il referendum è un diritto del popolo scozzese e tu come leader di un partito sconfitto in Scozia non hai alcun diritto di metterti di traverso. Inghilterra e Scozia sono su sentieri elettorali divergenti”.

Non va meglio ai Conservatori in Irlanda del Nord, dove per la prima volta nella storia i partiti repubblicani – ossia quelli che vogliono l’annessione all’Irlanda – hanno superato gli unionisti fedeli a Sua Maestà. Il Democratic Unionist Party (Dup), alleato dei Tories nel Parlamento britannico, ha perso due seggi nell’assemblea nordirlandese, passando da 10 a 8, mentre Sinn Féin (dal gaelico “Noi stessi”, o meglio: “Noi soli”) ha mantenuto i 7 seggi ottenuti nel 2017, cui si sono aggiunti i due incassati dai Socialdemocratici.

Il Dup ha pagato l’appoggio a Johnson, il quale ha negoziato con l’Ue un accordo sulla Brexit che di fatto scarica l’Irlanda del Nord, relegandola in uno spazio economico e giuridico diverso da quello di Inghilterra, Scozia e Galles. Non è detto che tutto questo porterà fra qualche anno alla riunificazione dell’Irlanda, ma certo la prima sconfitta dei monarchici ha il sapore di una svolta. 

In sintesi, l’esito delle elezioni britanniche non solo non conferma, ma anzi dimostra quanto sia assurda questa idea di nazionalismo ecumenico spacciata in mezzo continente. La cultura dell’egoismo, della paura e dell’isolamento non riesce a tenere insieme nemmeno uno dei Paesi con la storia unitaria più antica al mondo. Figurarsi se potrebbe mai funzionare l’idea di un’Europa come federazione di nazionalismi che collaborano tra loro. È un ossimoro, perché il nazionalismo non unisce. Divide.


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