Nell’immediata vigilia del primo dibattito televisivo tra i due candidati alla Casa Bianca, lo “scoop” del New York Times sulle dichiarazioni dei redditi degli ultimi due decenni di Donald Trump avrebbe dovuto infliggere un colpo letale al presidente repubblicano. Le rivelazioni hanno in effetti esposto uno schema metodico per truffare il fisco da parte di Trump, ma le manovre per evitare in sostanza di pagare un solo dollaro di tasse sono pressoché interamente consentite, negli Stati Uniti come altrove, da una legislazione fatta su misura per super-ricchi e grandi aziende.

 

L’importanza dell’indagine del Times sembra essere più di natura politica che giornalistica. In ogni caso, il giornale “liberal” americano ha dato uno spazio amplissimo questa settimana alle prime due di una serie di esclusive basate su documenti fiscali che Trump e i suoi legali hanno fatto di tutto per tenere nascosti negli ultimi quattro anni.

Il materiale in questione era evidentemente nelle mani del Times da tempo, ma i suoi vertici avevano con ogni probabilità stabilito di diffonderlo solo in prossimità del voto di novembre. La scelta poi di introdurre un nuovo e potenzialmente esplosivo argomento di discussione appena prima del faccia a faccia tra Trump e Joe Biden in diretta TV è un tentativo chiarissimo di servire un assist al candidato democratico.

È del tutto possibile che i reporter del New York Times impegnati nell’analisi delle carte e i loro superiori siano rimasti delusi dalla scoperta delle pratiche fiscali di Trump. Ciò che cercavano erano operazioni illegali e, ancora di più, legami d’affari, profitti o debiti da ricondurre alla Russia. Così non è stato e, infatti, sepolta in uno dei 78 paragrafi del primo articolo pubblicato sulle dichiarazioni dei redditi di Trump è possibile individuare la frase con la quale viene ammesso come le carte analizzate “non rivelino connessioni [del presidente] precedentemente inedite con Mosca”.

Ciò non toglie che il ritratto delle relazioni col fisco USA di Trump uscito dagli articoli del Times sia tutt’altro che lusinghiero. Queste informazioni sono sempre state rese pubbliche da tutti i presidenti americani. Trump, al contrario, ha fatto resistenza fin dal primo giorno alla Casa Bianca ed è tuttora coinvolto a questo proposito in una causa legale con la procura della città di New York. Ugualmente, il presidente ha sempre respinto le richieste di informazioni sulla sua situazione fiscale presentate dalla Camera dei Rappresentanti di Washington a maggioranza democratica.

I documenti indicano che Trump non ha di fatto pagato tasse in dieci dei quindici anni precedenti la vittoria nelle presidenziali. Sia nel 2016 che nel 2017 ha pagato invece 750 dollari di tributi federali, pari a quanto versato in un anno da un cameriere a salario minimo. Il motivo di questo trattamento è la possibilità, offerta dalla legislazione fiscale americana, di detrarre per più anni le perdite dichiarate dalle aziende nei precedenti bilanci.

Sempre grazie a questa scappatoia legale e a un esercito di commercialisti, nel 2010 Trump aveva ricevuto addirittura un rimborso fiscale di quasi 73 milioni di dollari. La cifra ha finito per compensare quanto aveva corrisposto al governo federale tra il 2005 e il 2008, cioè alcuni degli anni più fruttuosi per Trump, in quel periodo all’apice della notorietà grazie al reality televisivo “The Apprentice”. Questo colossale risarcimento fiscale era stato reso possibile da una norma inserita nel pacchetto di salvataggio di Wall Street firmato da Obama nel 2009.

Il presidente americano ha inoltre detratto regolarmente moltissime spese che poco o nulla hanno a che fare con i suoi affari. Tra gli esempi citati dal Times spiccano i 75 mila dollari spesi in acconciature, le centinaia di migliaia versati alla figlia Ivanka per discutibili attività di “consulenza” e il mantenimento della residenza di famiglia a Seven Springs, nello stato di New York, dichiarata come “investimento” collegato al suo business.

Le attività di costruttore di Trump hanno dunque operato e continuano a operare in larga misura in perdita, con buona pace dell’immagine di imprenditore di successo coltivata dal presidente. Tanto che il Times ipotizza che la decisione di candidarsi alla Casa Bianca era dovuta anche alla necessità di ridare lustro al marchio Trump, in modo da monetizzare la sua popolarità in veste di “comandante in capo”. Nei due decenni precedenti la sua elezione, d’altra parte, il grosso dei profitti incassati da Trump era arrivato da attività legate allo sfruttamento della sua immagine, inclusi i programmi televisivi, mentre le perdite registrate negli affari di famiglia sono tornate utili per abbattere il carico fiscale.

A fronte di tutto ciò, il New York Times accenna solo superficialmente a un elemento che contraddice per alcuni versi e almeno in minima parte il quadro generale. Il giornale ammette a un certo punto che Trump ha in effetti pagato una certa quota di imposte per sette anni tra il 2000 e il 2017, pari a poco più di 24 milioni di dollari. Questa somma è stata versata in base alla cosiddetta “alternative minimum tax”, un’imposta che serve appunto a evitare che i contribuenti più facoltosi azzerino le loro tasse grazie a un accumulo di detrazioni.

È interessante poi sottolineare la reazione di alcuni esponenti di rilievo del Partito Democratico alla pubblicazione delle informazioni sul presidente. Mentre nessuno ha in pratica denunciato una legislazione fiscale modellata a favore dei redditi più alti, svariati leader democratici hanno attaccato Trump per la sua possibile vulnerabilità e ricattabilità di fronte a governi stranieri di paesi dove ha interessi legati ai suoi affari.

La presidente della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, ha definito le manovre fiscali di Trump una “questione di sicurezza nazionale”. Il riferimento sarebbe agli oltre 420 milioni di debiti accumulati dal presidente e che dovranno essere ripagati a partire dal prossimo anno. La numero uno democratica alla Camera è però tornata ad agitare lo spettro russo, sollevando dubbi sulla possibile esposizione “politica, personale e finanziaria” nei confronti di Putin, nonostante lo stesso New York Times abbia confermato di non avere trovato traccia di legami in questo ambito con Mosca.

In definitiva, l’esclusiva del più influente giornale americano potrebbe tutt’al più servire solo marginalmente a penalizzare Trump dal punto di vista elettorale. Delle tasse non pagate dal presidente si continuerà comunque a discutere da qui al 3 novembre, mentre sotto silenzio passerà il risvolto più clamoroso dello “scoop” del Times, cioè che il comportamento di Trump non rappresenta un’eccezione, bensì la regola, in un sistema creato con uno spirito rigorosamente bipartisan per alleggerire nella più o meno completa legalità il carico fiscale degli americani più ricchi.

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