Managua. Quando si parla di Nicaragua spesso ciò che appare va interpretato. In questo caso il 45 compleanno non è solo una data, perché questi 45 anni sono la durata intera dell’epopea del Sandinismo. Il suo battesimo ebbe luogo il 19 Luglio del 1979, quando sui tetti e davanti dell’antica cattedrale (e non al suo interno) si celebrò il rito purificatore di un Paese che, con una dittatura criminale ormai fuggita e i guerriglieri che si facevano governo, si lasciava alle spalle l’era più buia, si liberava dei suoi stracci e indossava il vestito della festa.

Il potente senatore democratico del New Jersey, Robert Menendez, è stato giudicato colpevole martedì in un clamoroso processo che lo vedeva alla sbarra per corruzione e altri gravissimi reati collegati al suo incarico di (ex) presidente della commissione Esteri della camera alta del Congresso degli Stati Uniti. Di origine cubana e tra i “falchi” più convinti sui temi di politica estera nel suo partito, Menendez aveva in sostanza offerto i propri servizi a ricchi imprenditori e governi stranieri in cambio di denaro e svariati altri “benefit”. Per lui, la sentenza che stabilirà la pena arriverà nel corso di un’udienza fissata per la fine di ottobre, a pochi giorni dalle elezioni a cui sembra intenzionato a candidarsi da indipendente dopo essere stato scaricato dai vertici del Partito Democratico.

Per i più ottimisti, la scelta da parte di Trump del senatore dell’Ohio, J. D. (James David) Vance, come candidato alla vice-presidenza rappresenta una rottura con l’ortodossia repubblicana sulle questioni che riguardano il ruolo internazionale degli Stati Uniti e, in misura minore, l’economia e la finanza. L’interesse maggiore in queste ore per il 39enne ex militare e “venture capitalist” è collegato proprio alle sue posizioni in politica estera, soprattutto per l’atteggiamento decisamente critico nei confronti della gestione della guerra russo-ucraina. Sul Medio Oriente, invece, Vance ha un curriculum più convenzionale, essendo da sempre un fermo sostenitore del regime sionista. La decisione di Trump potrebbe in ogni caso indicare un certo rimescolamento delle priorità strategiche di Washington, nella migliore delle ipotesi riducendo il rischio di una guerra tra grandi potenze che sta accompagnando la fase finale del mandato di Joe Biden.

Il tentato assassinio di Donald Trump sabato scorso in Pennsylvania sarà inevitabilmente al centro del dibattito nella convention del Partito Repubblicano che si è aperta lunedì a Milwaukee, nello stato del Wisconsin. Praticamente tutti gli interrogativi più importanti sui fatti del fine settimana restano per il momento senza risposta e, vista l’intensità dello scontro politico interno negli Stati Uniti e le tensioni sociali esplosive che attraversano il paese, nessuno scenario sembra potere essere escluso. Le mancanze del servizio di sicurezza, affidato in primo luogo al Servizio Segreto, ma anche alla polizia locale e alle guardie del corpo personali dell’ex presidente, sono talmente evidenti da far pensare a un possibile complotto per l’eliminazione fisica di quest’ultimo. Qualunque sia la verità dei fatti, Trump appare ora ancora più favorito nelle elezioni di novembre, mentre il fallito attentato aggiunge un ulteriore fattore di difficoltà per un Joe Biden sempre più avviato verso l’addio alla corsa per la Casa Bianca.

Il vertice NATO di questa settimana a Washington ha fatto registrare i soliti proclami altisonanti e la retorica ambiziosa dei vari leader presenti, in contrasto con le condizioni di avanzata crisi dell’alleanza, sia per il complicarsi in maniera critica della guerra in Ucraina sia per i crescenti problemi politici interni in svariati paesi membri. Soprattutto la stampa americana si sta concentrando sulla “performance” di un presidente Biden a un passo dall’essere messo da parte come candidato democratico alle elezioni di novembre, mentre la preoccupazione principale dei partecipanti al summit è di proiettare sicurezza e unità d’intenti nel sostegno a oltranza all’agonizzante regime di Zelensky.


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