L’assedio genocida di Israele contro la popolazione palestinese nella striscia di Gaza ha dato un altro colpo fatale alla credibilità degli Stati Uniti e dei loro alleati come baluardo di democrazia, pace e stabilità per l’intero pianeta. A Washington continua tuttavia a dominare l’illusione della superiorità morale dell’Occidente e della popolarità dei suoi “valori” di fronte alla presunta minaccia di una sorta di reincarnazione dell’“asse del male”, contro cui sarebbe in corso una guerra dall’importanza vitale sui fronti ucraino e mediorientale. Questa dottrina che ribadisce la supremazia incontrastata degli USA è stata rilanciata in un editoriale di Joe Biden apparso nei giorni scorsi sul Washington Post, anche se il risultato è apparso piuttosto una conferma del declino irreversibile di una potenza che non ha più nulla da offrire se non guerra e distruzione – oltre a ipocrisia e “doppi standard” – di fronte alla decomposizione del sistema di governance internazionale che ha segnato gli ultimi sette decenni.

Il voto in Argentina sconcerta e preoccupa. Non tanto e non solo per il destino che attende il paese gaucho finito nelle mani di un personaggio che non passerebbe nessuna selezione improntata sul Q.I., quanto per la capacità di attrazione delle sue follie su un Paese che, benché preso nella rete del peronismo agonizzante, seppur orfano della memoria dei suoi anni peggiori, quelli vissuti col terrore nelle vene ed il sangue nelle strade, è dotato di sufficiente cultura e storia politica da saper distinguere un originale da un pazzo, un social-confuso da un fascista, per giunta immerso in un delirio mistico che in Europa sarebbe affrontato con un TSO.

L’Argentina conferma che quando il sistema imperiale a trazione anglosassone avverte rischi di smottamento, è pronto ad ogni risorsa pur di mantenere il comando. Ovviamente, Massa non avrebbe rappresentato un problema per l’establishment finanziario e militare del Paese, ma per gli Stati Uniti ciò non era sufficiente, perché la vittoria del peronista avrebbe confermato l’adesione ai BRICS, autentico incubo per gli USA. La candidatura di Milei è stata allora costruita e sostenuta dal sistema di potere argentino e statunitense. Dopo il Brasile, il prossimo ingresso della Bolivia, del Venezuela e del Nicaragua, i segnali di agitazione che arrivano dalla Colombia, la conferma dell’Argentina nel blocco alternativo all’impero unipolare avrebbe determinato una definitiva inclinazione per la Regione e per il Centroamerica, dove sempre più paesi svolgono consultazioni formali e informali allo scopo di verificare le condizioni di accesso ai BRICS. Facile immaginare le conseguenze, con l'ovvia riduzione progressiva dell’ingerenza USA sul resto del continente. Scansato il rischio in Ecuador, la partita decisiva era a Buenos Aires e gli addetti alla reazione non si sono fatti trovare impreparati.

Il tira e molla di Erdogan sulla ratifica dell’adesione della Svezia alla NATO potrebbe essere arrivato al capolinea con il voto, previsto probabilmente per la giornata di giovedì, della commissione Esteri del parlamento di Ankara sulla candidatura di Stoccolma. L’iter legislativo per l’approvazione era stato avviato il mese scorso dal presidente turco, ma i dubbi erano tornati a emergere in seguito al complicarsi del quadro internazionale. Anche se Erdogan ha assunto una posizione ufficialmente molto netta contro Israele, e di conseguenza gli Stati Uniti, in merito alla strage in corso a Gaza, gli interessi strategici e militari della Turchia dovrebbero come previsto prevalere. Resta da verificare quale contropartita riceverà Erdogan dal definitivo via libera all’ingresso della Svezia nel Patto Atlantico.

A meno di un anno dalle elezioni americane, il candidato con le maggiori probabilità di entrare alla Casa Bianca nel gennaio 2025 continua a essere l’ex presidente repubblicano, Donald Trump. Nelle recenti uscite pubbliche, quest’ultimo è tornato a spingere sulla retorica anti-comunista e a ostentare inclinazioni ultra-autoritarie, con più di un riferimento diretto ai topoi hitleriani. Il pericolo dello scivolamento nel fascismo degli Stati Uniti non è una questione di questi mesi, come hanno dimostrato, tra l’altro, i precedenti della stessa presidenza Trump. Tuttavia, i preparativi per l’instaurazione di una dittatura più o meno “soft” da parte dell’ex presidente sembrano avvenire alla luce del sole e nel silenzio quasi assoluto della stampa ufficiale e, soprattutto, dei principali responsabili dell’apparizione e del ritorno prepotente del “fenomeno Trump”, ovvero l’amministrazione Biden e il Partito Democratico americano.

Nel fine settimana in New Hampshire, Trump è stato protagonista di uno dei discorsi più aggressivi degli ultimi tempi, nel quale ha minacciato esplicitamente l’arresto o l’eliminazione fisica dei suoi rivali politici. Verso la fine del suo intervento ha pronunciato l’affondo più preoccupante con la promessa di “sradicare i comunisti, i marxisti, i fascisti e i teppisti radicali di sinistra che vivono come parassiti dentro i confini del nostro paese” e che rubano le elezioni. Secondo Trump, coloro che rientrano nella sua descrizione farebbero di tutto, “legalmente o illegalmente, per distruggere l’America e… il Sogno Americano”.

Il vertice appena iniziato a San Francisco dei paesi della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) sarà monopolizzato, per lo meno a livello mediatico, dal faccia a faccia previsto per mercoledì  tra il presidente americano Biden e il suo omologo cinese, Xi Jinping. L’incontro avverrà nel pieno della crisi in Medio Oriente e del peggioramento delle prospettive della “guerra per procura” americana in Ucraina. Due eventi che, assieme alle conseguenti ripercussioni economiche, stanno contribuendo ad accelerare il ridimensionamento della posizione internazionale degli Stati Uniti, a vantaggio principalmente proprio della Cina. Alla luce di queste dinamiche, sono in molti ad aspettarsi un relativo ammorbidimento delle posizioni di Washington nei confronti di Pechino, anche se dal summit APEC con ogni probabilità non arriveranno indicazioni di un cambiamento significativo nella traiettoria delle relazioni bilaterali sul medio e lungo periodo.


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