Titubanze, timori per le reazioni di Mosca, pragmatiche valutazioni militari e qualche mistero che sarebbe importante chiarire. Questi gli ingredienti del dibattito infinito sull’autorizzazione chiesta dall’Ucraina ai principali alleati occidentali all’impiego dei missili da loro forniti contro obiettivi in territorio russo.

Molti media anglo-americani hanno dato nei giorni scorsi per imminente il via libera di Londra e Washington all’impiego dei missili Storm Shadows e ATACMS, nonostante la scorsa settimana sia il segretario alla Difesa Lloyd Austin, sia il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale John Kirby avessero chiaramente illustrato la sostanziale inutilità militare di un simile provvedimento.

Kirby aveva ammesso il 4 settembre che “ad oggi non c’è alcun cambiamento della nostra posizione sull’uso delle capacità a lungo raggio che forniamo a Kiev”. Kirby sveva precisato che la Russia ha spostato il 90% dei suoi aerei utilizzati per attaccare l’Ucraina fuori dal raggio di 300 chilometri dal confine ucraino raggiungibile dai missili ATACMS.

La guerra scatenata da Israele il 7 ottobre scorso ha registrato in questi mesi il susseguirsi di cambiamenti degli equilibri nei rapporti tra paesi e blocchi rivali in Medio Oriente, quasi sempre, almeno in prospettiva, a sfavore dello stato ebraico. L’ultima di queste dinamiche è l’operazione portata a termine nel fine settimana dal governo di fatto dello Yemen, guidato dal movimento Ansarallah (“Houthis”), in grado molto probabilmente di colpire Tel Aviv con un’arma di cui né Israele né gli Stati Uniti al momento posseggono.

Sulla notizia restano le interpretazioni contrastanti delle autorità di Yemen e Israele. Il regime di Netanyahu ha smentito che a cadere nei pressi dell’aeroporto Ben Gurion nelle prime ore di domenica sia stato un missile ipersonico. Il portavoce delle forze armate yemenite, invece, ha fornito dettagli per supportare la tesi dell’attacco precisamente con un ordigno di questo genere. Il missile avrebbe coperto più di duemila chilometri in appena 11 minuti e mezzo. Una volta rilevata la minaccia, l’allarme aereo israeliano sarebbe scattato su un’area piuttosto ampia, ma i dispositivi contraerei dello stato ebraico non sono stati in grado di intercettare il missile.

Se le motivazioni alla base del primo attentato alla vita di Donald Trump lo scorso mese di luglio restano in larga misura avvolte nel mistero, molto più chiare sembrano essere quelle collegate alla sparatoria e all’arresto del 58enne Ryan Wesley Routh all’esterno del Golf Club di proprietà dell’ex presidente in Florida. La notizia era circolata nel pomeriggio americano di domenica ed è subito stata sfruttata politicamente da un Trump uscito relativamente in difficoltà dal recente dibattito presidenziale con Kamala Harris. Mentre il candidato repubblicano, a differenza del primo episodio in Pennsylvania, non ha riportato traumi né ferite, i fatti del fine settimana sollevano interrogativi molto preoccupanti sul clima ultra-tossico creato dalla guerra in Ucraina. Soprattutto perché, con l’avvicinarsi dell’epilogo del conflitto, le forze di estrema destra coltivate dall’Occidente in funzione anti-russa potrebbero attivarsi nuovamente contro chiunque intenda perseguire una qualsiasi soluzione diplomatica.

Pubblichiamo la seconda ed ultima parte dell’intervista a Samuel Ramirez, Coordinatore del Movir, l’organizzazione che difende le vittime della repressione del regime. Ci concentriamo sulla situazione economico-sociale del Paese, che sembra essere l’altra faccia della medaglia della repressione. Poniamo dunque un’ultima domanda proprio sul contesto generale dell’economia salvadoregna.

Con l’intensificarsi della violenza israeliana a Gaza e in Cisgiordania, i governi dei paesi arabi e musulmani in genere si sono visti costretti a denunciare pubblicamente, spesso in maniera molto decisa, la strage di palestinesi per mano del regime sionista. Dietro le apparenze, però, molti di questi paesi non solo non hanno fatto finora nulla per cercare di fermare il genocidio in corso, ma stanno addirittura favorendo le operazioni militari dello stato ebraico. È infatti grazie alla loro collaborazione che i traffici commerciali da e per Israele proseguono quasi indisturbati nonostante la guerra e il blocco del Mar Rosso da parte del governo di Ansarallah (“Houthis”) in Yemen, di fatto l’unico paese arabo ad appoggiare concretamente la resistenza e il popolo palestinese.


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