In Venezuela stiamo assistendo al ritorno delle “guarimbas”, con la violenza, gli omicidi e la distruzione che le accompagnano. Non manca il classico accompagnamento mediatico, con il mainstream occidentale che ne canta le lodi nel tentativo di trasformare il terrorismo in pacifismo e il fascismo in una corrente di democrazia un po' vivace. Quello che sta accadendo in Venezuela però, nonostante i morti e i vandalismi golpisti, non porta con sé il consenso dei settori popolari, né tanto meno dei militari e delle agenzie di sicurezza. È un tentativo di golpe suave, attuato come da istruzioni di Washington, non ha nulla a che vedere con una protesta contro la lentezza delle elezioni.

Il ritardo nella trasmissione dei dati restanti (una parte minore) si deve all’attacco informatico (un DOS- Denial Of Service) lanciato dalla Macedonia del Nord con il preciso intento di bloccare il funzionamento delle trasmissioni di dati al CNE. Questo ha portato a un ritardo nel conteggio totale dei voti, consentendo ai complottisti di accusare il governo di frode. Blinken lancia la crociata, ma dimentica che negli Stati Uniti è successo molto di più e molto di peggio nella vittoria di Biden contro Trump.

Il grado di criminalità raggiunto dal regime genocida di Netanyahu nella notte di martedì con l’uccisione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, riflette il livello di disperazione raggiunto dallo stato ebraico dopo quasi dieci mesi di guerra a Gaza senza avere raggiunto un solo obiettivo strategico. Oltre a ribadire che Israele agisce di fatto come un’entità terroristica, l’assassinio mirato del capo dell’ufficio politico del movimento di liberazione palestinese conferma senza alcun dubbio almeno due delle intenzioni del primo ministro/criminale di guerra: far saltare definitivamente le trattative diplomatiche per una tregua e scatenare una guerra di vasta portata in Medio Oriente, da far combattere però soprattutto agli Stati Uniti.

Anche se il progetto Ucraina ha imboccato da tempo l’inevitabile viale del tramonto, l’Unione Europea continua a insistere su politiche economiche ed energetiche distruttive che rispondono in teoria all’impegno per la difesa del regime di Zelensky. Questo atteggiamento produce anche crescenti tensioni tra i paesi membri. Un numero consistente di essi nutre con ogni probabilità serie riserve circa la fallimentare strategia perseguita finora sotto dettatura di Washington, anche se preferisce uniformarsi alla linea comune. Altri invece, come Ungheria e Slovacchia, si oppongono apertamente ai piani suicidi di Bruxelles e per questo sono presi di mira con iniziative deliberate che puntano a destabilizzare i rispettivi sistemi politici ed economici.

L’Unione Europea non se n’è ancora accorta ma molte cose stanno cambiando nelle prospettive del conflitto ucraino. Prima il presidente Volodymyr Zelensky ha riconosciuto che la guerra in Ucraina va conclusa il prima possibile incontrando il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano che è stato insignito dell’Ordine al Merito dell’Ucraina. Già questa è di per sé una notizia se si considera che nel settembre scorso il consigliere del presidente ucraino, Mikhailo Podolyak, aveva respinto il tentativo di mediazione della Santa Sede definendo il Papa “filorusso”.

«Penso che tutti capiamo che dobbiamo porre fine alla guerra il più presto possibile per non perdere più vite umane» ha detto Zelensky durante l’incontro aggiungendo in un’intervista alla BBC di ritenere possibile almeno tentare di porre fine alla guerra prima della fine dell’anno.

Le dichiarazioni del presidente ucraino sono state accolte positivamente dal portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, per il quale “questo è ovviamente meglio che affermare che qualsiasi contatto con la parte russa e con il capo dello Stato russo è escluso. Certamente, parlare di un dialogo è molto meglio che parlare dell’intenzione di combattere fino all’ultimo ucraino. Se la conversazione è seria, non possiamo ancora giudicarlo e bisognerà aspettare qualche azione concreta, se ce ne saranno”.

L’individuazione del vero obiettivo di Israele nella gestione degli eventi legati all’attacco del fine settimana in una località delle alture del Golan siriane occupate illegalmente è di importanza fondamentale per capire se il conflitto in corso a Gaza si allargherà a breve al Libano e, potenzialmente, a tutto il Medio Oriente. L’uccisione di dodici ragazzi drusi ha dato infatti subito l’opportunità al regime genocida di Netanyahu di alzare la retorica delle minacce contro Hezbollah, indicato immediatamente come responsabile dell’accaduto. La logica del prolungamento della guerra, per evitare di fare i conti a livello politico e giuridico con i fatti di questi mesi, è d’altra parte un elemento acquisito nella strategia criminale del primo ministro. Allo stesso tempo, restano fortissimi dubbi in Israele, così come a Washington, sull’opportunità di fare esplodere il fronte libanese. Un’eventualità, quest’ultima, che potrebbe non solo trascinare nell’abisso l’intera regione, ma segnare anche l’inizio del collasso dello stato ebraico e del progetto sionista.


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