L’esplosione della guerra in Medio Oriente sembra avere dato il colpo di grazia alle speranze ucraine di tenere alto il livello di appoggio dell’Occidente per proseguire in un conflitto disperato contro la Russia. Gli aiuti militari ed economici vengono approvati sempre con maggiore difficoltà, se non boicottati del tutto, e le forze in termini di risorse umane che il regime di Zelensky è in grado di mettere assieme ormai ridotte all’osso. In questo scenario, il crollo definitivo dell’Ucraina appare vicino. L’unica alternativa, prima respinta fermamente ma ora in discussione anche a livello pubblico, è l’avvio di un qualche negoziato di pace con Mosca. USA ed Europa starebbero infatti lavorando proprio a questa opzione, come ha confermato un articolo, fino a poco tempo fa semplicemente impensabile per la galassia “mainstream”, apparso sabato sul sito del network americano NBC News.

L’obiettivo primario di Israele nella campagna criminale in corso a Gaza è l’espulsione totale della popolazione palestinese dalla striscia. Non sono soltanto i proclami dei leader del regime sionista e le azioni delle sue forze armate in queste settimane di guerra a dimostrarlo, ma anche alcuni documenti pubblicati recentemente da organi del governo e da enti ad esso molto vicini. L’appropriazione totale delle terre palestinesi si basa sia su teorie al limite del patologico basate sui testi sacri sia sul principio della forza pura e semplice che da decenni viene favorito dall’appoggio garantito allo stato ebraico dagli Stati Uniti e dal resto delle “democrazie” occidentali.

All’interno del regime di Netanyahu sta circolando almeno un piano per portare a termine la pulizia etnica di Gaza e l’occupazione definitiva di questo territorio da parte di Israele. Il giornale israeliano Mekovit ha infatti rivelato nei giorni scorsi il contenuto di uno studio realizzato dal ministero dell’Intelligence, nel quale si raccomanda il trasferimento forzato dei circa 2,3 milioni di palestinesi residenti a Gaza.

L’incursione da terra, cielo e mare dell’esercito israeliano contro Gaza miete vittime civili in misura preponderante. Sono piovute 18.000 tonnellate di tritolo sulla Striscia di Gaza, più o meno 50 tonnellate per chilometro. Bersagli preferiti ogni essere umano, ogni installazione, con particolare predilezione per ospedali e ambulanze. Gli esponenti di Hamas che Tel Aviv dice di voler sterminare sono solo il bersaglio propagandistico, quello reale sono i palestinesi tutti. Lo conferma Dror Eydar, ex ambasciatore israeliano a Roma dal 2019 al 2022, in una trasmissione televisiva: “L’obiettivo è distruggere Gaza”, che definisce “il male assoluto”. Una pulizia etnica, la sostituzione etnica dei palestinesi con gli ebrei. Nulla che non fosse già chiaro, solo detto con rude franchezza, non si sa se involontariamente o no.

L’idea che abita nell’establishment israeliano continua ad essere una e solo una: l’apartheid non è più sufficiente per i nuovi appetiti del sionismo, serve l’eliminazione fisica dei palestinesi. Dati i costi al metro quadro dell’area, estirpata ai palestinesi e con modesti investimenti, Gaza può diventare un’area residenziale di Tel Aviv. Dunque farli fuori tutti affinché Israele possa accaparrarsi tutto. Quello che già c’è e quello che potrebbe esserci.

Occorre interrogarsi sulle conseguenze sul piano internazionale della situazione a Gaza. Il massacro in corso è senza precedenti. Come accennato dagli esperti delle Nazioni Unite c’è il rischio di un genocidio. Sembra applicabile alla fattispecie la Convenzione sul genocidio del 1948, il cui art. II definisce come segue la fattispecie di genocidio: “Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; (…).”.

I regimi arabi alleati dell’Occidente sono sottoposti da oltre due settimane a enormi pressioni da parte delle rispettive popolazioni, unanimemente solidali con la causa palestinese e sempre più infuriate contro il regime sionista per il massacro quotidiano di civili innocenti nella striscia di Gaza. Tra i paesi in maggiore difficoltà alla luce dell’escalation del conflitto non c’è solo l’Arabia Saudita, che fino a tempi recentissimi sembrava vicina alla normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, ma anche e soprattutto la Giordania. Il regno hashemita del sovrano Abdullah II si trova infatti a dover gestire una vera e propria polveriera in seguito all’operazione “Alluvione Al-Aqsa” lanciata da Hamas il 7 ottobre scorso, con ripetute manifestazioni di protesta contro Washington e Tel Aviv e richieste dilaganti di revocare l’accordo di pace del 1994 con lo stato ebraico.


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