L’incursione da terra, cielo e mare dell’esercito israeliano contro Gaza miete vittime civili in misura preponderante. Sono piovute 18.000 tonnellate di tritolo sulla Striscia di Gaza, più o meno 50 tonnellate per chilometro. Bersagli preferiti ogni essere umano, ogni installazione, con particolare predilezione per ospedali e ambulanze. Gli esponenti di Hamas che Tel Aviv dice di voler sterminare sono solo il bersaglio propagandistico, quello reale sono i palestinesi tutti. Lo conferma Dror Eydar, ex ambasciatore israeliano a Roma dal 2019 al 2022, in una trasmissione televisiva: “L’obiettivo è distruggere Gaza”, che definisce “il male assoluto”. Una pulizia etnica, la sostituzione etnica dei palestinesi con gli ebrei. Nulla che non fosse già chiaro, solo detto con rude franchezza, non si sa se involontariamente o no.

L’idea che abita nell’establishment israeliano continua ad essere una e solo una: l’apartheid non è più sufficiente per i nuovi appetiti del sionismo, serve l’eliminazione fisica dei palestinesi. Dati i costi al metro quadro dell’area, estirpata ai palestinesi e con modesti investimenti, Gaza può diventare un’area residenziale di Tel Aviv. Dunque farli fuori tutti affinché Israele possa accaparrarsi tutto. Quello che già c’è e quello che potrebbe esserci.

Occorre interrogarsi sulle conseguenze sul piano internazionale della situazione a Gaza. Il massacro in corso è senza precedenti. Come accennato dagli esperti delle Nazioni Unite c’è il rischio di un genocidio. Sembra applicabile alla fattispecie la Convenzione sul genocidio del 1948, il cui art. II definisce come segue la fattispecie di genocidio: “Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; (…).”.

I regimi arabi alleati dell’Occidente sono sottoposti da oltre due settimane a enormi pressioni da parte delle rispettive popolazioni, unanimemente solidali con la causa palestinese e sempre più infuriate contro il regime sionista per il massacro quotidiano di civili innocenti nella striscia di Gaza. Tra i paesi in maggiore difficoltà alla luce dell’escalation del conflitto non c’è solo l’Arabia Saudita, che fino a tempi recentissimi sembrava vicina alla normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, ma anche e soprattutto la Giordania. Il regno hashemita del sovrano Abdullah II si trova infatti a dover gestire una vera e propria polveriera in seguito all’operazione “Alluvione Al-Aqsa” lanciata da Hamas il 7 ottobre scorso, con ripetute manifestazioni di protesta contro Washington e Tel Aviv e richieste dilaganti di revocare l’accordo di pace del 1994 con lo stato ebraico.

Mentre il numero ufficiale dei morti sotto le bombe di Israele a Gaza ha superato quota 5.000, il governo del primo ministro Netanyahu sembra essere vicino a ordinare un’invasione nella striscia che rischia di trasformarsi in un massacro ancora più sanguinoso sia per i civili palestinesi sia per i militari del regime di occupazione. La reazione criminale al blitz lanciato con successo da Hamas e Jihad Islamica il 7 ottobre scorso ha messo lo stato ebraico in una situazione senza vie d’uscita facilmente percorribili. Un’operazione di terra appare di fatto inevitabile per raggiungere l’obiettivo fissato da Tel Aviv, vale a dire l’eliminazione delle forze della “Resistenza” palestinese, ma comporta allo stesso tempo rischi considerevoli che, dietro l’ostentazione di forza del regime sionista, agiscono in qualche modo da freno alle manovre militari.

Annullati i vertici bilaterali con Giordania e Autorità palestinese, snobbati i colloqui da parte saudita, poste serie condizioni da parte dell’Egitto, bloccate le trattative per gli accordi di Abramo, in aperto scontro con le commissioni ONU sui diritti umani, spaccata la UE che sfiducia la sua presidente dall’eccessivo ardore filo-israeliano, la miglior alleata degli USA in Europa, assegnazione del ruolo di protettore e garante dei palestinesi a quell’Iran che Biden voleva isolare da tutti, palestinesi in primo luogo: la missione di Biden in Medio Oriente è stata un fiasco totale.

E certo non ha aiutato prima far giungere due portaerei nucleari, con 20.0000 marines a bordo e nuovi aiuti militari per Tel Aviv e poi porre il veto alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza a firma russa che chiedeva un immediato cessate il fuoco mentre si cercava il dialogo con i paesi arabi e l’Autorità palestinese. Difficile immaginare maggiore rigidità ideologica mista a idiozia politica.


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