di Carlo Benedetti

MOSCA. Centocinquanta milioni di abitanti, un territorio di 17 milioni di chilometri quadrati dalle coste del mar Glaciale Artico alle steppe dell'Asia centrale. Tutto sotto il controllo di una nuova nomenklatura che vede in testa cinquanta nomi eccellenti. Personaggi che fanno parte, per lo più, dell'entourage presidenziale. Sono l'avanguardia di una nuova classe post-sovietica. Coinvolti nelle operazioni finanziarie più sfacciate. Legati agli ambienti economici degli Usa e di Israele, alle grandi banche internazionali, alle holding del petrolio e del gas. Sfuggono tutti a qualsiasi catalogazione sociale. Ora i loro nomi sono di pubblico dominio e i russi, che si accingono ad affrontare le elezioni regionali e presidenziali (nel 2008), cominciano a seguire con sempre maggiore interesse quanto scrive in merito quella stampa che conserva ancora una certa libertà nei confronti dei diktat del Cremlino. Irrompono nella scena del paese scenari degni di storie gialle.

di mazzetta

La situazione in Somalia evolve in maniera caotica, ma ancora accettabilmente politica, con un ricorso relativo alle armi. L'autorità delle Corti si è estesa alla maggior parte del paese, con le significative eccezioni di Baidoa, sede del Governo di Transizione e del Puntland, la regione ormai autonoma del presidente Yusuf. Nell'ultimo mese il governo è rimasto a Baidoa, prima vittima di un'ondata di dimissioni di massa, poi ha cercato di mantenere in zona una presenza militare straniera in grado di impedire alle Corti di estendere il loro controllo alla città. Dopo che l'invasione etiope aveva sollevato numerose proteste delle diplomazie africane e l'ira della stragrande maggioranza dei somali e dopo un disastroso alluvione che ha devastato il paese, il governo di Adis Abeba ha desistito. Il lavorio diplomatico degli USA è riuscito a spedire gli ugandesi a difendere un governo svuotato e privo di qualsiasi autorità oltre a quella personale dei rimasti in carica.

di Giovanni Gnazzi

Ci vivono dieci individui tra i primi venti più ricchi del pianeta, ma alcuni milioni vivono in condizioni di estrema povertà. Hanno sede la più grandi multinazionali del mondo, ma la giurisprudenza del lavoro è ad uno dei livelli più bassi conosciuti. Vi si trovano i migliori ospedali, i più grandi centri di eccellenza del mondo per i trapianti d'organi, ma quarantacinque milioni di persone non hanno accesso alla sanità. Può sembrare la rappresentazione della forbice tra la qualità della vita e l'impossibilità di viverla, una sorta di radiografia minima dello squilibrio planetario. Ma non è una dimostrazione dello squilibrio tra Nord e Sud del mondo, bensì dello squilibrio interno ad un paese. Ma nel caso specifico non stiamo parlando di un qualunque paese del cosiddetto "terzo mondo" o, per dirla con la terminologia degli economisti, "paese sottosviluppato". I dati appena citati si riferiscono agli Stati Uniti d'America, la nazione-continente che rivendica i suoi paradigmi di prosperità e predica democrazia al mondo mentre lo inonda di guerre, debito estero, embarghi e liste di "paesi canaglia".

di Bianca Cerri

Esattamente un anno fa, l'uragano Katrina si abbatteva sul Golfo del Messico, devastando ampie zone del sud degli Stati Uniti e le vite di coloro che li abitavano. Le autorità hanno deciso di commemorare quei giorni drammatici con manifestazioni di ogni genere che si concluderanno solo il 15 settembre con la Gulf Coast Conference. Il sindaco di New Orleans, Nagin, che avrebbe voluto inserire nel programma anche uno spettacolo di fuochi d'artificio come simbolo della volontà di rinascita della gente del Baoyou, è stato ricondotto alla ragione dai suoi consiglieri che gli hanno suggerito toni più sommessi. Tanto più che la rinascita non è ancora avvenuta. Media e politici vari hanno tentato di farlo credere avventandosi sul primo anniversario del passaggio di Katrina per far credere al pubblico che tutto stesse andando nel verso giusto ma i fatti li smentiscono. Non ha convinto neppure il redivivo John Kerry che, nonostante le parole di fiele nei confronti di Bush, è apparso come al solito incapace di proporre soluzioni valide.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Se c'erano dei dubbi sulla "dipendenza" dagli Usa del presidente georgiano, le ultime sue azioni hanno fatto giustizia di tutto. Perchè Saakasvili è l'uomo che Casa Bianca e Pentagono hanno preparato e scelto per la destabilizzazione dell'area del Caucaso in funzione antirussa (così come hanno incoronato Julija Timoshenko per un ruolo analogo nel cuore dell'Europa, in Ucraina).
Caucaso, quindi, come obiettivo primario per un attacco generale contro il fronte meridionale dei territori dell'ex Unione Sovietica. E la scelta non è casuale perchè proprio quest'area è quella maggiormente segnata da lotte storiche che un tempo erano rivolte contro la metropoli (Mosca) e che oggi si caratterizzano con spinte nazionaliste ed aspirazioni all'indipendenza. Ma questa volta non è Mosca l'oggetto dell'attenzione e dello scontro. Ora sotto accusa è il potere della Georgia.


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