di Giorgio Ghiglione e Matteo Cavallaro

Le recenti sanzioni contro la Repubblica Islamica dell’Iran hanno prodotto un primo effetto. Dal 1° Gennaio di questo anno, dopo la decisione dell’Alto Consiglio per l’Economia presa a metà Dicembre, il dollaro ha cessato di essere la valuta di riferimento per le transazioni finanziarie di Teheran. Quindi anche per quelle petrolifere. Già in passato era balenata l’ipotesi, poi rivelatasi una diceria, di una borsa petrolifera basata sull’Euro con sede nell’area di libero scambio dell’isola di Kish. Un progetto di impossibile realizzazione, se non altro perché richiedeva l’apporto partecipativo dei petrocaliffati del Golfo, i quali non avevano tuttavia la benché minima intenzione di sferrare un attacco così diretto ad un sistemo economico, quello USA, in cui avevano investito larga parte dei loro proventi. Questa volta la situazione è diversa. Ahmedinejad sta usando la questione atomica come la santa causa nazionale, irritando la Casa Bianca e il rispettivo alleato israeliano che invocano e ottengono le sanzioni economiche delle Nazioni Unite. Sorgono dunque spontanee alcune domande: cosa c’entrano le sanzioni con questo progetto? Come può una moneta diventare un’arma? Non sono forse tutte uguali? La risposta a tali quesiti necessita di una breve spiegazione di alcuni meccanismi economici basilari e soprattutto di un ritorno al passato, per la precisione all'anno 2003.
A metà del 2003 l’Iran fa una mossa decisamente particolare: rompe con la tradizione, sino ad allora accettata da tutti, di farsi pagare le vendite di petrolio in dollaro e ha iniziato ad accettare Euro per il pagamento delle esportazioni ai suoi clienti dell’Unione Europea e dell’Asia.
Dobbiamo, per amore di verità, ricordare che pure Saddam Hussein aveva tentato una simile mossa audace già nel 2000, bruciando circa 270 milioni di dollari. Ulteriore dimostrazione che la moneta non è solo un velo. Inutile dire che, dopo questi anni di guerra, l’Iraq è costretto a utilizzare i dollari statunitensi per le vendite di petrolio.

L’idea iraniana, quindi, se applicata, faciliterebbe il commercio del proprio petrolio sul mercato mondiale attraverso valute diverse dal dollaro, permettendo così di bypassare le attuali sanzioni. Pare pertanto logico che a Washington, dopo la fatica fatta per ottenere una risoluzione favorevole, guardino con astio tale progetto. Una ulteriore possibile analisi di questa scelta richiede l’introduzione di un ulteriore protagonista: il debito pubblico.

Con questo termine si intende il deficit di uno Stato verso soggetti quali imprese, banche o anche semplici individui, che hanno sottoscritto obbligazioni (BOT e CCT, ad esempio) destinate a coprire il fabbisogno finanziario statale. Da qualche tempo quello statunitense ha l’onore di essere il più alto del mondo. Scorrendo la lista dei creditori, si scopre che ben il 38% del deficit è detenuto da creditori esteri. Per una bizzarra ironia della sorte il 22% di questo è in mano alla famiglia reale saudita. Come può lo stato più indebitato del mondo mantenere la leadership mondiale?
La prima annotazione ha a che fare con quella che potremmo definire la forza fisica dei governi: essendo gli USA la principale potenza mondiale, nessuno andrà mai a chiedere la restituzione del debito.

La seconda ragione invece riguarda il mercato mondiale, in particolare quello dell’oro nero.
Si ipotizza da più parti che il dollaro statunitense sia gonfiato da qualche tempo, grazie alla posizione di monopolio dei “petrodollari” nel commercio del greggio. Con il debito nazionale ai livelli attuali, il valore della valuta statunitense è stato mantenuto artificialmente alto grazie al controllo assoluto sulle transazioni finanziarie internazionali.
Come avrete intuito, però, negli ultimi anni qualcosa è cambiato: l’Euro è diventato un mezzo di scambio un po’ più forte e stabile del dollaro statunitense. Forse è per questo che paesi "eretici" quali Russia, Venezuela e alcuni membri dell’OPEC hanno manifestato, almeno in linea teorica, un interesse a un passaggio a un sistema in “petroeuro” per le transazioni. Il passaggio dal dollaro USA all’Euro sul mercato petrolifero provocherebbe un calo della domanda di petrodollari e probabilmente una leggera flessione del valore del biglietto verde.
Ad onor del vero un tale “attacco” monetario provocherebbe solo lievi grattacapi che, per quanto fastidiosi possano essere, sono risolvibili in tempi medio-brevi.

La definitiva sconfitta dell’Impero Americano, fortemente voluta dai seguaci di Ahmedinejad, è quindi ancora assai lontana e, molto probabilmente, destinata a non avverarsi mai nei termini da loro sperati. Anche perché non saranno in molti a voler utilizzare l’Euro. Giusto per fare un esempio la nazione con maggiore cresciuta economica e fame energetica, la Cina, continuerà a utilizzare il dollaro per i suoi scambi, se non altro perché Pechino ha negli ultimi tre anni investito gran parte del proprio surplus commerciale in buoni del tesoro americano. Sarebbe stupido cambiare improvvisamente rotta e perdere grandi quantità dei propri capitali. Quindi, con buona pace di Maurizio Blondet, la scelta iraniana del cambio di valuta commerciale è da inscrivere più in una logica difensiva e di ripicca politica che in un contesto di “assalto” alla Casa Bianca.

In particolare, in tempi di embargo, diversificare le valute usate per gli scambi (di qualsiasi natura essi siano) permette di aggirare con maggiore facilità i limiti imposti. In particolare per quel che riguarda le banche americane, che già dalla fine dell’anno scorso avevano ricevuto il “niet” a intrattenere rapporti commerciali in dollari con la banca iraniana Saderat.
Stati Uniti e Iran hanno quindi deciso di parafrasare il celebre motto dello stratega Von Clausewitz, dimostrando che l’economia altro non è che la continuazione della guerra con altri mezzi.


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