dall'inviato Fabrizio Casari

MANAGUA. Sedici capi di Stato e di governo, esponenti di forze politiche provenienti da sessantacinque Paesi, mille giornalisti accreditati. La cifra politica dell’insediamento del Comandante Daniel Ortega alla Presidenza della Repubblica è anche qui; mai, nella storia del piccolo paese centroamericano, l’insediamento di un presidente aveva convocato tanto interesse a livello internazionale. È il segnale evidente di un clima di attesa e d’interesse politico che anche a livello internazionale caratterizza il ritorno al potere, dopo sedici anni di opposizione, del Frente Sandinista. Daniel Ortega, presidente del Nicaragua che fu, è il Presidente del Nicaragua che sarà. Le aspettative sono tante e la fiducia è decisamente superiore alle paure. La cerimonia dell’investitura, ricca di dettagli curiosi quanto indicativi e anche di una improvvisazione inaspettata, ha rappresentato però non solo il passaggio formale tra l’esecutivo entrante e quello uscente. Se dapprima ha consegnato la “Medaglia della dignità latinoamericana- Nicaragua libera” ai Capi di Stato e di governo intervenuti, nel chiedere il giuramento ai comandi di esercito e polizía, Ortega ha voluto ricordare con forza le origini sandiniste delle due istituzioni. La cosa ha il suo indubbio significato, specie in relazione alle turbolenze politiche generate dal Presidente uscente Bolanos che, in due occasioni, aveva chiesto senza ottenerlo, l’intervento dei militari. Gli invitati internazionali e il corpo diplomatico presente, che si attendevano un discorso del neo presidente, hanno atteso invano. Ortega infatti, con un tanto di demagogia che qui abbonda, ha detto che la piazza, dove centinaia di migliaia di sandinisti attendevano da ore, sarebbe stato il luogo del suo discorso, perchè “è il popolo che deve sapere, è il popolo che assume la presidenza”. E il seguito non è stato da meno. Nella Piazza della Fede, la stessa dove sedici anni prima aveva consegnato il potere alla Presidente Violeta Chamorro, il Comandante sandinista si è presentato nella veste del capo di un popolo, o perlomeno di una buona parte di esso. Abbracciato con Hugo Chavez (che ha definito Ortega un “imprescindibile”) ed Evo Morales, ai quali ha dato la parola per primi e brandendo in alto la spada copia di quella del libertador Simon Bolivar, Ortega ha pronunciato un discorso diviso in tre parti ma i cui tratti salienti hanno rappresentato l’evidente intenzione di voltare pagina nella conduzione del paese. In primo luogo la rivendicazione orgogliosa del sandinismo, della sua vicenda storica, dei suoi “eroi e martiri”, delle madri dei caduti, “che hanno versato lacrime per il bene del paese e che hanno diritto ad una assistenza che renda la loro vita degna di essere vissuta”. Quindi un richiamo alla riconciliazione nazionale, perchè l’unica guerra di cui ha bisogno il Nicaragua è quella alla povertà. Concetti simili, del resto, erano stati espressi durante la cerimonia d’investitura dal Cardinale Obando y Bravo che, citando diverse volte Giovanni Paolo II e mai Ratzinger, ha detto che “la mancanza di diritti umani non risiede solo nella repressione e nelle dittature, ma anche nel tenere nella miseria un popolo, negandogli il primo dei diritti umani: quello di una vita degna”. Parole che indicano il perchè la gerarchia ecclesiale si sia schierata con il Fsln ed abbia voltato le spalle alla destra, sua storica alleata.

Sul piano internazionale Ortega ha annunciato l’ingresso del Nicaragua nell’Alba, l’Alternativa Bolivariana per le Americhe alla quale già partecipano Venezuela, Cuba e Bolivia e che si propone di dar vita ad una cooperazione regionale economica e politica alternativa all’Alca, progetto continentale statunitense (già sconfitto) destinato al controllo da Washington sulle economie latinoamericane.
L’ingresso nell’Alba si accompagnerà alla revisione parziale del trattato bilaterale con gli Usa, che a giudizio di Ortega presenta aspetti da rivedere perchè “non convenienti per il Nicaragua”. E l’Alba è solo una parte del cammino verso l’integrazione regionale. Per Ortega, il Nicaragua dev’essere luogo dell’unità e dell’indipendenza latinoamericana, di riscatto sociale e politico di tutto il subcontinente.

Sul piano dell’economia interna si è incentrata la seconda parte del discorso di Ortega: nel ribadire la fiducia degli imprenditori e degli organismi finanziari, il presidente ha confermato l’intenzione di aprire un’agenda di discussioni ed iniziative destinate a migliorare le condizioni dell’economia in uno spirito di unità nazionale, cercando un terreno d’intesa tra l’impresa privata e le esigenze generali. Una politica economica di concertazione destinata a sradicare la povertà che affligge il 54% del paese, attraverso il credito agevolato ai piccoli produttori e alle cooperative e il finanziamento straordinario destinato all’ampliamento del welfare state.

E se ha sottolineato l’indubbia necessità di dare impulso ad una economia sociale di mercato, proprio sui servizi sociali è stato netto: basta con le privatizzazioni e, anzi, revisione di quelle che – come nel caso dell’elettricità – hanno aumentato il costo e peggiorato il servizio. “Nessun approccio ideologico - ha detto Ortega - verranno valutate nell’esclusivo interesse generale una per una. Quelle che funzionano verranno confermate, le altre no”. E ancora: “Basta con i mega-salari di deputati e funzionari dello Stato che sono “un insulto alla povertà della nostra gente”. E’ l’inizio di un nuovo rapporto tra governo e cittadini, che il neopresidente ha promesso: “A coloro che, dal governo, pensano di stare su una nuvola e guardare dall’alto in basso il popolo, voglio far sapere che dalle nuvole si cade: dovrete andare tra la gente a rendere conto del vostro operato, a chiedere cosa funziona e cosa non funziona e dovrete risolvere rapidamente e positivamente i problemi che vi rappresentano, se vorrete conservare il vostro posto”.

Sono parole che in qualche modo la gente aspettava. Una inchiesta della MyR Consultores - la maggiore società nicaraguense di rilevazioni statistiche - pubblicata due giorni prima del passaggio dei poteri, indicava come il 77% dei nicaraguensi si dice convinto che il governo di Ortega saprà migliorare la condizione generale del paese. Per un Presidente che ha ottenuto la vittoria con il 39% dei voti, questa dimostrazione di fiducia è forse il primo grande passo in avanti, il modo migliore di cominciare un lavoro che non sarà facile. Ortega ha ricevuto, in effetti, due mandati speculari: quelli di una popolazione che ha visto il peggioramento drammatico delle sue condizioni di vita con i governi di destra succedutisi dal 1990 ad oggi e quello della stessa classe imprenditoriale del paese, che ha compreso come una politica economica che porti di nuovo alla crescita non può prescindere dalla riduzione della breccia sociale che spacca il paese.

Per il Nicaragua si tratta di agganciarsi al treno della ripresa latinoamericana che, come indica un recentissimo Studio della CEPAL (Commisione economica per l’America Latina), viaggia ormai a cifre record. Le vittorie progressiste nella maggior parte del subcontinente hanno definitivamente archiviato la “decada perdida”, cioè il decennio degli anni ’90 che vide l’America Latina come unica porzione di mondo che venne esclusa dalla ripresa economica. E come già in Brasile e Uruguay, anche in Nicaragua la classe imprenditoriale coglie l’opportunità storica di far ripartire i meccanismi virtuosi della domanda interna, condizione indispensabile per una ripresa economica che deve obbligatoriamente prevedere maggiore occupazione e maggiore potere d’acquisto dei salari. Del resto, proprio in Nicaragua risulta evidente come le politiche neoliberiste abbiano piegato le già fragili capacità di tenuta del tessuto sociale, con il 54% della popolazione attiva disoccupata e il 5% che spende e vive come fosse a Miami.

Solo la parte più recalcitrante della destra continua ad agitare timori di un nuovo scenario politico che possa riprodurre lo scontro degli anni ’80. Sono destinati a rimenere delusi tanto quelli che ritengono che Ortega sia lo stesso degli anni ’80, quanto quelli che pensano che ormai non lo sia più. La verità è che, più che Ortega, è il mondo che è cambiato. Ortega ha rimodulato l’agire politico, non i principi. La sua scommessa è quella di tirare fuori dalla miseria il paese e di restituire allo stesso la dignità e la sovranità nazionale che gli spetta di diritto, chiudendo definitivamente con l’eredità di colonia dell’Impero che la destra aveva riproposto quale asse della collocazione economica e politica degli ultimi 16 anni.

La nueva Nicaragua muove dunque i primi passi. Per l’Impero non è una buona notizia.



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