di Daniele John Angrisani

All'inizio di ogni anno, sembra essere consuetudine fare il punto della situazione dell'anno passato e cercare di capire quali siano le prospettive per il nuovo anno. A un primo sguardo il 2007 sembra dover essere quello che viene definito "anno di transizione". Sarà infatti solo nel 2008 che sia la Federazione Russa che gli Stati Uniti d'America andranno alle urne per eleggere un nuovo presidente, e, pur con tutte le differenze del caso, in entrambi i casi si tratterà di un cambiamento molto delicato, in quanto sia Putin che Bush, ai sensi della Costituzione, non possono più essere rieletti. Ciò nonostante ciò che accadrà nel 2008 dipenderà molto dalla sequela di avvenimenti che si susseguirà questo anno, e da questo punto di vista possiamo ragionevolmente aspettarci delle novità su tutti i fronti. Proviamo ora ad analizzare per macro aree geografiche cosa ci possiamo ragionevolmente attendere da questo nuovo anno. Negli Stati Uniti d'America il 2007 sarà di sicuro l'anno del Congresso tornato in mano democratica. Non appena insediato, i nuovi leader del Congresso, hanno infatti detto chiaramente al presidente "dimezzato" George W. Bush che il vento è cambiato e che non vi è alcun margine per aumentare il numero di truppe in Iraq. Anzi, come hanno ribadito, la politica deve essere quella di ridurre sostanzialmente il numero di truppe impegnato in quel Paese. Come hanno affermato Nancy Pelosi, il nuovo speaker democratici della Camera dei Rappresentanti, e Harry Reid, il nuovo leader della maggioranza democratico al Senato, in una lettera congiunta inviata al presidente Bush: "L'aumento delle forze impegnate in Iraq è una strategia che è stata già tentata e che già è fallita una volta. Come molti leader militari in servizio e non, crediamo fermamente che provare di nuovo a seguire una strategia del genere sia un serio errore. Inviare in Iraq altre truppe da combattimento servirà solo per mettere a rischio di vita altri cittadini americani, e portare le nostre forze militari al punto di rottura strategico". Addirittura l'aumento delle truppe proposto dal presidente Bush è stato accolto con tale ostilità, anche dagli stessi deputati e senatori repubblicani, che alcuni si sono chiesti se Bush fosse serio in questa proposta. E' ovvio che, con una situazione del genere, vi sono tutte le premesse per un anno di 'guerriglia' politica tra presidenza e potere legislativo negli Stati Uniti d'America.

Se nel suo stesso Paese il presidente Bush è costretto a convivere con una maggioranza ostile al Congresso, le cose di certo non vanno meglio al di fuori del suo Paese. Sulla base, infatti, di un sondaggio condotto dall'istituto internazionale di studi di opinioni sociali "Harris" nei confronti di cittadini americani e dell'Unione Europea il peggior uomo politico del 2006 e' risultato essere proprio il presidente americano George W. Bush, non visto di buon occhio dal 56% degli americani, dal 87% dei francesi e tedeschi e dall'88% degli spagnoli e degli italiani. Bush e' stato seguito nell'ordine dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e dal suo collega russo Vladimir Putin, quest'ultimo amato dal 21% dei tedeschi e dal 18% degli americani. Questa ostilità si è trasformata, in America Latina, in vera e propria sfida al potere statunitense: dopo la vittoria di Ortega in Nicaragua, di Morales in Bolivia e la riconferma trionfale di Lula in Brasile e soprattutto di Chavez in Venezuela, in America Latina l'ondata di sinistra ha pressoché trionfato ovunque, tranne che nella Colombia di Alvaro Uribe, unico ferreo alleato degli Stati Uniti nel subcontinente sud-americano, dove la vera potenza regionale sembra essere diventato quel Venezuela tanto inviso alla superpotenza nord-americana.

In Medio Oriente le prospettive per la politica americana non sembrano essere migliori. In Iraq, come tutti sappiamo, è stato da poco giustiziato, dopo un processo farsa, l'ex dittatore iracheno Saddam Hussein. Eppure il cittadino iracheno medio ha ben poco da festeggiare, mentre il suo Paese è in preda alla guerra civile, le torture e le uccisioni hanno raggiunto livelli ancora più alti del già terrificante regime di Saddam, e non si vede all'orizzonte nessuna reale prospettiva di uscita dal tunnel. In questa condizione, è percepibile, persino da parte degli iracheni, la paura che l'eventuale ritiro degli americani dall'Iraq possa portare ad una guerra civile su scala ancora maggiore, con l'intervento diretto o indiretto delle altre potenze regionali: Arabia Saudita e Siria in difesa dei sunniti, Iran in difesa degli sciiti. E proprio l'Iran di Mahmoud Ahmadinejad sembra dover essere il grande protagonista, nel bene e nel male, del 2007 in Medio Oriente. Alla fine del 2006, infatti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha approvato una risoluzione che prevede sanzioni contro l'Iran in caso di prosecuzione del programma nucleare. Visto il totale rifiuto da parte dell'Iran di queste sanzioni, c'è da aspettarsi un ulteriore escalation della crisi durante questo anno. L'unica nota positiva, da questo punto di vista, è stata la sconfitta degli alleati radicali di Ahmadinejad nelle elezioni locali iraniane, che hanno visto il trionfo dei moderati guidati dall'ex presidente Rafsanjani, alleati con i riformisti. Quanto questo possa pesare sulle politiche iraniane in questo nuovo anno, si vedrà.

La situazione dei territori occupati da Israele risulta invece sempre essere pessima. Un barlume di speranza si è avuto ultimamente quando il primo ministro israeliano Ehud Olmert si è incontrato con il presidente palestinese Abu Mazen, a seguito della crisi che ha visto lo scioglimento del parlamento palestinese a maggioranza di Hamas ed il licenziamento del governo Haniyeh, da parte del presidente Abu Mazen. Per la metà del 2007 sono ora previste le nuove elezioni legislative e presidenziali anticipate, che secondo alcuni sondaggi, dovrebbero ridare la guida del governo a Fatah e riconfermare Abu Mazen alla presidenza. Anche in questo caso bisognerà vedere se basterà questo per far risorgere l'ormai defunto processo di pace, visto che troppe volte nel passato vi sono state speranze in tal senso, poi ogni volta naufragate. Dal canto suo, non sarà neppure facile per Olmert, al minimo della sua popolarità dopo la debacle in Libano, spiegare eventuali future concessioni ai palestinesi, ai suoi nuovi alleati nazionalisti al governo. Inoltre la minaccia, sempre più concreta con il passare del tempo, del nucleare iraniano, potrebbe spingere Israele a compiere una azione preventiva contro gli stabilimenti nucleari di quel Paese, cosa che rischierebbe di far deflagrare l'intero Medio Oriente, e con esso, le prospettive di pace.

Il 1 gennaio 2007 l'Unione Europea è arrivata a 27 membri, con l'ingresso di Romania e Bulgaria. Inoltre la Slovenia ha ufficialmente adottato l'euro, e sarà seguita l'anno prossimo da una serie di altri Stati dell'est europeo. Il processo di integrazione del continente europeo sembra quindi continuare con successo. Il problema è però che, in mancanza di serie riforme dell'ordinamento dell'Unione, con 27 Stati membri che su molti argomenti hanno ognuno il diritto di veto, l'Unione Europea rischia letteralmente la paralisi. Dopo la vittoria del NO ai referendum francese ed olandese del 2005, la Costituzione Europea sembra essere carta morta, e nulla si è mosso da allora. Data la contingenza politica, e soprattutto le elezioni presidenziali e legislative che si terranno in Francia nel maggio di quest'anno, è probabile che qualcosa si possa muovere da questo punto di vista entro la fine dell'anno. Se si vuole davvero dare all'Unione Europea un futuro di primo piano è di primaria importanza che il processo di integrazione riprenda a camminare anche dal punto di vista politico, dopo il successo dell'espansione ad est. Così come è di primaria importanza capire che tipo di relazioni l'Unione vuole avere con la Turchia, con cui è in essere un processo di eventuale adesione di questo Paese alla UE, e con la Russia, principale fornitore energetico dell'Unione e partner fondamentale dell'Unione nell'arena globale. Proprio con la Russia, il 2007 è molto probabilmente l'anno in cui verrà firmato un accordo di Partnership in campo economico e sociale che nel 2006 è stato bloccato dal veto polacco e dalla contingenza politica negativa creatasi dopo il barbaro assassinio di Anna Politkovskaja a Mosca e dell'ex spia sovietica Alexander Litvinenko a Londra.

Mentre i russi festeggiano il Natale ortodosso, in un clima di nostalgico ritorno alla 'grandeur' del periodo sovietico, grazie al boom economico causato dalle esportazioni di gas e petrolio all'estero, la questione che tutti si domandano a Mosca è: cosa farà Vladimir Putin? Nel 2008 scade il suo mandato, ed ai sensi della Costituzione russa, Putin non si può più ricandidare. In un Paese dove, dopo 7 anni di governo Putin, la stragrande maggioranza dei media, compreso tutte le televisioni del Paese, sono schierate con il Cremlino, ed è sempre più difficile lavorare per le organizzazioni non governative ed i movimenti di opposizione, vi sono molti che si attendono (o meglio dire sperano) un "golpe bianco" del Cremlino, per cambiare la Costituzione e permettere a Putin di ricandidarsi per la terza volta. La questione è di primaria importanza soprattutto per coloro che durante la presidenza Putin hanno fatto affari e controllato il Paese, vale a dire in modo particolare i "soloviki", gli ex cekisti, che di fatto hanno in mano oggi le redini del Paese. La loro paura, fondata, è che nel caso al Cremlino ci andasse qualcuno non controllabile da loro, rischierebbe di partire nei loro confronti una ondata di persecuzioni, così come sono stati perseguiti da Putin gli oligarchi dell'epoca Eltsin (vedasi Gusijnsky, Berezovsky e Khodorkovsky). Il tutto in un clima nel quale non sembra esistere nessuna reale opposizione al presidente Putin, e in cui una sola manifestazione di protesta tenuta a Mosca il 16 dicembre ha visto la presenza di un numero maggiore di poliziotti rispetto ai manifestanti. Il 2 dicembre 2007 sono previste le elezioni per la Duma. Sebbene nessuno si aspetti novità, anzi i sondaggi sono concordi nel ritenere che Russia Unita, il partito di Putin, prenderà ancora più seggi di quanti ne abbia ora in una Duma che è diventata semplicemente la cassa di risonanza delle decisioni del Cremlino, probabilmente solo allora si potrà capire qualcosa in più sulle intenzioni di Putin o sulla nomina del suo "successore".

In Africa il 2007 ha subito portato la prima guerra regionale. Da Mogadiscio si sono ritirate le Corti Islamiche, dopo una campagna durata meno di una settimana, che ha visto il trionfo delle truppe etiopi e del governo somalo "provvisorio" di Baidoa. Ma le Corti non si sono arrese ed hanno subito minacciato di intraprendere la tattica della guerriglia. Le prime avvisaglie si sono avute qualche giorno fa quando a Mogadiscio la polizia è dovuta intervenire per reprimere nel sangue una protesta contro la presenza delle truppe etiopi. Dall'altra parte del continente, in Nigeria, è in atto la guerriglia del Mend, il movimento di liberazione del Delta del Niger, che ha come obiettivo politico quello di nazionalizzare le immense risorse petrolifere della zona e cacciare via le grandi multinazionali occidentali, tra cui l'Agip e la Exxon. Negli ultimi mesi la guerriglia del Mend ha avuto un salto di qualità con i sequestri dei lavoratori occidentali e con l'uso delle autobombe per sabotare gli impianti petroliferi. In entrambi i casi, Somalia e Nigeria, l'inizio di questo 2007 non presuppone nulla di buono a venire, come, purtroppo, per la stragrande maggioranza del resto del continente africano dove ancora, nel 2007, i bambini, le donne e gli anziani, muoiono di fame e di malattie, senza che nessuno faccia qualcosa davvero per aiutarli.

In Asia il 2007 sicuramente vedrà continuare la grande marcia del drago cinese verso la supremazia economica mondiale, e la contestuale affermazione dell'India, nuova potenza crescente. E' proprio sul continente asiatico che in futuro si decideranno le sorti del pianeta ed è questo che trasforma in eventi di primaria importanza anche le elezioni in Paesi come il Turkmenistan. Dopo la morte del "satrapo" dittatore Saparmurat Nyazov, avvenuta nel dicembre 2006, ora il Turkmenistan si trova di fronte la possibilità di riformarsi e di aprirsi al resto del mondo. In questo contesto si terranno l'11 febbraio 2007 le prossime elezioni presidenziali in cui è assolutamente favorito l'attuale presidente ad interim, Gurbanguly Berdimuhammedow. Il Turkmenistan è di primaria importanza perché è la chiave per il controllo del petrolio dell’Asia centrale, assieme all'Afghanistan. Al centro della partita ci sono due lunghi serpenti d’acciaio. Per adesso ancora solo sulla carta, ma dovrebbero tagliare in due l’Afghanistan. In uno, viaggeranno ogni giorno un milione di barili di greggio proveniente dai giacimenti dell’Asia centrale ex sovietica, nel secondo correrà il gas che sgorga dai giacimenti di Dauletabad in Turkmenistan. Due arterie strategiche per rendere accessibile alle grandi compagnie petrolifere americane le immense riserve di idrocarburi dell’Asia centrale e controllare, potenzialmente, buona parte dell'afflusso energetico ai due giganti asiatici, India e Cina. Il successo di questa strategia dipenderà dai rapporti del nuovo presidente del Turkmenistan con l'Occidente, e dalla tenuta del regime di Hamid Karzai, appoggiato dalle truppe americane e della NATO, in Afghanistan.

Da non dimenticare infine un altro importante appuntamento che si terrà quest'anno. Il 21 gennaio 2007 si apriranno le urne per l'elezione del nuovo Parlamento in Serbia. Sarà il primo appuntamento importante di questo nuovo anno, in quanto il futuro della Serbia dipende dalla tenuta o meno dei partiti democratici al governo del Paese, e dal possibile successo del Partito Radicale Serbo guidato da quel Vojislav Šešelj che al momento è all'Aia sotto processo per crimini di guerra. Inoltre questo appuntamento è molto importante anche perché, in seguito a queste elezioni, bisognerà stabilire definitivamente lo status del Kosovo. La questione è parecchio delicata in quanto è la principale arma di propaganda del partito di Šešelj, che accusa l'attuale governo di aver "perso" il Kosovo. Nella provincia a maggioranza albanese invece l'opinione maggioritaria è a favore dell'indipendenza e questo potrebbe causare non pochi problemi in una regione uscita solo da pochi anni dalla spirale di una guerra fratricida che ha causato immensi dolori e tragedie in quella che una volta era la Yugoslavia. Nel corso del 2007 ci saranno inoltre le anche più importanti elezioni presidenziali che potrebbero confermare l'attuale presidente, Boris Tadić, leader del partito democratico. Il futuro della regione è quindi ora in mano agli elettori serbi, mentre la NATO ha deciso di aprire un ufficio a Belgrado e si parla persino di un possibile ingresso futuro della stessa Serbia all'interno dell'Alleanza Atlantica, in caso di vittoria dei democratici.

Concludendo quindi, il 2007 sembra essere un anno che, lungi dall'essere semplicemente transitorio rispetto ai grandi appuntamenti elettorali del 2008, potrebbe invece essere un anno caratterizzato da grosse novità, speranze o delusioni, a seconda dei punti di vista. Come persone che credono fermamente nei diritti umani e nello sviluppo della democrazia nel mondo, possiamo solo sperare che questo nuovo anno porti dei risultati migliori dell''"hannus horribilis" che è stato il 2006 sotto questo aspetto. Il risultato dipenderà, tra le altre cose, dalla pressione che l'opinione pubblica può porre sui propri governanti, affinché non prendano decisioni solo dettate dall'avidità o dagli interessi economici, ma tengano anche conto delle violazioni dei diritti umani e delle minacce alla democrazia ed alla libertà sin troppo presenti nel mondo di oggi. L'Unione Europea, ad esempio, dovrebbe essere molto chiara con la Russia, ed affermare con assoluta trasparenza che ogni futura collaborazione, economica, politica e sociale, con quel Paese, dipenderà dal suo rispetto dei diritti umani e dalla difesa delle libertà democratiche in quel Paese. Come ha ben dimostrato ciò che è accaduto in Iraq (e non solo) nel 2006, la democrazia non si esporta con le armi. Ma è dovere di tutti noi cittadini di Paesi che si dicono democratici, difendere in tutti i modi le conquiste sinora ottenute dai Paesi in via di sviluppo su questa strada ed aiutare coloro che nei propri Paesi di origine combattono a questo scopo. Solo così potremo davvero avere fiducia nel nostro futuro.

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