di Maurizio Coletti

Il programma dell’Unione è stato definito lungo, eccessivamente prolisso, di difficile e noiosa lettura, forse, e di un filo di genericità che lascia spazio ad interpretazioni. Così non è per i temi della droga: lì troviamo scritto qualcosa di chiaro: “Il decreto legge del governo sulle tossicodipendenze deve essere abrogato”. Qualcosa che si presta poco a dubbi ed interpretazioni. Appare quindi strano vedere il leader dell’Unione che sembra avere saltato la lettura delle 19 righe del suo programma che sono dedicate al tema, sotto l’esplicito titolo: Educare, prevenire, curare. Non incarcerare. Per le tossicodipendenze non servono né il carcere né i ricoveri coatti”. Interrogato sul tema specifico a “Porta a porta”, Prodi l’ha presa un po’ larga. L’Italia ha bisogno di tranquillità, di certezze “… su un tema così delicato…”. “Ma la cambierà?” “…non è una legge organica… è puramente repressiva…” “Ma cosa farete?” “… a tempo debito. Una legge con contenuti educativi, anche di aiuto reale. …una bella riflessione…”. Non va.

di Marco Dugini

Paolo Mieli Il Corriere della sera compie proprio in questi giorni 130 anni e lo fa entrando a gamba tesa nel campo infuocato della campagna elettorale, con un inaspettato editoriale del direttore Paolo Mieli, che schiera il suo giornale in maniera inequivocabile con l'Unione.
Una lista di "buoni e cattivi" che ha scatenato subito una raffica di dichiarazioni e prese di posizione di tutto l'arco parlamentale, anche perché è nelle convinzioni di molti che questa chiara indicazione di voto vada ben oltre il pensiero di chi l'ha scritta, o del gruppo che la sostiene, rappresentando invece un significativo segno di questi tempi elettorali.
Il Corriere non è La Repubblica, da sempre meno distaccata e più netta nella scelte di campo e Paolo Mieli non è Umberto Eco, il quale peraltro ha appena lanciato un appello sui rischi della democrazia italiana in caso di una nuova vittoria di Berlusconi.
Anche se, a sentire le reazioni dei corifei del berlusconismo, il Corriere della sera è invece ormai qualcosa di molto simile all'Unità (offesa suprema ai loro occhi - s'intende) mentre Ferrara, dalle colonne del Foglio, se la prende anche con il comitato di redazione di quel giornale che ha sottolineato poco dopo la richiesta di un'effettiva - e non scontata - coerenza editoriale di tutto il giornale con le scelte del direttore.
"Siamo ormai al MinCulPop" tuona l'elefantino berlusconiano, mentre altri promettono boicottaggi in edicola.

di Maurizio Coletti

Sul giudizio che Andrea Muccioli ha tranciato a riguardo della legge Fini - Giovanardi sulla droga e dintorni, si può concordare: San Patrignano la definisce "una schifezza elettorale" e denuncia lo squallido tentativo di raccattare qualche manciata di voti.
L'ispiratore della signora Moratti si scaglia contro Fini e Casini perché non avrebbero mantenuto fede alla promessa di un provvedimento che doveva marcare in maniera definitiva e solenne la differenza tra consumo e spaccio.
Anche ammesso che questo sia un punto importante (lo spaccio è, frequentemente, una maniera per campare e, si sa, Monsignor Romero diceva che aiutare un povero cristo è atto di pietà cristiana, chiedersi le cause della sua povertà diventa comunismo), Muccioli e Moratti fingono che la legge cialtrona contenga solo norme inefficaci.
Inefficace lo scandalo di stabilire per legge la parità tra sostanze così diverse? Inefficace prefigurare percorsi penali per i soggetti colti in flagranza di uso o di detenzione?

di Giovanna Pavani

E' una domanda che ogni anno si riaffaccia, inquietante, e alla quale è difficile dare una risposta definitiva: perché guardare il Festival di Sanremo? Perché, soprattutto, più di dieci milioni di persone, per cinque sere di seguito, lo fanno senza vergogna e, anzi, con vezzo voyeristico, se ne fanno pure un vanto? Perché, ancora, un'Italia oggi alle prese con problemi più gravi di ieri, ma forse ancora migliori di quelli di domani, si blocca, stupita e curiosa, a guardare uno spettacolo obsoleto, un mausoleo vivente fuori dal mondo, un rigido protocollo che azzera chiunque, che spegne intelligenze e irrita per la sua offensiva banalità? Le risposte alla complessità sociologica di questi quesiti sta tutta in uno slogan, in quello spot semplice e disarmante, che qualche anno fa il sensale per eccellenza della messa cantata degli italiani, Pippo Baudo, sfoderò con grande non chalance in una sala stampa dell'Ariston gremita fino all'inverosimile di giornalisti curiosi. Più di capire il fenomeno che di conoscere i testi delle canzoni in gara: perché Sanremo è Sanremo disse "Pippo nazional-popolare". E fu subito applauso.

di Liliana Adamo

Qualcuno ricorda un film caduto nel dimenticatoio come "Totò che visse due volte" di Ciprì e Maresco? Pochi l'hanno visto rispetto ai tanti che ne hanno ponderato le traversie.
Il film "blasfemo" dei due cineasti siciliani, è datato come il film di Pier Paolo Pasolini, "Ricotta"; eppure entrambe le opere subirono la ronca della censura per vilipendio e offesa alla religione. Meglio, lo psicologo Leonardo Ancona, portavoce della commissione censoria, definì i registi di "Totò che visse due volte…" come due psicopatologici che offendono l'umanità. Era l'Italia del 1998. Il caso di Ciprì e Maresco sollevò più di una questione politica, tant'è che nel marzo dello stesso anno l'allora vicepresidente del Consiglio, Walter Veltroni, suggerì al Consiglio dei Ministri il riesame della legge sulla censura preventiva (n. 161 del 21 aprile del 1962), fermo restando l'applicazione dei divieti ai minori. Altri tempi, si dirà. Nessun Calderoli d'epoca con tanto di maglietta, proiettò pubblicamente il film, in nome della "libertà d'espressione" (magari in qualche piazza romana adiacente al Vaticano) e indubbiamente, nessuna pubblicazione tendenzialmente di destra (perdonate l'abuso "ideologico", ma siamo ancora negli anni novanta), come Il Foglio e Libero, gridarono ai quattro venti di far proprie le tesi della libertà d'espressione laica rispetto a quei caproni intestarditi di fede cattolica.


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