di Marco Dugini

Paolo Mieli Il Corriere della sera compie proprio in questi giorni 130 anni e lo fa entrando a gamba tesa nel campo infuocato della campagna elettorale, con un inaspettato editoriale del direttore Paolo Mieli, che schiera il suo giornale in maniera inequivocabile con l'Unione.
Una lista di "buoni e cattivi" che ha scatenato subito una raffica di dichiarazioni e prese di posizione di tutto l'arco parlamentale, anche perché è nelle convinzioni di molti che questa chiara indicazione di voto vada ben oltre il pensiero di chi l'ha scritta, o del gruppo che la sostiene, rappresentando invece un significativo segno di questi tempi elettorali.
Il Corriere non è La Repubblica, da sempre meno distaccata e più netta nella scelte di campo e Paolo Mieli non è Umberto Eco, il quale peraltro ha appena lanciato un appello sui rischi della democrazia italiana in caso di una nuova vittoria di Berlusconi.
Anche se, a sentire le reazioni dei corifei del berlusconismo, il Corriere della sera è invece ormai qualcosa di molto simile all'Unità (offesa suprema ai loro occhi - s'intende) mentre Ferrara, dalle colonne del Foglio, se la prende anche con il comitato di redazione di quel giornale che ha sottolineato poco dopo la richiesta di un'effettiva - e non scontata - coerenza editoriale di tutto il giornale con le scelte del direttore.
"Siamo ormai al MinCulPop" tuona l'elefantino berlusconiano, mentre altri promettono boicottaggi in edicola. Questa volta, infatti, per la destra la mossa è difficile da digerire, proprio perché è la storica borghesia milanese a scaricare nel peggiore dei modi il Cavaliere, con l'evidente beneplacito di grandi azionisti come la Fiat, a sua volta proprietaria de La Stampa, il cui direttore Giulio Anselmi ha già annunciato che, poco prima delle elezioni, manifesterà un'analoga scelta filo-unionista, mentre quello del Messaggero, Paolo Gambescia, ha addirittura lasciato la direzione per correre con i Ds.
E tutto questo, del resto, dopo lo smacco che Berlusconi aveva già subito anche da parte della Confindustria, con un Montezemolo che sorride sempre di più alle ricette economiche prodiane, con particolare riferimento all'annunciato taglio di cinque punti sul costo del lavoro.
Sono quindi tasselli molto importanti dei cosiddetti "poteri forti" - i "gruppi d'interesse" per meglio dire - ad invadere prepotentemente il campo, delusi a fine legislatura dalla riforma liberale sognata e mancata, dunque desiderosi di accordare molti crediti al centro-sinistra, perché questo protegga i loro interessi, come invece non è riuscito a fare in tutti questi anni Berlusconi, impegnato com'era nel fare approvare leggi ad personam.
Interessi particolari contrapposti ad altri interessi particolari, sarebbe più corretto dire, con la presunzione di Mieli e Confindustria di interpretare quelli generali, cosa che non è affatto sicura.

Ben altri interessi, ma analoghe scelte di campo, sono invece quelle dei sindacati confederali.
La Cgil appoggerà naturalmente l'Unione nelle imminenti elezioni, ma il suo recente Congresso, all'insegna di una ritrovata "autonomia", ha positivamente sancito la fine di formule come quella del "governo amico", che nella passata legislatura di centro-sinistra avevano portato questo sindacato ad essere poco più di una cinghia di trasmissione dei partiti dell'esecutivo. Dal canto loro, Cisl e Uil hanno da tempo rielaborato il lutto del famoso "Patto per l'Italia" firmato a suo tempo con il centro-destra appena fresco di nomina.

Ma la "scelta del 9 Aprile" (questo il nome dell'editoriale di Mieli) rappresenta molto più che una presa di posizione elettorale, essendo anche un'utilissima radiografia del centrismo finanziario che in questa occasione guarda a sinistra, senza nemmeno il bisogno di "turarsi il naso".
Il Direttore del Corriere è persona molto intelligente e astuta da non far pensare che non ci sia dietro un preciso disegno che si dispiegherà più compiutamente durante la prossima legislatura.
Questa linea per ora traspare dai giudizi dettagliati che ha dato sulle varie forze politiche analizzate, e persino su quelle mancanti, scegliendo scientemente di non considerarle.

Non c'è traccia, infatti, nella sua analisi politica, di Lega Nord, Italia dei Valori, Verdi e Pdci, per citare i partiti più rilevanti in quanto a peso elettorale, mentre vengono promossi a pieni voti La Rosa nel Pugno, la Margherita e i Ds, tutti con la medesima argomentazione.
Post-comunisti e post-democristiani, agli occhi del Corriere, hanno compiuto l'importante scelta di abbandonare gli storici steccati ideologici o confessionali, trasformandosi in forze promotrici di istanze liberali, in vista del matrimonio - tutt'altro che scontato e verso il quale Mieli punta - sotto le colonne barocche del Partito Democratico, magari ricordandosi - è un suggerimento tra le righe - dei testimoni di nozze, vale a dire i radicali che stanno con Boselli.

Anche Rifondazione viene omaggiata per la scelta, ribadita a più riprese, della "non-violenza".
Non a caso nella linea bertinottiana pre e post-Congresso di Venezia, la non violenza non ha significato soltanto un modello di lotta gandhiano piuttosto che il rifiuto esplicito di ogni politica guerrafondaia, ma è stato anche il grimaldello per far entrare il suo partito nella logica dell'alternanza bipolarista.
Proprio quel bipolarismo che, fino a qualche anno fa, Bertinotti valutava come una "gabbia da rompere".

Sul fronte del centro-destra, al giudizio impietoso sull'operato del governo, qui evidentemente addebitato al solo Berlusconi, si aggiunge la beffa che sta nell'esplicita manifestazione di speranza che i voti degli elettori della Cdl vadano a premiare i partiti di Fini e Casini perché "possano aiutare il loro campo e l'intero sistema ad evolversi in vista di un futuro nel quale gli elettori abbiano l'opportunità di deporre la scheda senza vivere il loro gesto come imposto da nessuna altra motivazione che non sia quella di scegliere chi è più adatto a governare."
La fine dell'anomalia berlusconiana, insomma, e una consegna impegnativa nelle mani di quel che resterebbe del gruppo dirigente di centro-destra, dato che la Lega ha già annunciato di sentirsi "libera" dagli accordi precedenti con la Cdl, in caso di sconfitta elettorale.

Quello che al momento è più significativo però, sta nel fatto che una grande fetta dei poteri forti ha scelto nel futuro Partito Democratico la proprio base d'appoggio, perlomeno fino alla scomparsa del berlusconismo, impegnandosi a sottolineare più volte la propria fede nello schema "centro-sinistra versus centro-destra", fuori da logiche di ricomposizione centriste e "grandi coalizioni" in stile tedesco.
Così facendo, con un appoggio anticipato e trasparente, ma anche ricco di interessi e secondi fini, questi hanno assicurato un appoggio decisivo ad un Prodi che su questo sistema fonda la sua autorità e necessità. Un Prodi che pare quindi enormemente fortificato dal consenso a tempo determinato di sindacati, rinomati intellettuali, grandi quotidiani, e larghi settori imprenditoriali che, pur con forti scontri, si ritrovano rappresentati dalla Confindustria di Montezemolo.
In tempi di precariato anche Prodi dunque sarà un possibile Premier Co.co.co., che dovrà muoversi senza troppi passi falsi tra una serie di interessi plurimi, spesso in contrasto tra di loro.

Tuttavia al momento non è affatto detto che la somma di tutti questi addendi - grosse porzioni della società organizzata - dia all'operazione il risultato sperato e il segno giusto.
Non essendo mai stato risolto il conflitto di interessi radio-televisivo, in un tempo in cui la Tv gioca un ruolo ben più importante di quello della carta stampata, c'é sempre l'eventualità che prevalga il populismo tele-promozionale di Berlusconi, il quale basa la sua forza sull'enorme livello di persuasione nei confronti degli incerti e degli a-politicizzati. Va detto che a tal proposito è già pronto il seguito aggiornato del suo noto testo propagandistico "Una storia italiana" che questa volta si chiamerà "La vera storia italiana", naturalmente in distribuzione nelle migliori cassette postali.

Ad ogni modo, anche in vista dell'annunciato e atteso duello televisivo tra i due sfidanti, Prodi, in questa occasione, potrebbe sfruttare a pieno regime l'effetto bandwagon - vale a dire la progressiva salita di importanti settori della società sul previsto carro del vincitore, cioè il suo - mentre Berlusconi potrebbe altresì insistere nella ricerca ossessiva dell'effetto underdog - che al contrario favorisce chi sembra perdente - puntando dunque sulle sue stantie e stranote accuse alla sinistra e quindi ai "comunisti", rei di controllare militarmente le procure della Repubblica, gli asili nido, e questa volta anche i principali quotidiani del Paese; quindi l'informazione tout court.
Perché nella sua mente non esiste l'ipotesi del fallimento di fronte alla maggior parte degli italiani, i quali si sono impoveriti mentre lui arricchiva enormemente il suo patrimonio e le sue proprietà, ma solo la denuncia della congiura di una sinistra che manderebbe finti pensionati a lamentarsi del governo sugli autobus al ritorno dal lavoro.

Tuttavia, se Prodi riuscirà a non farsi dettare l'agenda dal rivale, tenendo conseguentemente fissa la barra del discorso su un concreto programma di centro-sinistra di re-distribuzione dei redditi, lotta all'evasione fiscale e sviluppo, denunciando con fermezza i pessimi risultati ottenuti dal Governo in tutti i campi, sulla "crescita zero" in economia, sulle fallite politiche di controllo dell'immigrazione e, ancora, sulla contemporanea sudditanza acritica a Bush nel contesto della guerra in Iraq, ebbene questo Prodi dovrebbe aver gioco facile con il Cavaliere anche in un previsto confronto diretto televisivo, che pure - in quanto a mero appeal mediatico - certamente non lo favorisce.

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