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di Fabrizio Casari
Altri tempi quelli nei quali Zico e Falcao, Ronaldo e Mathaus, Ibrahimovic ed Eto’o facevano carte false per venire a giocare in Italia. Si diceva, allora, che il nostro era il campionato più interessante al mondo, nonostante Calciopoli. Finiti quei tempi? Per ora finiti i “piccioli”, che forniscono sempre le motivazioni profonde dei campioni del pallone.
Da un paio d’anni a questa parte sono i nostri talenti ad emigrare: da Eto’o a Pastore e Thiago Motta, ed ora a Lavezzi, Ibrahimovic e Thiago Silva, Borini e Verratti (e forse Snejider), gli addetti alla classe pura, gli uomini che “fanno reparto da soli”, che “cambiano le sorti di una partita con una giocata” e via incensando, fanno le valigie e lasciano il Belpaese. Seguiti o anticipati, a seconda dei casi, dagli allenatori migliori che l’Italia ha sfornato: Capello, Mancini, Spalletti, Ancelotti.
Certo: regime fiscale e mancanza di stadi di proprietà, peso degli ultras, ridotto merchandising e norme sorpassate non aiutano il calcio italiano ad evolversi e non sono certo dei buoni campionati europei che possono invertire la tendenza. Si potrà legittimamente pensare che gli investimenti miliardari nel resto d’Europa hanno il carattere della volatilità e che l’espansione verso ogni paese del flusso di denaro genererà, nel medio periodo, un tourbillon di giocatori che impediranno il formarsi di realtà stabili.
Ma intanto l’entrata in scena di sceicchi arabi e petrolieri russi, che ha trasformato i Berlusconi, gli Agnelli e i Moratti in signori appena benestanti, ha alterato profondamente gli equilibri calcistici europei, con una Premier League ed una Liga che surclassano la nostra Serie A, mentre la Premiere League francese e la serie A russa provano a fare capolino nel calcio che conta. Dovranno passare ancora molti anni prima che in Russia si veda un calcio affascinante e che il calcio francese diventi più attraente di quello italo-iberico o anglosassone, però non c’è dubbio che la tendenza generale è cambiata, dal momento che i sentimenti non lo sono affatto: si va dove ti porta il portafogli.
Anche perché si è sollecitati al viaggio dai cosiddetti “procuratori”, che sguazzano in questa partita di mercante in fiera come squali tra i lucci e strappano percentuali milionarie per ogni passaggio dei loro assistiti. Nel circo Barnum del calciomercato godono tutti: i procuratori che guadagnano, i giocatori che incrementano, i direttori sportivi che si agitano molto e cercano di farsi la nomea di “Re del mercato” con la quale poi riciclarsi altrove per incrementare stipendio e ruoli; i presidenti che si fingono mecenati e tengono buoni la tifoseria ricavandone immagine pubblica e peso specifico nel sistema; i giornalisti che spacciano chiacchiere per confidenze esclusive e diventano “specialisti”; i giornali che vendono copie perché quando il calcio è mercato, vincono tutti e non perde nessuno.
D’altra parte il mercato, quando parla italiano, risulta almeno bizzarro. Davvero si ritiene che un giocatore senz’altro di prospettiva come Verratti valga un investimento pesante in tempi di fair play finanziario? O che Destro, ottimo attaccante del Siena (ma non altrettanto nel Genoa) valga sedici milioni di euro? Su Destro si è scatenata un’asta tra Juve, Inter, Roma e Milan, con i giallorossi in pole position, ma sedici milioni di euro per un buon girone di ritorno in una provinciale si possono giustificare solo con un atto di fede. Giocare a Siena non è lo stesso che farlo a Milano, Torino o Roma, men che mai in Europa.
Il suddetto quadro genera ansia tra gli osservatori, eppure a ben vedere si potrebbero trovare motivi di soddisfazione. In primo luogo potremo risparmiarci le consuete apparizioni televisive dei neo acquistati che giustappunto ricordano che sin da bambini facevano il tifo proprio per la squadra che li ha appena ingaggiati; che fanno le foto con le nuove maglie e sorrisi pari agli emolumenti o che, addirittura, cambiano casacca e, giacché ci sono, pure opinioni.
L’ultimo è stato Lucio, che arrivato a prezzi di saldo dal Bayern Monaco all’Inter, con la casacca nerazzurra è diventato un giocatore vincente: il Triplete ed altri trofei (campionato del mondo per club) non li aveva mai vinti con le squadre dove aveva militato. Ebbene, nonostante ciò Lucio ha scelto le parole più acide e ridicole verso l’Inter, ammettendo a denti stretti che trescava con la Juventus già da Giugno scorso.
Marotta magari nell’occasione non avrà avuto da ridire circa l’avvicinamento ad un tesserato di un altro club senza il permesso, ma la Juventus, come è noto, ha una decisa difficoltà ad interpretare i regolamenti quando non le conviene.
Ma Lucio, che fino a tre mesi prima cantava “senza rubare, vinciamo senza rubare” o “chi non salta bianconero è”, improvvisamente si scopre ultras juventino e parla di scudetti di cui non conosce nulla. Perché? Per due milioni e mezzo di euro all’anno: vi sembrano pochi? Non sufficienti a sputare nel piatto dove si è mangiato?
Beh, questione di stile come diceva la canzone. E forse anche di scarsa conoscenza della matematica, giacchè il difensore brasiliano era il più scatenato nei festeggiamenti per il 18° scudetto dell'Inter. Pugni sul cuore e baci sulla maglia nerazzurra con commozione annessa. Ma se l'Inter di scudetti ne ha 18, la Juve non può averne 30. Glielo hano spiagato a Vinovo mentre l'istruivano su cosa dire ai media?
Certo, molti altri hanno lasciato l’Inter o il Milan o la Juventus senza per questo schizzare fango appena firmato il nuovo contratto, ma stiamo parlando di fuoriclasse, non di campioni. Lucio si è sempre detto un atleta di Cristo, calciatore fedele a Dio. Il dio denaro?
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di Silvia Mari
La domanda è arrivata in conferenza stampa alla vigilia della partita con la Croazia e Cassano, scivolando anche su qualche congiuntivo e su un incipit bizzarro tipo “se penso quello che dico”, ha dato fondo alle sue riflessioni sul tema dell’omosessualità nel mondo del calcio. Li chiama froci e non omosessuali, attingendo tutta l’ispirazione al linguaggio offensivo e insultante della strada. Prosegue con risatina da macho che la sa lunga e afferma “problemi loro”, augurandosi di non trovarseli in Nazionale. Mancava la battuta sul bagno e sulla saponetta per completare il corollario dei più osceni e volgari luoghi comuni.
Non ci aspettavamo certo un’argomentazione di rilievo da un uomo che sa giocare a pallone e non risulta sappia fare molto altro. Non proprio a dire il vero. Si era cimentato persino scrittore, narrando le sue gesta di amatore seriale. Ma se quel mostro letterario gli è stato perdonato dalla moglie Carolina problema non si pone.
Quel che Cassano sa bene è di essere un mito sportivo nazional-popolare, beniamino di moltissimi giovani tifosi e di avere un potere di comunicazione, nonostante le cose che dice e come le dice. Quando si è mediaticamente esposti la cautela dovrebbe essere la parola d’ordine, prima ancora di decidere di dire tutto quello che si pensa e magari di farlo con toni e modi non proprio di stile. Non è questione di sintassi, ma è rischio di condizionamento e di cattivo esempio.
Subito sono partite operazioni di biasimo e di dissociazione. Non a caso proprio Prandelli, ct della Nazionale, aveva non molto tempo fa espresso desiderio di apertura e non discriminazione nei riguardi dei calciatori omosessuali. Al calcio non fa differenza il gusto sessuale, come per niente altro e, a quanto pare, nemmeno troppo l’intelligenza e l’istruzione.
A chi lo difende con la tesi della sincerità e il valore dell’estemporaneità che tanto fa breccia nelle tv degli italiani modellate sullo spirito dei reality, andrebbe ricordato quale è il valore dello sport. Quella scuola di inclusione e rispetto, quella filosofia di lealtà e di spirito di squadra che in una battuta da bullo il mito del Milan ha buttato via.
E così al calcio nazionale, funestato dall’ombra della corruzione, mancava solo una definitiva caduta di stile per ricordarci quanto sia tutto troppo lontano dalla bellezza dello sport. Anche un calciatore di talento, un fuoriclasse vero che ancora una volta manca l’occasione di dimostrarsi un vero campione.
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di Fabrizio Casari
La Domenica dell’addio di tanti campioni ha sbattuto con violenza mediatica la carta d’identità del nostro campionato mediocre. Lacrime, applausi, dichiarazioni e lettere d’addio sono state la scenografia obbligata per la fine di un torneo che per molti aspetti ha segnato la fine di un ciclo storico del calcio italiano.
Si è concluso con l’addio di tanti giocatori che hanno in parte rappresentato il mondo delle all stars di questi ultimi quindici anni: Del Piero, Inzaghi, Gattuso, Nesta, Zambrotta, Cordoba ed altri hanno infatti rappresentato una parte non secondaria della qualità del calcio italico nei campionati e nelle competizioni internazionali.
L’abbandono più doloroso è stato proprio quello di Del Piero; ma mentre Gattuso e Nesta, Zambrotta e Inzaghi scelgono volontariamente di farsi da parte, Del Piero é stato cacciato dalla dirigenza juventina. Non é una differenza irrilevante e qualifica in senso negativo le scelte di casa Agnelli, dove una dirigenza incapace di essere grande nel momento del trionfo non ha voluto e saputo offrire un altro anno da capitano al suo giocatore più rappresentativo.
Del Piero, infatti, oltre a rappresentare insieme a pochi altri la cifra tecnica italiana migliore per tanti anni e ad aver offerto prove di fedeltà assoluta ai colori della Juventus, è uno dei calciatori italiani più corretti e tra i pochissimi in grado di declinare una frase in italiano. Davvero meritava un altro anno a Torino e chissà che quella che ormai a Milanello chiamano sindrome Pirlo il prossimo anno non venga affiancata a Vinovo dalla sindrome Del Piero.
E’ comunque stato l’anno che ha visto la Juventus tornare alla vittoria, dopo il lungo purgatorio post-calciopoli. Una vittoria meritata che ha nella infinita querelle legale da parte del rampollo di casa Agnelli l’elemento più penoso, anche perché mai si è sentita, da parte della famiglia, la necessità di chiedere scusa per quello che i vertici dei bianconeri condannati in ogni grado di giudizio fino ad ora celebrato hanno inflitto al calcio italiano.
Altro che stelle e stelline: qualcuno, causa Moggi, Giraudo e altri, proprio sul campo si è visto privare di vittorie e, prima ancora, di giustizia, essenza stessa - quest’ultima - di ogni competizione. Proprio sul campo quella macchina indegna gestita da Juventus e Milan ha impedito per diversi anni la regolarità della competizione sportiva.
L’ultima giornata doveva comunque emettere due verdetti: quello per la zona Champions e Europa League e quello per la retrocessione. La lotta per l’ingresso in Europa più importante ha visto prevalere l’Udinese e, in fondo, per quanto visto nel corso della stagione, il verdetto é giusto.
Quello appena finito è stato comunque un anno di scarso valore tecnico, caratterizzato da polemiche arbitrali e panchine saltate, e che ha visto sì la Juventus imbattuta, ma anche con un numero di vittorie (e di punti) minore degli anni scorsi. La stagione appena finita, poi, ha le sue riconferme (l’Udinese, che migliora la sua classifica rispetto all’anno precedente pur avendo venduto i suoi pezzi migliori) e le sue delusioni: Milan, Inter, Roma e Fiorentina sono le squadre cui è possibile intestarle.
Ha significato la fine del ciclo vincente interista; la squadra di Moratti non mancava la partecipazione alla Champions da undici anni. L’Inter ricomincerà da quello di buono che si è visto da quando Stramaccioni è arrivato sulla panchina. Si trova di fronte alla necessità di dover rinnovare in profondità ma senza avere le risorse economiche per innestare grandi campioni. Per Moratti si apre una strada che forse varrebbe la pena percorrere: nei dieci livelli di calcio regolamentari, dai pulcini alla Primavera, l’Inter è la prima squadra ovunque; dunque in assenza di un portafoglio adatto all’ingaggio di fuoriclassei sembrerebbe ovvio ricorrere ai giovani di talento che si hanno in casa, corroborandoli con tre o quattro acquisti di alto livello con cui ripartire.
Il Milan, che ha salutato tanti suoi giocatori famosi che molto hanno dato alla causa rossonera e al calcio italiano, dovrà sostanzialmente ricostruire grande parte dell’impianto di squadra e la capacità di dotarsi di giocatori all’altezza delle ambizioni è necessaria, anche per convincere Ibrahimovic a rimanere a Milano. La riconferma di Ibra, la capacità cioé del club di Via Turati di reagire al canto delle sirene che viene dal Real Madrid ad insidiare il fuoriclasse svedese, sarà la prima dimostrazione pratica di come Galliani intenderà procedere. Ben altro che Montolivo serve al Milan.
Il Napoli, protagonista di un’annata con alti e bassi, ha comunque svolto un buon campionato, evidenziando semmai come il suo straordinario attacco ed un centrocampo di qualità e corsa abbiano risentito di una fase difensiva lacunosa, primo elemento da correggere in sede di mercato estivo. Se Lavezzi dovesse partire, il trio delle meraviglie verrebbe ridotto a duetto, non è certo il pur positivo Pandev a garantire un campionato ad alti livelli.
La Lazio, che pure ha fatto un buon campionato, ha pagato la mancanza di rinforzi a Gennaio, che l’hanno costretta a giocare senza titolari e prime alternative in diverse occasioni causa infortunio dei titolari. Il suo presidente è stato decisivo - in negativo - nel privare al momento giusto la squadra di Reja del carburante necessario a proseguire la corsa. Ciononostante, il piazzamento della Lazio non va disprezzato e Reja, nonostante i tira e molla con Lotito, dovrebbe poter essere riconfermato alla guida della squadra. Urgono però due rinforzi in attacco per sostituire Klose e Rocchi e uno almeno due centrocampo per sostituire Brocchi e Hernanes.
La Roma con Montella vedrà probabilmente un cambio di direzione rispetto al modello di gioco disegnato da Luis Enrique e la possibilità di correggere gli errori di mercato con tre o quattro elementi di spessore può disegnare una squadra di sicuro interesse. Sarà forse l’ultimo anno di livello assoluto di Francesco Totti e pensare fin da ora a come sostituirlo non sarà semplice. La querelle con Pulvirenti andrà sistemata con giocatori o soldi, mentre la via del ritorno dai prestiti di alcune scelte di Luis Enrique dovrà essere affollata. Molti dei Primavera della Roma sono decisamente migliori dei vari Josè Angel, Bojan o Cicinho.
La Fiorentina deve davvero ricostruire tutto e partire da Oriali sulla plancia di DG sarebbe cominciare con il piede giusto, mentre desta qualche perplessità l’arrivo di Ranieri, soprattutto se si vuole attingere dal vivaio una parte dei rinforzi. Lo scontro tra la famiglia Della Valle e la tifoseria dovrà però essere risolto, pena non vedere la luce fuori dal tunnel.
E’ stato anche l’anno che ha visto emergere nuovi giovani allenatori italiani di sicuro avvenire: da Conte a Sannino, da Montella a Pioli, da Stramaccioni a Colantuoni, il mestiere di allenatore sta diventando un fiore all’occhiello (forse l’unico) per il nostro calcio. Lo stress denunciato da Guidolin e Luis Enrique, però, è l’altra faccia della medaglia di un mestiere che ormai denuncia l’esasperata tensione con la quale si allena. Detto ciò, lo stress che ci preoccupa non è mai stato quello dei miliardari.
E’ finito poi un campionato infamato come mai dallo scandalo del calcio-scommesse che, per l’ampiezza numerica di squadre e giocatori coinvolti, sembra rappresentare la cifra esatta, o forse sottostimata, della dose di marcio che attraversa il calcio italiano.
La classifica finale, visibile da ieri, rischia però di venire in parte modificata dalla giustizia sportiva, chiamata a pronunciarsi a seguito della chiusura delle inchieste che da Cremona a Napoli entro la fine del mese verranno presentate anche al vaglio degli organi federali. Sono decine i giocatori, le partite e le squadre oggetto delle diverse inchieste e tutto lascia pensare che quello che sta per avventarsi sull'Italia del pallone sarà un vero tsunami. La speranza é che la giustizia non faccia sconti a niente e a nessuno.
Si passa ora alla Nazionale. Prandelli ha diramato la lista dei primi 32 giocatori da portare all’europeo e sono poche le obiezioni che si possono muovere alle scelte del CT. Ci sarà modo e tempo per tornarci su, ma ci piace chiudere, oggi, salutando la fine di un torneo che non ci è piaciuto e dolendoci, ancora una volta, di aver dovuto assistere, tra tanta mediocrità, anche a una tragedia: quella della fine assurda e infame di Piermario Morosini.
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di Fabrizio Casari
Quello appena assegnato alla Juventus è il suo ventottesimo scudetto. Meritato: per il gioco espresso, per la grinta dimostrata, per il furore agonistico applicato, per la capacità del suo allenatore di cambiare moduli adattandoli alle caratteristiche dei giocatori. Perché i veri guru della panchina sono coloro i quali lontani dall’integralismo dei loro intimi convincimenti, sanno fare il pane con la farina che hanno in casa. Conte può ben assegnarsi l’ago e il filo con il quale ha cucito lo scudetto alla sua squadra. Che partiva dal settimo posto dell’anno scorso e che quindi si è dimostrata capace, in un solo campionato, si sovvertire letteralmente lo status ereditato prima dell’arrivo dell’allenatore salentino.
Certo, il non dover giocare in Europa ha certamente avvantaggiato i bianconeri, ma va anche riconosciuto che la tenuta fisica della squadra è stata garantita da un lavoro attento e scrupoloso dei preparatori atletici. Meriti vanno anche a chi ha deciso di impostare una squadra vincente con una rosa provvista solo di due grandi campioni (Buffon e Pirlo) e di molti buoni giocatori.
Decisiva è stata la capacità d’individuare in Vidal l’acquisto giusto per il centrocampo e alcuni rinforzi dimostratisi straordinariamente utili, come Barzagli e Vucinic in primo luogo. Pirlo, Vucinic, scaricati in fretta da Milan e Roma, sono state le armi decisive di questo scudetto e persino Borriello, ceduto a prezzi da serie D, ha portato il suo contributo alla causa. In particolare Pirlo, che ha preso in mano la squadra e l’ha dotata di gioco, prematuramente ceduto da Milanello proprio in nome di quell’integralismo di cui si parlava prima, ha illuminato la Juventus.
Due le ombre sulla festa juventina: la prima è l’addio di Alessandro Del Piero, che della squadra torinese è stato il fuoriclasse assoluto, l’immagine stessa di una squadra che ha nella disputa delle posizioni di vertice del calcio italiano il suo DNA.
Poteva e doveva finire diversamente la storia d’amore tra Del Piero e la Juve; perché i simboli non si cancellano per ragioni di bilancio e perché in quanto a esperienza, classe e capacità di risolvere le partite più difficili Del Piero sarebbe la chioccia adatta per una squadra che affronterà la Champions senza una grandissima esperienza internazionale in diversi dei suoi giocatori. Davvero un milione di euro all’anno d’ingaggio valgono una pagina strappata del libro di storia della Juve?
La seconda è la presunta intenzione di apporre la terza stella sulle maglie, scegliendo di considerare come verità non quella ufficiale, sancita da sentenze sportive e ribadita in sede penale e civile, ma quella dei tifosi indifferenti alla verità, intenti solo a curarsi dei loro personalissimi sentimenti. Se così dovessero procedere tutti, ognuno potrebbe scegliere il suo profilo indipendentemente dalle decisioni formali. Moratti potrebbe dire di averne due in più come minimo, la Roma almeno uno, e tantissime altre potrebbero avanzare richieste diverse da quanto legittimamente decretato.
L’idea che gli organi competenti possano essere interpellati formalmente e poi, a risposta non gradita, possano essere ignorati sostanzialmente, è ridicola prima che sbagliata. Difficile che Lega e Figc possano soprassedere e che la Uefa del tifosissimo Platinì - che non smette mai di fare l’ultrà juventino, a dispetto del suo ruolo super partes - possa stendere le famose fette di prosciutto sugli occhi davanti a violazioni evidenti delle norme. L’indifferenza per le regole, questa sì, sembra dunque caratterizzare il filo che lega la vecchia Juve a quella nuova e davvero non ce ne sarebbe bisogno.
La vittoria della Juve è stata soprattutto la sconfitta del Milan. I quattro ceffoni presi dall’Inter nel derby, nonostante un arbitraggio scandaloso da parte di Rizzoli, hanno determinato la fine del campionato con un giornata d’anticipo. L’arbitraggio di Rizzoli è stato improntato al modello Rocchi, solo con minore arroganza. E non è la prima volta che l’arbitro favorisce smaccatamente il Milan nei derby: nella finale di Supercoppa aveva annullato un gol regolare di Eto’o e regalato quello di Boateng, non fischiando un fallo evidente dal quale era partita l’azione del gol rossonero. E, va ricordato, all’Inter sono stati negati tre gol regolari negli ultimi quattro derby (ultimo fino a l’altro ieri quello di Thiago Motta nel derby d’andata, comunque vinto dall’Inter), dove invece sono stati abbondanti i penalty a favore del Milan, alcuni dei quali - come domenica sera da Rizzoli - palesemente inventati.
Un rigore enorme a favore dell’Inter per fallo doppio su Samuel in area del Milan non fischiato, un gol regolare di Cambiasso, un rigore inventato per il Milan con ammonizione di Julio Cesar che dovrà saltare l’ultima di campionato con la Lazio, poi una serie di cartellini evitati al nervosismo dell’Inter per tentare di compensare gli errori commessi.
Rizzoli, come Rocchi, vede cose che nessuno vede e non vede cose che tutti vedono. A differenza di Rocchi, però, Rizzoli non sbaglia perché incapace, ma perché fuori forma. Rocchi, invece, che ieri ha regalato alla Lazio la vittoria, negando due rigori all’Atalanta, ha ben altre ragioni nel suo arbitrare scandaloso.
L’Inter che ha strapazzato il Milan è, sempre più, la carta d’identità di Stramaccioni, che ha dimostrato di saper rivitalizzare la squadra, darle un gioco offensivo e una solidità caratteriale come non la si vedeva dai tempi di Mourinho. L’augurio è che Moratti si sbrighi a riconfermarlo, prima che qualche presunto guru da un altro pianeta venga a proseguire la lista degli allenatori ingaggiati e poi esonerati sulla panchina nerazzurra.
Con l’addio di Cordoba, che ha seguito quello di Materazzi, sarebbe bene che l’Inter sciogliesse anche il legame con alcuni dei suoi senatori, proponendogli di restare solo a condizione di accettare la panchina. Perché i nerazzurri hanno bisogno di ragazzi che corrono e che giocano al calcio con entusiasmo, fame di vittorie e voglia di emergere. L’ossatura dei giovani in forza alla squadra è già di tutto rispetto e tre o quattro inserimenti, oltre al rientro di Coutinho, saranno sufficienti - con Stramaccioni in panchina - a rendere di nuovo l’Inter una squadra in grado di primeggiare.
Nella prima serata di Milano, intanto, l’immagine che veniva in mente era quella di una squadra superfavorita e convinta della sua superiorità, andata però a sbattere contro una realtà molto, molto diversa. Nella seconda serata, invece, i simboli facevano da sfondo: Ibra e Muntari, che lasciarono l’Inter non senza schizzare veleno (Muntari in particolare), vedono i nerazzurri che gli strappano lo scudetto e trovano sui monitor il volto raggiante di Pirlo e Borriello che gli ricorda di quale abilità manageriale ci sia bisogno per primeggiare.
Perché il Milan ha perso lo scudetto con l’Inter, certo, ma prima ancora con la pianificazione di una squadra che ha avuto sempre e solo un modo di giocare: palla a Ibra e vediamo se segna. L’altro schema preferito era l’attesa del solito favore arbitrale, concretizzatisi in un numero di rigori a favore che rappresenta un record. Ma il Milan ha perso perché è naufragato un progetto di squadra e di società , a cominciare dal fallimento di Milanlab (mai tanti infortunati cronici nella squadra), agli errori di mercato (vendere Pirlo e acquistare Muntari e Mexes..) con lo scontro sugli assetti societari (vedi le liti interne su Pato e Tevez ) e una guida tecnica assolutamente non in grado di offrire soluzioni e moduli di gioco alternativi in assenza di tutti gli effettivi.
Si pensava forse che Ibra fosse sufficiente a vincere in Italia, perché l’Inter già dallo scorso anno era con i lavori in corso dopo la galoppata dei diciassette titoli in cinque anni, perché il Napoli aveva la Champions e perché la Juventus poteva al massimo scalare due o tre posizioni rispetto al campionato precedente. Insomma è sembrato che i conteggi fossero fatti più sui limiti altrui che sulle proprie forze.
E forse il peggio deve arrivare: molto ci sarà da fare con la maggior parte dei suoi campioni da pensionare e le seconde scelte decisamente al di sotto del minimo necessario. Avrà i soldi, la capacità e la volontà di farlo? Riuscirà a tenersi Ibrahimovic che già scalpita? Il Milan non può permettersi altre annate di transizione, visto lo score assai magro degli ultimi anni.
Il prossimo turno stabilirà quali sarà la squadra che andrà in Champions League insieme a Juve e Milan e chi approderà in Europa League. Ma non è detto che sia il campo a stabilire la classifica finale: entro 48 ore si attende la chiusura dell’inchiesta sul calcio scommesse e la conseguente apertura dei procedimenti della giustizia sportiva. Alcuni anni dopo Calciopoli, molti anni dopo i precedenti scandali del calcio-scommesse, saranno di nuovo le toghe e i tavoli a sostituire il manto verde nella scrittura delle sentenze.
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di Fabrizio Casari
A sole tre giornate dalla fine del campionato, la sfida a distanza tra Juventus e Milan non cambia la classifica. Tre erano e tre sono i punti di distanza tra la squadra di Conte e quella di Allegri che insegue. Intento comunque vincono entrambe: la Juventus seppellisce con quattro gol il Novara già retrocesso e il Milan batte con altrettanti gol il Siena in trasferta. Sugli scudi Vucinic e Borriello per i bianconeri e Ibrahimovic e Cassano per i rossoneri.
Il rientro a grandi livelli di Cassano è proprio la nota lieta della giornata: per lui, per la sua squadra e anche per Cesare Prandelli, che in attesa di sciogliere gli ultimi dubbi su chi convocare per gli europei, ritrova il fuoriclasse barese per l’attacco della nazionale. Si potrebbe discettare a lungo circa Cassano e Balotelli in termini di solidità caratteriale, elemento fondamentale in un torneo intenso, difficile di breve tempo, ma certo che sul piano del talento e della classe pura, dell’imprevedibilità e della capacità di risolvere le partite, la coppia di attaccanti appare in grado di permetterci di gustare un europeo all’altezza delle ambizioni.
Della vittoria juventina c’è poco da dire, se non che il motore continua a girare a mille. La decisione di Conte di cambiare coppia di attaccanti ad ogni partita si rivela azzeccata e la grinta di Marchisio e Vidal, con la regia di Pirlo, mostra una squadra che gioca molto bene, offre diverse soluzioni d’attacco e non subisce quasi mai l’iniziativa dell’avversario. Il Milan, dal canto suo, non ha mai giocato male, anzi: offre un calcio esteticamente persino più bello di quello juventino, ma con meno soluzioni nella manovra che non sia la ricerca di Ibra per finalizzare.
E se Conte deve ringraziare Marotta per avergli portato Pirlo in dote, cui è stata affidata chiavi in mano la cabina di regia e Vucinic e Borriello, utilissimi in questo finale di stagione, Allegri deve ringraziare Galliani per avergli fatto arrivare Nocerino, una sorta di Gattuso con maggiore qualità tecnica che sopperisce al ritmo più blando del resto dei centrocampisti rossoneri. Difficile che le sorti del torneo possano essere rimesse in discussione a questo punto, ma la matematica dice che i punti a disposizione sono nove e che il vantaggio juventino è di tre. Peraltro la Juventus godrà di un calendario più agevole di qui alla fine, mentre il Milan avrà il Derby alla penultima giornata.
Decisamente più incerto, invece, l’esito della lotta per il terzo posto, che significa l’accesso alla Champions League. La vittoria dell’Inter sul Cesena, il pareggio del Napoli con la Roma e la vittoria dell’Udinese sulla Lazio pongono quattro squadre tutte a 55 punti. Tra Inter e Lazio, all’ultima di campionato, l’unico scontro diretto in calendario, ma se tutte procedessero con la stessa velocità da qui alla fine, passerebbe il Napoli per la classifica complessa. Le prossime gare vedranno il Napoli battersi contro Palermo e Siena in casa, Bologna in trasferta; la Lazio avrà come avversarie Siena e Inter in casa e Atalanta in trasferta; l’Udinese se la vedrà con il Genoa in casa e Cesena e Catania in trasferta; l’Inter affronterà il Parma e la Lazio in trasferta e il Milan in casa, per quanto possa essere in casa un derby. Dunque il calendario più difficile attende i nerazzurri.
A Udine un episodio ridicolo pone la Lazio sull’orlo di una crisi di nervi, con Dias espulso e Marchetti che lo sarà per una spinta all’arbitro Bergonzi. La Lazio, udito un fischio, si è fermata pensando fosse quello dell’arbitro, che però non aveva nemmeno avvicinato il fischietto alla bocca: Gonzales si ferma, Marchetti (perché?) si butta a terra e Pereyra segna un magnifico gol.
I biancoazzurri si scatenano contro l’arbitro che però convalida (giustamente, non aveva fischiato e dunque perché avrebbe dovuto fermare l’azione?) e da lì nasce una semi rissa che prosegue anche negli spogliatoi. Il fischio proveniva dalla tribuna e il boato del pubblico ha certamente indotto i laziali a credere che il gioco fosse fermo.
Ma il fatto, oltre ad essere assurdo, è reso più ridicolo dalla sua inconsistenza ai fini del risultato, giacché l’Udinese vinceva comunque uno a zero e al fischio vero mancavano pochi secondi.
L’Udinese comunque ha meritato per quanto fatto nel primo tempo e per come ha comunque amministrato la partita (61 a 38 il possesso palla a favore dei friulani). Dias, Scaloni e Marchetti saranno certamente fermati dal giudice sportivo, e rientreranno solo contro l’Inter (forse non Marchetti). A questi si devono aggiungere Matuzalem e Biava infortunati.
Un prezzo alto che poteva essere evitato con una maggiore calma, anche se la rabbia per una stagione che sembrava blindata nella posizione finale di classifica può spiegare. Ma se si provasse a giocare all’attacco invece che difendersi e continuare a perdere ogni trasferta, si potrebbe poi esibirre una classifica diversa. Cinque sconfitte nelle ultime partite dicono questo.
L’Inter sembra ormai decisamente in recupero. Dall’avvento di Stramaccioni la squadra ha smesso di perdere, inanellando vittorie e qualche pareggio e recuperando punti preziosi in vista del terzo posto. Anche ieri i nerazzurri hanno imposto gioco (con una ventina di minuti all’inizio arrembanti e decisamente di buon calcio) e risultato al già retrocesso Cesena, che ha però dato tutto quello che poteva, come pochi giorni prima con la Juventus.
Di nuovo sotto di un gol, gli Stramaccioni boys non hanno comunque perso il dominio della gara e in due minuti hanno pareggiato per poi segnare il gol decisivo con Zarate. Stramaccioni ha presentato un centrocampo con Obi, Guarin e Cambiasso che ha fornito una prova di ottimo livello. Ma solo l’ingresso di Milito e Zarate, al posto di un inutile Pazzini e di uno stanchissimo Alvarez (autore con Snejider di un’ottima prova) hanno determinato le azioni vincenti.
Moratti si dice pronto a confermare Stramaccioni alla guida dell’Inter anche per il prossimo anno. Farebbe bene, visto che ha letteralmente rigenerato una squadra spenta, le ha dato gioco ed entusiasmo e, soprattutto, vittorie importanti. Inutile inseguire presunti guru della panchina quando si ha in casa il prodotto vincente.
Bella vittoria del Bologna sul Genoa, con Diamati in spolvero sotto gli occhi interessati di Prandelli. L’Atalanta, in attesa delle deliberazioni della giustizia sportiva, è fuori matematicamente dal rischio retrocessione avendo battuto la Fiorentina, che è tornata a perdere dopo il successo dell’Olimpico contro la Roma. La situazione di classifica vede i viola 5 punti sopra il Genoa e 6 sopra il Lecce, quindi in una condizione matematicamente tutt’altro che serena con tre partite ancora da disputare. La posizione è poi ulteriormente scomoda, considerando anche che le decisioni della giustizia sportiva a chiusura dell’inchiesta di Cremona (attese per il 7 o 8 Maggio) potrebbero vedere cattive notizie per i salentini.
Pareggio poco utile tra Cagliari e Chievo ed ennesimo pareggio anche del Palermo nel derby con il Catania. Zamparini, per non annoiarsi, ha deciso di licenziare anche Panucci, appena assunto dome direttore generale. Non ci sono responsabilità precise da parte dell’ex calciatore, ma il fatto è che Zamparini non sapeva proprio cosa fare: gli allenatori, del resto, li aveva già licenziati tutti.
Tra Napoli e Roma è andato in onda un bello spettacolo, il cui pareggio finale offre solo rimpianti ad entrambe. Sono ambedue squadre incomplete e tutto sommato abbastanza scariche, con la Roma alle prese con i problemi legati alla eventuale riconferma di Luis Enrique e il Napoli con quelli di riuscire a tenere Mazzarri in panchina e Lavezzi e Cavani in campo. Le sirene di Manchester per “El matador” e quelle di Milano per il “pocho” non saranno suoni piacevoli nelle orecchie di De Laurentiis che, soprattutto se arriverà di nuovo in Champions, dovrà decidere se migliorare il bilancio o migliorare la squadra.