di Fabrizio Casari

Un Milan ispirato e spietato, che si avvantaggia dal sostenere l’intera partita in superiorità numerica causa discutibile rosso diretto a Balzaretti, stronca il Palermo e, in qualche misura, stronca anche le ambizioni della Juventus di Conte, che ove non dovesse vincere il recupero contro il Bologna (cosa non semplicissima) comincerebbe a vedere la fuga dei rossoneri con qualche seria preoccupazione.

Anche perché il Chievo, pure privo di Pellisier, con il pareggio ottenuto a Torino ha messo in luce l’insorgere di qualche scricchiolio in casa Juventus. La squadra appare effettivamente con qualche debito di corsa, cioè l’arma principale dei bianconeri che non hanno fuoriclasse a disposizione (come Ibrahimovic) che risolvono le partite anche quando le cose non vanno per il verso giusto. In aggiunta, le dichiarazioni di Marotta (“non disponiamo di uno come Ibra”) risultano fuori luogo, giacché averli sarebbe proprio il compito cui Marotta stesso dovrebbe assolvere e che non assolve.

In questo caso, dunque, le parole del DG juventino sembrano più voler indicare nei limiti dei giocatori a disposizione le eventuali responsabilità. I fischi che hanno accompagnato l’uscita della squadra al termine della partita non hanno certo aiutato al rasserenamento del clima e lo stesso Conte, con dichiarazioni tese come quelle del dopo partita, palesemente rivolte alla dirigenza societaria e alla tifoseria, indica con sufficiente chiarezza il clima di nervosismo che aleggia a Torino e che coinvolge staff tecnico, societario e tifoseria. Il rischio di veder sfumare la vittoria del campionato tiene tutti con i nervi scoperti.

Ben altra aria si respira invece nel Milan, che avendo ormai archiviato il turno di Champions, dato il risultato dell’andata, può decisamente dedicarsi al campionato con un Ibrahimovic tornato in grande forma proprio nel momento nel quale anche il resto della squadra - attaccanti in particolare - pare aver ritrovato tonicità. Da qui al prossimo turno di Champions c’è tempo per mantenere o addirittura incrementare il vantaggio sulla Juventus, che consentirebbe di affrontare la fase finale della stagione con una sufficiente riserva di punti in grado di garantire un finale di stagione ancora in testa.

Il derby di Roma ha definitivamente messo a nudo i limiti della Roma di Luis Enrique, che continua a proporre un’idea di assetto tattico da oratorio di periferia. E’ spaventoso vedere la semplicità con la quale l’assetto difensivo dei giallorossi non trovi misure e tempi per contrastare le ripartenze avversarie, consentite dallo sbilanciamento ossessivo della Roma in attacco. Il possesso palla dei giallorossi è davvero un tic-toc da accademia, una specie di “torello” prolungato ed inutile, prova ne sia che durante il derby il portiere laziale, Marchetti, non ha dovuto mai intervenire, non essendo arrivato nemmeno un tiro nello specchio della porta.

L’idea di tenere la palla e non scagliarla mai tra i legni della porta avversaria è uno dei misteri della fede del nuovo credo calcistico di Luis Enrique, probabilmente convinto che, come nella boxe, in assenza del colpo finale, a stabilire la vittoria o la sconfitta siano i punti che certificano l’iniziativa di uno dei due pugili. Il calcio, invece, è sport diverso: non si vince ai punti, ma con i punti.

La Lazio, invece, squadra decisamente operaia ma non priva di giocatori che hanno confidenza con il pallone, ha capito bene cosa andava fatto e l’hanno fatto come potevano. Una partita, il derby, che non è quasi mai bella nel senso dello spettacolo: troppa la tensione e troppo alta la posta in gioco sul piano della vivibilità degli ambienti per dedicarsi al bel calcio.

Ma è la prima volta che nell’arco di una stagione la Lazio vince due derby su tre e ora Reja, che era sempre stato vittima delle stracittadine con la Roma, è diventato il killer peggiore per Luis Enrique. Addirittura adesso Reja parla di sintonia con la societò, dopo aver minacciato, ritirato e poi negato dimissioni e scontri interni. Miracoli delle vittorie. Partita dunque non bella e tifoseria schifosa, che nei suoi ululati razzisti esibisce la cifra esatta della sua civiltà.

L’Inter evita con 30 minuti di corsa l’ennesima sconfitta, pareggiando con il catania di Montella. Anche sulla sponda nerazzurra si assiste al tributo di sangue che ad ogni partita paga Julio Cesar. Il quale, ancora fortissimo tra i pali se i tiri partono centralmente, viene regolarmente battuto da chiunque tiri in diagonale.

E' vero, l'Inter non ha terzini che sanno marcare e coprire le incusrsioni dalla fascia verso il centro, ma la sensazione è che il tentativo di coprire bene il proprio palo lasci troppo specchio di porta libero per il palo lontano; ed è un difetto, questo, sempre evidenziato dal portiere brasiliano. Ma sarebbe davvero curioso capire come mai non viene risolto, visto che l’Inter ha incassato circa dieci gol in questo modo.

Detto ciò, il gol del due a zero provvisorio del Catania è in colossale fuorigioco, non visto dalla pessima terna arbitrale. Senza quella rete irregolare l’Inter sarebbe tornata ai tre punti che, insieme ai sei che gli sono stati deufradati nelle prime giornate di campionato, vedrebbero ben altra classifica.

Ma per l’Inter è meglio così, perché una diversa classifica avrebbe potuto ulteriormente illudere la dirigenza nerazzurra sul valore oggettivo di questa squadra, che non è nemmeno lontano parente di quello esibito fino ad un anno fa. Ranieri, è chiaro, non è la medicina giusta, quale che sia la malattia, ma l’applauso che ha accompagnato l’uscita dell’inutile Palombo e dell’immobile Cambiasso in favore dell’entrata di due giovani come Obi e Poli, dice molto su quello che tutti i tifosi dell’Inter pensano di cosa sarebbe necessario fare. Ranieri forse ha capito e magari il licenziamento di Villas Boas da parte del Chelsea lo aiuterà a ragionare: da unica possibilità, Ranieri si trova ora ad essere una possibilità a scadenza variabile e niente più.

di Fabrizio Casari

Un Milan di altissimo livello per settanta minuti non è riuscito a battere la Juventus, grazie allo scandaloso errore arbitrale. Lo scontro tra Milan e Juve, cominciato da due settimane prima e destinato a proseguire fino alla fine della stagione, ha ricevuto benzina sul fuoco dalla terna arbitrale in campo e dalle parole sconsiderate di Marotta, Conte e Galliani.

Per quanto riguarda la partita c’è da dire che la strategia di Allegri aveva funzionato: tutti si aspettavano la solita Juventus di corsa e pressing e il solito Milan per tasso tecnico e capacità realizzativa. Invece il Milan si è messo a giocare come la Juve, aggredendo i bianconeri con pressing a tutto campo, corsa e velocità di manovra, senza perdere con ciò qualità. Dal canto suo la Juve, che come il Milan non sa e non può giocare, impedita a muoversi come sa, è stata in balia dei rossoneri per settanta minuti, cioè fino a quando i ragazzi di Allegri hanno avuto fiato.

Evidentemente l’assenza di Ibra, tema sul quale le rispettive “diplomazie” si erano già esercitate, come qualcuno aveva previsto, si è rivelata più problematica per la Juventus, che ha visto i suoi legnosi centrali privi di punti di riferimento. Quando infatti il Milan gioca con il fuoriclasse svedese la manovra ha uno sbocco obbligato e i gol arrivano solo se le difese avversarie non riescono a limitare la capacità di calcio di Ibrahimovic. Quando invece Ibra manca, la manovra diventa molto più imprevedibile e Robinho e Pato, liberi dal dover girare al largo dell’area per non pestare i piedi al colosso svedese, dimostrano di essere due attaccanti brasiliani di livello assoluto. Ovvio che negli ultimi 20 minuti il Milan avrebbe gradito la presenza dello svedese per tenere palla e provare a ripartire in contropiede con efficacia micidiale, ma  resta il fatto che, senza Ibra, il Milan non è più debole, ma diversamente forte.

Il gol di Muntari racconta un po’ di cose: la prima è che solo Muntari, a un metro dalla porta spalancata e con il portiere a terra, schiaccia la palla sul portiere. La seconda è che l’inadeguatezza del guardialinee non è annoverabile negli errori che “ci possono stare”. Piuttosto è organica al “modello Rocchi”, intendendo con ciò gli errori così clamorosi da sembrare sospetti. La terza è che piangere serve sempre, soprattutto se non ce n’è motivo. Che succederà se alla fine del torneo saranno proprio uno o due i punti che assegneranno lo scudetto alla Juve davanti al Milan o se, addirittura, la squadra di Conte dovesse prevalere per i punti realizzati nello scontro diretto?

La rissa finale, che ha visto come protagonisti Mexes, Chiellini e Ambrosini, dice invece che il difensore del Milan cambia maglia ma non cambia abitudini: isterico e impreciso, dimostra di rimanere un buon difensore ma di non essere in grado di divenire un campione; che Ambrosini non da oggi è lo spot peggiore per lo stile Milan e che Chiellini dovrebbe avere ben altro spessore per guidare la difesa della Nazionale.

C’è poi il capitolo a parte di Buffon. Il portiere juventino ha detto che non si era accorto se il pallone era o no entrato in rete, aggiungendo però che, se pure l’avesse visto, non l’avrebbe detto all’arbitro. Una bugia e una verità: Buffon ha visto benissimo che la palla era entrata ed è vero che non l’ha detto all’arbitro.

Qualcuno si è scandalizzato, ma Buffon non è mai stato l’emblema della sportività e resta un dipendente della Juventus che concorre alla vittoria del campionato, non ad una manifestazione benefica. Ballano milioni di Euro per la società, prestigio e premi per i suoi giocatori. Dunque perché stupirsi?

Per l’Inter è arrivata la decima sconfitta del campionato, stavolta a Napoli. I partenopei hanno controllato sempre una partita, anche quando nell’ultimo quarto d’ora sono rimasti in dieci ed hanno confermato la ritrovata forma. L’Inter, invece, è proprio nella forma fisica che appare a terra. I giocatori di Ranieri non arrivano mai prima sulla palla né si smarcano cercando di dettare il passaggio: sono fermi. Scambiano il pallone con passaggetti di pochi metri e sempre all’indietro, mai la ricerca della manovra offensiva. Perché? Perché, paralizzati dalla paura di subire, hanno paura di giocare, non avendo fiato per attaccare e rientrare, cioè per compiere le due fasi del gioco.

Ranieri ha due sostanziali problemi: la mancanza di forma fisica, dovuta alle vacanze natalizie godute mentre le altre squadre faticavano nel richiamo della preparazione; l’assenza di un qualunque schema di gioco, offensivo e difensivo. La sfortuna, poi, ci mette il resto. L’Inter, così, non è una squadra, sono 11 giocatori che vanno in campo ognuno per conto suo.

Più che il terzo posto il destino dell’Inter è quello di giocare solo in Italia per il prossimo anno e forse sarebbe il momento di schierare i giovani con due o tre innesti delle vecchie glorie, almeno per poter valutare, a fine stagione, chi è da Inter e chi no. Moratti aveva detto alla vigilia che il destino di Ranieri si sarebbe discusso dopo Napoli. Non c’è molto da discutere, pare. Dopo questa serie nera, come minimo si può dire che se Ranieri non ha particolari colpe nei problemi della squadra (ma qualcuno ce l’ha) comunque è certo che non riesce a risolverne neanche uno.

La Roma è stata schiantata a Bergamo, dove è scesa in campo senza Totti (squalificato) e De Rossi, castigato dalla società per essere arrivato in ritardo ad un allenamento. Il regolamento interno dei giallorossi lo prevede e la sua inderogabilità è stata già sperimentata da Osvaldo. Dunque complimenti alla Roma per la coerenza. La domanda semmai è un’altra: l’assenza di De Rossi significa lo sbraco della Roma? Luis Enrique, come spesso succede, c’ha messo del suo: far giocare la difesa (lenta) in prossimità del centrocampo, è altro da farla stare “alta”.

Significa esporsi al contropiede di una squadra come l’Atalanta (ben allenata da Colantuono) che nella compattezza difensiva e della velocità in attacco ha le sue due armi migliori. Serviva un filtro vero davanti alla difesa e Perrotta e Simplicio avrebbero garantito esperienza ed equilibrio maggiori. Infatti i giallorossi ne hanno beccati due in pochi minuti proprio con ripartenze immediate che scavalcavano il centrocampo sbilanciato e la difesa fuori posizione e puntavano la porta. Poi le espulsione di Osvaldo (un altro che non diventerà mai grande senza un robusto reset al carattere) é la conseguenza di un clima interno e di uno stato d’animo alterato che certo non è aiutato dall’altalena di risultati.

La Lazio, dopo le polemiche infinite tra Reja e Lotito, che hanno portato l’allenatore a dimettersi e poi a ripensarci, torna a far parlare il campo e batte per uno a zero (con il solito Klose) la Fiorentina dell’ex Delio Rossi e l’Udinese si rialza dalle ultime partite e va a battere con un sonoro 3 a 1 il Bologna. Il Siena asfalta il Palermo, rimasto in dieci dopo 70 secondi per l’espulsione di Balzaretti. Ma un rigore assai dubbio e un’espulsione forse troppo severa avrebbero piegato chiunque. Bel colpaccio del Lecce a Cagliari e vittoria utile del Chievo, mentre finisce in parità tra Genoa e Parma, in un’altra partita segnata da orrori arbitrali. Prosegue intanto lo straordinario campionato del Catania, che ha battuto 3 a 1 il Novara del catenacciaro (auto definizione ndr) Mondonico. Montella sta facendo un ottimo lavoro e forse qualcuno, a Roma, lo sta rimpiangendo tra una pausa e l’altra della decantazione del “projecto”.

di Fabrizio Casari

La Juve vince contro il Catania tre a uno? Pazienza: il Milan risponde battendo il Cesena con identico punteggio. Juve in ripresa ma rossoneri in gran forma, dunque; dopo aver passeggiato con 4 gol sul più spento Arsenal degli ultimi dieci anni e averne segnato altri 3 ieri, rilancia la sfida alla Juventus proprio dimostrando grande capacità di andare a rete, in generale maggiore rispetto ai bianconeri.

Le recenti polemiche tra i due allenatori, Conte e Allegri, tradiscono solo l’ansia che monta sia a Vinovo che a Milanello per l'ormai prossimo scontro diretto; il conto alla rovescia verso maggio è iniziato e ogni vittoria sono tre punti in più ed uno scoglio in meno verso l’approdo finale. Non sembrano esserci elementi che inducono a credere come una o l’altra possano prevalere; sono due squadre sensibilmente diverse e che giocano un calcio diverso e forse solo il proseguimento dei rossoneri in Europa potrebbe risultare l’elemento decisivo per lo stato di forma verso il rush finale. Ma l’alternanza tra Juventus e Milan tra il primo e il secondo posto, sempre con un punto o due di distanza, è in qualche modo una notizia scontata, essendo il tema settimanale fisso dall’inizio del torneo.

Ha più valore, semmai, il sorpasso della Roma su Inter e Napoli, anche se dà l’impressione di non essere un dato irreversibile. La Roma, infatti, pur penalizzata da due decisioni arbitrali dubbie, pur di fronte ad un Parma inconcludente e falloso, non ha capitalizzato le occasioni avute. Un'altra squadra meno scarsa di quella allenata da Donadoni avrebbe fatto pentire i giallorossi di tanta sufficienza. Ma ad ogni modo, in attesa del sogno, sono i punti che contano e che certificano le posizioni in classifica, pur se non appaiono granitiche, che vedono ora i giallorossi, appunto, superare Napoli e Inter, dietro a Udinese e Lazio.

E proprio l'Udinese non riesce a superare il Cagliari, mentre la Lazio trova una batosta tremenda sul campo del Palermo. Rimaneggiata oltremodo, la squadra di Reja deve però affrontare una situazione delicata, dal momento che incassa valanghe di gol e segna con il contagocce. La situazione alle spalle di Lazio e Udinese, però, non appare definitiva; non tanto per quanto riguarda l’Inter, in crisi ormai definitiva, quanto per il Napoli, che da un paio di turni sembra aver ritrovato il giusto passo: fare tre gol alla Fiorentina, a Firenze, non era affatto semplice. Se il Napoli ha ritrovato o no il passo dei giorni migliori è presto per dirlo, ma la ritrovata forma di Cavani fa la differenza sui risultati.

La zona Europa League sarà, come la vetta della classifica, zona movimentata. Ci sarà, infatti, l’appuntamento di Champions di metà settimana che riguarderà Inter e Napoli. Nel caso i ragazzi di Mazzarri riuscissero ad avere ragione del Chelsea, come fin qui dimostrato, potrebbero trovare maggiori difficoltà in campionato, considerata una panchina non sufficientemente lunga per affrontare al meglio i due tornei e, ad oggi, sembrerebbero i più attrezzati proprio per il terzo posto, ultimo strapuntino dell'Europa che conta.

Diverso il discorso per l’Inter, che solo un inguaribile ottimismo può prevedere un’uscita indenne dalla partita di Marsiglia contro la squadra allenata da Deschamps. I nerazzurri, sostengono alcuni, proprio dai successi di Champions ritrovarono condizione e grinta che gli permise d’infilare gli otto successi consecutivi della prima fase Ranieri.

Ma le cose ora sono decisamente cambiate: la squadra è allo sbando, Ranieri sembra il più confuso di tutti e anche solo ipotizzare miglioramenti sostanziali e tenuta sui due fronti sembra un’eresia. Semmai, forse proprio l’uscita dalla Champions potrebbe riportare l’Inter ad un ritmo più consono per una grande e non è un caso che una squadra zeppa di ultratrentenni abbia dato il meglio di sé in questa stagione proprio nei due mesi nei quali la Champions era ferma.

Perché giocare una sola volta a settimana o due, dover concentrarsi su due obiettivi invece che uno, cambia sensibilmente la performances, come insegna la Juventus. Il che, però, in prospettiva, non potrà che incidere drammaticamente sulla rifondazione dell’Inter, giacché l’assenza dal palcoscenico europeo non favorirà l’arrivo di giocatori top-player, a maggior ragione difficili da raggiungere con 30 milioni di euro in meno derivanti dalla partecipazione alla Champions. Da qualunque parte la si tiri, la coperta di Moratti appare corta.

 

 

di Fabrizio Casari

Un successo immeritato contro l’Udinese che ha riportato il Milan al comando della classifica, grazie anche al fatto che la Juventus non ha giocato causa maltempo, il ritorno alla vittoria del Napoli e della Lazio e la conferma della splendida realtà calcistica del Catania guidata da Montella, hanno scritto la cronaca della giornata calcistica spezzettata causa neve. Ma a dare un senso più prospettico ad una giornata calcistica diversa dalle altre sono stati i tonfi dell’Inter e della Roma contro Novara e Siena.

L’Inter e la Roma, sconfitte entrambe da provinciali, sono le due delusioni del calcio di vertice. Quelle che negli ultimi anni hanno dato vita al duello rusticano per il campionato italiano, sono oggi fortemente in discussione da parte di tifosi e addetti ai lavori. Sono due situazioni molto diverse, certo. L’Inter è alle prese con l’infinita transizione del dopo Mourinho, viziata da una campagna cessioni e acquisti che, vittima il fair play finanziario, è stata giocata più sulla riduzione del monte ingaggi che sulla ricerca di giocatori funzionali al progetto di rinascita.

Ma il fair play finanziario non è l’unica causa del brusco ridimensionamento di una società che ha venduto Balotelli, Eto’o e Motta in tre diverse sessioni senza che gli arrivi abbiano vagamente potuto sostituire i partenti. Per capirci: Eto’o, lo scorso anno, a questo punto della stagione aveva realizzato - da solo - 24 gol; i suoi sostituti (Forlan, Zarate e Castanois) ne hanno segnati - insieme - solo 3. E, sempre per parlare di cose che con il fair play finanziario non c’entrano niente, ci si domanda a cosa serva acquistare Ranocchia, Poli, Obi, Castanois, Alvarez, Jonathan, Faraoni, se poi giocano, come sette anni fa, i Cambiasso, Zanetti, Chivu e Cordoba?

La situazione viene poi oltremodo complicata da Ranieri, tecnico provvisto di grande esperienza ma non in grado di costruire gioco. Le ultime due sconfitte dell’Inter, scesa in campo con una sola punta per poi, contro il Novara, finire con quattro attaccanti, sono un segnale della confusione tecnico-tattica dell’allenatore romano, che ha ormai cambiato cinque schemi di gioco mantenendone solo uno fisso: i giovani in tribuna e i senatori in campo; chi corre in panchina e chi cammina titolare.

Certo per Moratti la strada non è semplice; avendo sbagliato a tenere i Milito, Maicon, Snejider dopo il triplete, vuoi per senso di riconoscenza, vuoi perché convinto che avrebbero potuto dare ancora vittorie (e in parte è stato vero) ha rinunciato ad incassare denari importanti che oggi non arriveranno più e si trova ormai nella condizione di spalancare i cancelli di Appiano con la tromba che suona il “rompete le righe”. Ma le cessioni di coloro che un tempo furono big, non porteranno denari, solo risparmi nel monte ingaggi, comunque inutili nel caso non dovesse arrivare in Champions, cosa che da sola significherebbe la perdita di oltre 30 milioni di Euro.

L’Inter che in cinque anni ha vinto 17 titoli è finita e per i tifosi è duro farsene una ragione. Ma il patron qualcosa dovrà pur fare. Sul piano dell’allenatore dovrà per forza scegliere un tecnico vincente o comunque dotato di grande carisma: l’Inter non è una squadra qualsiasi e allenare a Milano prevede un livello di qualità indiscutibile.

Peraltro, il nuovo tecnico dovrebbe avere carta bianca sul mercato e sullo spogliatoio, il che non è facile; e dovrà poter plasmare i giovani, non solo quelli acquistati, ma anche quelli che nella Primavera fanno vedere cose egregie. Serve poi urgentemente il rientro di Oriali e il pensionamento di Branca e Ausilio per ridare senso all’organizzazione aziendale.

Ma la cosa migliore sarebbe che Moratti parlasse chiaro ai suoi tifosi, spiegando la situazione aziendale e annunciando la rivoluzione che verrà; forse meglio dire che si farà un anno di transizione con l’unico obiettivo di plasmare una nuova squadra fatta di sette-otto giovani e due o tre più esperti per poter vincere domani, piuttosto che continuare a vivere di ricordi. I tifosi accetteranno e il nuovo tecnico potrà lavorare in pace. La rivoluzione deve trovare l’ambiente compatto per poter diventare governo.

Discorso diverso per la Roma, ma non per questo più rassicurante. Il “progetto”, come ormai si chiama ogni idea o suggestione, è stato avviato facendo ricorso ad un cambio di panchina e di giocatori voluto dalla nuova dirigenza, a sua volta scelta da Unicredit e i soci americani, con i primi a metterci i soldi e i secondi a metterci la faccia (peraltro fino a pochi mesi fa decisamente sconosciuta).

Baldini, dapprima all’ombra dell’incarico per la Federazione britannica, poi in prima persona, ha concepito insieme a Sabatini un nuovo progetto tecnico, con lo scopo di riportare la società in una condizione economica soddisfacente e di aprire un ciclo di “nuovo calcio” che, nelle intenzioni, dovrebbe fornire nello spazio di un paio d’anni una nuova “filosofia”  che ispirerebbe la nuova fisionomia di gioco. E’ presto, forse, per dire se l’idea di calcio di Luis Enrique, ex tecnico della squadra B del Barcellona, sarà in grado di concepire una formazione che emuli la corazzata allegra catalana, ma certo i risultati raggiunti fino ad ora non fanno ben sperare. Dieci sconfitte subite e il sesto posto alle spalle dell’Inter non indicano proprio una marcia trionfale.

La Roma è un’alternanza continua di vittorie entusiasmanti e sconfitte disarmanti, ma questo non lo si deve ad una insufficienza da parte dei giocatori ad assimilare il credo calcistico di Luis Enrique. Si deve invece agli avversari che si trova di fronte: quando è lasciata giocare, la Roma si scatena; quando invece è attaccata, pressata, aggredita nella sua metà campo, va in bambola. Per questo può rifilarne 4 all’Inter e prenderne altrettanti dal più modesto Cagliari.

Il risultato contro l’Inter ha illuso i giallorossi, che avrebbero invece dovuto tener conto come quel risultato sia stato causato più dalla prestazione degli uomini di Ranieri che dalla Roma stessa. Perché questa è la differenza fondamentale tra i due allenatori: per Luis Enrique il centrocampo è l’inizio della manovra d’attacco, per Ranieri è il primo sbarramento difensivo.

Si disserta molto di possesso palla (spesso fine a se stesso) e ariosità del gioco, di trame veloci e di squadra votata all’attacco, sempre e comunque. Alla fine però contano i gol fatti e quelli subìti, e la differenza sembra ancora farla la presenza di De Rossi in campo a fare da frangiflutti davanti alla difesa e a impostare l’azione di rilancio.

Anche qui, il discorso delle cessioni e degli acquisti non può essere evitato: vendere Vucinic, Borriello, Pizarro, Mexes e Menez, tenere in panca sempre Perrotta (ed avere l’isterico Burdisso come punto di riferimento difensivo, peraltro fuori dal campo per tutta la stagione causa infortunio) ed averli sostituiti con Josè Angel, Krjiaer o Bojan, non pare aver rafforzato la compagine. E il fatto che la Roma offra le sue migliori prestazioni quando girano Totti, De Rossi e Juan, racconta bene quanto il nuovo non riesce ancora a sostituire il vecchio.

Azzeccati invece sono stati gli acquisti di Lamela, Pianic, Stekelemburg e Borini, ma la domanda alla quale fornire una risposta è la seguente: per il valore necessario ad un posizionamento di vertice nel calcio italiano, quanti dei titolari della Roma sono all’altezza?

Diversamente dall’Inter, peraltro, la Roma ha investito 70 milioni di euro sul mercato, non certo bruscolini, e non si vede da dove potrebbe ricavare ulteriori fondi per assestare meglio la squadra con nuovi acquisti, giacché il parco giocatori che potrebbero essere ceduti per fare cassa ha un mercato molto limitato e, tutto sommato, low cost.

Si sente dire che la differenza tra Roma e Inter consisterebbe nel fatto che la prima avrebbe il famoso “progetto”, la seconda deve ancora essere rifondata: Ma siamo sicuri che con dieci sconfitte in 22 partite si possa parlare di “progetto” senza che rischi l’ilarità involontaria? Se uscire dall’Europa, dalla Coppa Italia e dal campionato significa avere un “progetto”, allora forse è meglio non averlo. O, più semplicemente, riscriverlo, adeguandolo al calcio italiano che si gioca sul campo e non a quello che si vede in tv nei campionati esteri. Va bene il libro dei sogni, ma i risultati hanno la testa dura.

 

 

di Fabrizio Casari

Una Roma arrembante ha sconfitto, con pieno merito, un’Inter che non è mai scesa in campo. Senza nessuna idea che non sia quella di chiudersi, senza nessun giocatore capace di saltare l’uomo e nessuno capace di smarcarsi, la squadra di Ranieri passeggia sul campo dove gli avversari corrono. Lenta e impacciata la difesa, molle il centrocampo, nessun lavoro sulle fasce, i nerazzurri non giocano; controllano il gioco altrui e provano la giocata con Milito, tutto qui.

Lo schema Ranieri è questo: nove dietro la linea della palla e poi vediamo. Ranieri, poi, ci aggiunge del suo: come lo scorso turno con Snejider, stavolta sostituisce una punta (Pazzini) con un centrocampista (Poli) quando perde due a zero. Tanti mediani tutti insieme non si erano mai visti in una squadra di calcio che vuole vincere. Difficile da definire una scelta logica. Certo che se Snejider e Alvarez sono out, Motta è andato a Parigi e Coutinho all’Espanyol, non si capisce chi dovrebbe inventare calcio. Per l’allenatore dell’Inter, l’Olimpico, dove non riuscì a vincere, è ancora una volta un campo fatale, visto che proprio ieri ha perso le ultime cianches di allenare i nerazzurri il prossimo anno.

La Roma, dal canto suo, ha giocato come sempre: molto possesso palla e buon movimento, grande corsa e personalità nel controllo della gara, dunque vittoria strameritata. Una Roma straordinaria, certo, ma il punteggio ottenuto è forse più demerito dell’Inter che merito dei giallorossi, che quando sono aggrediti, come a Cagliari, ne prendono quattro, ma se sono lasciati liberi di giocare possono farne 4 davvero a chiunque. Nelle ultime due partite la Roma aveva collezionato solo un punto, ma il problema principale sembra essere una carenza di autostima, che invece dovrebbe essere copiosa, sia per qualità dell’organico che per gioco. L’identità della squadra di Luis Enrique è chiara, gli allenatori avversari dovrebbero sapere come affrontarla, ma certo non lo sa Ranieri.

La Lazio perde a Genova, continuando così la sua serie a fisarmonica; una bella vittoria si alterna ad una brutta sconfitta. Ma poco male per la classifica, perché complice il disastro dell’Inter mantiene la distanza di sicurezza dai nerazzurri e anche perché contemporaneamente arriva la sconfitta dell’Udinese ad opera della Fiorentina

Pareggio a reti bianche per la Juventus che ospitava il Siena e per il Milan, fermato in casa dal Napoli. Il duello tra le due per la vetta continua, giacché tutte le inseguitrici perdono e, dunque, il punto ottenuto è comunque pesante ai fini della classifica finale. Il Milan delude, come ormai da un paio di partite in qua. Manca di aggressività e corsa e non utilizza le fasce, mentre Robinho continua a divorarsi gol già fatti. Una squadra nervosa, quella di Allegri, che sembra risentire della partenza di Pirlo almeno quanto il giocatore bresciano giova alla Juve.

Quella di ieri è stata una partita noiosa, nemmeno lontana parente di quelle disputate lo scorso anno tra le due formazioni. C’è da attendersi che l’espulsione di Ibrahimovic darà luogo a polemiche circa l’entità della squalifica; nel caso il giudice sportivo dovesse decidere di avere la mano appena pesante, lo svedese salterà lo scontro diretto con la Juventus, tra due turni. E il Milan, senza Ibra, è davvero poca cosa. Potrebbe essere l’occasione giusta per la squadra di Conte di allungare decisamente.

A patto però che ritrovi la capacità di aggirare le squadre ben messe in campo. Ieri il Siena di Sannino si è disposto in modo praticamente perfetto e la vecchia signora non ha trovato spazi e seppure alla Juventus è stato negato un rigore, il protagonista decisivo del pareggio è stato il portiere del Siena, Pegolo, che ha sfoderato tre interventi decisivi. Forse l’innesto di Del Piero avrebbe potuto cambiare la partita, ma la vena scarsa di Marchisio, che tante partite aveva risolto nel girone d’andata, incide negativamente sulla capacità della Juventus di fare risultato.

Continua la risalita del Palermo, che ha battuto l’Atalanta. Il nome e cognome della recente vena dei rosanero è Fabrizio Miccoli, il piccolo folletto dai piedi straordinari che, quando è in forma, si prende la squadra sulle spalle; Mutti pare aver capito come Miccoli sia decisivo e, se infortuni o calo fisico non ci si mettono, il Palermo potrà terminare il campionato in una posizione decente.

Così come migliorerà la posizione in classifica della Fiorentina, che con una doppietta del suo fuoriclasse, Jovetic, piega l’Udinese, che si conferma fortissima in casa e molto meno in trasferta. La squadra di Guidolin ha giocato comunque un’ottima partita, ma a pochi minuti dalla fine è stata piegata da un gol di Torje. Le mura amiche sembrano voler aiutare la rinascita viola, dove finalmente la mano di Delio Rossi comincia a vedersi.

Il Parma fa il colpaccio contro il Chievo grazie ad un autogol di Luciano, l’ex-Eriberto. Pareggio tra Lecce e Bologna e tra Novara e Cagliari. Emiliani e sardi confermano di essere squadre a due volti: temibili in casa, addomesticabili in trasferta. Purtroppo per loro, i punti si segnano giocandole entrambe.

 


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