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di Fabrizio Casari
Se ne sono andati i fuoriclasse e non è arrivata la legge sugli stadi, sono aumentati i debiti e diminuite le passioni, ma il campionato di calcio 2012-2013 è pronto a cominciare. Per lo scudetto sarà una storia tra Juventus, Inter e Roma, cioè le tre squadre che si sono rafforzate maggiormente, mentre - salvo colpi dell’ultima ora piuttosto improbabili causa carenza di denaro - Milan, Napoli, Udinese appaiono decisamente inferiori allo scorso anno e la Lazio è rimasta la stessa, con un buon allenatore in meno e i giocatori con un anno in più. Si può pensare ad una rinascita graduale della Fiorentina e ad una incognita Palermo.
Il mercato degli scambi ha visto in auge soprattutto Juventus e Inter. I bianconeri hanno portato a Torino tre ottimi giocatori come Lucio, Isla e Asamoah, cui hanno aggiunto Giovinco nel ruolo di erede (forse) di Del Piero. Lucio porterà esperienza (e svarioni), Buffon è ancora il top tra i pali e Isla, Bonucci e Chiellini sono difficili da superare. In attesa di trovare la punta di ruolo di cui ha bisogno (falliti Van Persie, Llorente, Pazzini , difficilissimo Dzeko), appare una squadra ottima dietro e a centrocampo, ma non irresistibile in attacco. Ma c’è da dire che la qualità di gioco corale che Conte ha immesso nella Juventus e la sua capacità di arrivare in gol partendo dal centrocampo e non dalle punte rende l’handicap decisamente relativo. Ad oggi, continua ad essere la squadra più attrezzata, anche se la Champion League dimostrerà presto la differenza che c’è tra una partita a settimana o tre.
L’Inter ha cambiato molto: Handanovic, Silvestre e Pereira forniscono insieme a Ranocchia, Samuel, Chivu e Zanetti, (oltre che a Juan Jesus centrale della nazionale brasiliana in coppia con Thiago Silva) una patente di affidabilità notevole e Gargano e Mudingay, con lo straripante Guarin, costituiscono un centrocampo fisicamente imponente, cui si aggiunge Cambiasso. Davanti, Stramaccioni ha trovato un jolly straordinario in attacco come Palacio (24 gol lo scorso anno) da affiancare a Milito e con il ritrovato Snejider, Cassano e il rientrante Coutinho garantiscono imprevedibilità ed efficacia sotto porta. Le difese avversarie avranno pochi punti di riferimento e il gioco che sembra delinearsi, fatto di pressing e controllo palle e accelerazioni improvvise, autorizza i tifosi nerazzurri a un motivato ottimismo.
Ma mentre riparte la giostra del pallone a terra, nelle orecchie rimbalzano ancora le urla di scommessopoli. A rispondere alle invettive dell’agnellino e delle grida manzoniane di Conte, miracolato dal peso politico, finanziario e mediatico della Juventus, (altrimenti avrebbe rivisto il campo tra due anni e mezzo, come il suo vice patteggiatore) ci hanno pensato Petrucci e Abete, ricordandogli che la giustizia sportiva (certo da riformare rapidamente sin dai suoi presupposti) non è sottoponibile ad una approvazione in base al censo, cosicché quando va bene a casa Agnelli è una storia, quando invece non va bene diventa un’altro, ennesimo complotto ai danni della Juve.
Ci si potrebbe chiedere legittimamente quando arriverà il deferimento per Andrea Agnelli, che mentre continua a perdere ogni battaglia in ogni tribunale (siamo circa ad una ventina), insulta, offende e attacca gli organi federali. Per molto meno, Franco Sensi sarebbe stato sospeso a divinis.
Nonostante quello che spaccia il giovin signore di Vinovo, non c’è stato nessun complotto ai danni della Juventus: in primo luogo perché Conte era allenatore del Siena e non della Juve all’epoca dei fatti incriminati, e in secondo luogo perché se complotto ci fosse stato, Bonucci e Pepe sarebbero stati condannati e non prosciolti. Il fatto invece che siano stati assolti, indica che i giudizi sono stati formulati sulla base delle risultanze investigative e degli interrogatori, e non del colore della maglia. Nel merito, se il vice di Conte patteggia due anni e mezzo di squalifica e Conte si dice invece innocente, c’è qualcosa che non quadra proprio nella ricostruzione innocentista.
I fatti dicono che il suo vice, Christian Stellini, vice che ha portato anche alla Juventus, abbia ammesso la combine. E che anche i calciatori Passoni, Poloni, Garlini e Sala abbiano confermato la linea della Procura. Si vorrebbe sostenere che il suo vice agiva all’oscuro del suo capo (e immaginiamo i giocatori che ricevono indicazioni per truccare il risultato: o ritengono che vengano dal capo, visto che il suo vice le propone, o come minimo vanno dall’allenatore per chiedere se debbono davvero obbedire a quanto ordina il suo vice). E se chi non ci sta alla combine viene estromesso, (sul perché Conte ha cambiato tre volte la sua versione) si può ben pensare che il fatto rafforzi l’ipotesi accusatoria.
E d’altra parte lo stesso Conte aveva patteggiato e nessuno lo obbligava, sotto acuto consiglio degli azzeccagarbugli della Juventus: ma patteggiare significa ammettere la colpevolezza e se colpevolezza non c’è perché patteggiare? Solo perché Palazzi si era dimostrato compiacente, offrendo su un piatto d’argento una pena irrisoria, del tutto priva di criteri equi e ragionevoli, non a caso sementita dal Tribunale?
Insomma tra l’incapacità manifesta di Palazzi, le scorribande mediatiche dell’agnellino e la mobilitazione dei media di famiglia, l’unica cosa certa è che ci si trova davanti a un pastrocchio. Delle due una: o Conte andava prosciolto, giacchè non risultavano credibili le accuse, o andava condannato, ma sul serio.
In una cosa Conte ha ragione da vendere: quando la giustizia si basa solo sulle dichiarazioni dei pentiti, è arbitrarietà allo stato puro. Nello specifico, poi, si somma all’assurdo per cui invece che compito dell’accusa dimostrare la colpevolezza dell’imputato - come nella giustizia ordinaria - nella giustizia sportiva è compito dell’imputato dimostrare la sua innocenza. E’ semplicemente una follia. Ma, ad onor del vero, non ci sono solo le parole di Carobbio o altri a determinare le accuse, bensì investigazioni delle procure, intercettazioni e pedinamenti.
Desta semmai stupore che i reati imputati all’allenatore juventino configurino un accusa di omessa denuncia e non di illecito sportivo, ben diversamente punibile. Le stesse accuse, allora, si sarebbero dovute muovere al suo strettissimo collaboratore, accusato invece di illecito sportivo. E desta un senso di ridicolo generale l’idea che la squalifica impedisca solo la presenza in panchina, dettaglio davvero trascurabile rispetto all’allenamento, la scelta delle formazioni e l’assetto di gioco, senza contare il fatto che via telefonino le indicazioni possono arrivare per correggere eventuali errori. Una sanzione ridicola e una sua applicazione comica.
Di una cosa può esser certo Conte: se fosse stato allenatore di qualunque altra squadra non avrebbe avuto protezioni, titoli cubitali e mobilitazione del giornali di famiglia Agnelli con l’elmetto calato. Ha lanciato accuse fuori luogo e con toni inappropriati, rivendicando una onestà specchiata. Non ci sono dubbi, magari, ma il fatto che la sua carriera lo abbia visto giocare nella Juve del doping e di "calciopoli" ed allenare sulla panchina di squadre tutte coinvolte in "scommessopoli", quanto meno non lo identifica tout court con un esempio di trasparenza, non lo rende affatto candidabile al ruolo della moglie di Cesare, cioé al di sopra di ogni sospetto. Dunque si difenda come può e sa nelle sedi competenti e lasci stare gli appelli alla piazza, che andrebbero fatti per cose ben più serie. E soprattutto si tolga dalla testa l’idea di essere accusato perché vincente: ha vinto uno scudetto, come Allegri e tanti altri. Gli allenatori vincenti sono altri e, purtroppo, sono tutti all’estero.
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di Mario Braconi
Dimentichiamo De Coubertin e le sue belle frasi, come “l’importante nella vita non nel trionfo, ma nella lotta, l’essenziale non è aver conquistato, ma aver ben combattuto”. “Roba carina, ma sorpassata. Oggi le Olimpiadi sono un colossale business. Sì, ci sono (ancora) le competizioni in cui atleti di tutto il mondo si sfidano, ma è solo un pretesto per vendere scarpe e far consumare cibo-spazzatura.
Secondo il quotidiano The Independent, le Olimpiadi di Londra hanno un budget di circa 14,5 miliardi di euro, dei quali circa 1,8 vengono da sponsor privati, tra cui Coca Cola (premio per il rispetto dei diritti sindacali), BP (ultimo successo, la dispersione nel Golfo del Messico di poco meno di cinque milioni di barili di greggio), Dow (orgoglioso fornitore di napalm all’esercito degli Stati Uniti), Mc Donald’s (campione dell’alimentazione sana), Adidas (fiero difensore dei diritti dei lavoratori del sud del mondo).
Non solo le multinazionali contribuiscono a sporcare con la loro condotta la pura bellezza dell’agonismo sportivo che dovrebbe caratterizzare i giochi olimpici. Ma dimostrano di voler difendere ogni sterlina di profitto che riescano a spremere dagli spettatori (o forse dovremmo dire consumatori) delle Olimpiadi. A quanto riporta The Independent, infatti, un piccolo plotone di 300 addetti alla tutela dei marchi verranno sguinzagliati per il Regno Unito per fare in modo che gli esercizi commerciali fuori dal club non associno indebitamente il loro prodotto ai Giochi, danneggiando così i grandi sponsor.
Il quotidiano britannico rileva come il notevole impiego di risorse umane per una finalità tanto prosaica strida con il fatto che ben 3.500 soldati in licenza siano stati richiamati di gran corsa per far fronte alle esigenze di sicurezza di cui il contractor privato G4S non è stato in grado di garantire la gestione.
La notizia è drammatica ma, come in ogni situazione estrema, non mancano gli aspetti divertenti. Nella sua furia di accumulazione, la Olympic Delivery Authority (ODA) si è spinta a stabilire una lista di parole ammesse e vietate negli annunci pubblicitari. Ad esempio, è passata indenne al vaglio degli occhiuti controllori la frase vergata sulla lavagna fuori da un pub, che recitava: “Guardate i giochi olimpici qui con una birra fresca. Copertura live tutto il giorno”. Meno fortuna è toccata ai poster che lo stesso pub aveva affisso in precendenza, che sono stati censurati: “Grogglinton’s Bitter: guardate qui le Olimpiadi”. La lista delle parole proibite avrebbe fatto rabbrividire perfino il George Orwell di 1984: sono tabù infatti “oro”, “argento” e “bronzo”, “estate”, “sponsor” e perfino “Londra”, qualora vengano impiegate in contesti tali da dare l’impressione di un “collegamento formale” alle Olimpiadi.Ma non si ferma qui il delirio delle corporation e di chi le protegge (certo non per motivi ideologici legati alla fede cieca nelle virtù del “libero(?)” mercato). Le sue deliranti proibizioni minacciano perfino quella che, citando i Monty Python, costituisce il contributo britannico alla cucina internazionale, ovvero la chip, volgarmente detta patatina fritta. In ben 40 luoghi santificati come “ufficialmente olimpici”, a ben 800 ristoratori è stato vietato servire il gustoso contorno / snack al fine di garantire l’esclusiva ai Mac Donald’s, le cui patatine sono certamente più olimpiche delle altre.
Se il lato ufficiale delle competizioni olimpiche è sfigurato dalla violenza idiota del grande business, cosa succederà lontano dai riflettori? Il quotidiano scandalistico britannico Daily Mail racconta come i lavoratori stranieri (temporanei) che lavoreranno per la pulizia del Parco Olimpico siano accampati in una specie di bidonville a Londra Est. Le condizioni igienico sanitarie del “villaggio” dei pulitori sono degne di uno slum (1 gabinetto per 25 persone, una doccia ogni 75), i container fanno entrare l’acqua piovana, mentre la paga è da fame (meno di 700 euro al mese).
Secondo i responsabili della ditta che ha vinto l’appalto (la Spotless International Services) è tutto in regola, anche se le foto di un container minuscolo nel quale devono dormire quattro persone in due cuccette separate da uno spazio di una trentina di centimetri documentano una situazione ben diversa. Addio, Olimpia!
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di Fabrizio Casari
Altri tempi quelli nei quali Zico e Falcao, Ronaldo e Mathaus, Ibrahimovic ed Eto’o facevano carte false per venire a giocare in Italia. Si diceva, allora, che il nostro era il campionato più interessante al mondo, nonostante Calciopoli. Finiti quei tempi? Per ora finiti i “piccioli”, che forniscono sempre le motivazioni profonde dei campioni del pallone.
Da un paio d’anni a questa parte sono i nostri talenti ad emigrare: da Eto’o a Pastore e Thiago Motta, ed ora a Lavezzi, Ibrahimovic e Thiago Silva, Borini e Verratti (e forse Snejider), gli addetti alla classe pura, gli uomini che “fanno reparto da soli”, che “cambiano le sorti di una partita con una giocata” e via incensando, fanno le valigie e lasciano il Belpaese. Seguiti o anticipati, a seconda dei casi, dagli allenatori migliori che l’Italia ha sfornato: Capello, Mancini, Spalletti, Ancelotti.
Certo: regime fiscale e mancanza di stadi di proprietà, peso degli ultras, ridotto merchandising e norme sorpassate non aiutano il calcio italiano ad evolversi e non sono certo dei buoni campionati europei che possono invertire la tendenza. Si potrà legittimamente pensare che gli investimenti miliardari nel resto d’Europa hanno il carattere della volatilità e che l’espansione verso ogni paese del flusso di denaro genererà, nel medio periodo, un tourbillon di giocatori che impediranno il formarsi di realtà stabili.
Ma intanto l’entrata in scena di sceicchi arabi e petrolieri russi, che ha trasformato i Berlusconi, gli Agnelli e i Moratti in signori appena benestanti, ha alterato profondamente gli equilibri calcistici europei, con una Premier League ed una Liga che surclassano la nostra Serie A, mentre la Premiere League francese e la serie A russa provano a fare capolino nel calcio che conta. Dovranno passare ancora molti anni prima che in Russia si veda un calcio affascinante e che il calcio francese diventi più attraente di quello italo-iberico o anglosassone, però non c’è dubbio che la tendenza generale è cambiata, dal momento che i sentimenti non lo sono affatto: si va dove ti porta il portafogli.
Anche perché si è sollecitati al viaggio dai cosiddetti “procuratori”, che sguazzano in questa partita di mercante in fiera come squali tra i lucci e strappano percentuali milionarie per ogni passaggio dei loro assistiti. Nel circo Barnum del calciomercato godono tutti: i procuratori che guadagnano, i giocatori che incrementano, i direttori sportivi che si agitano molto e cercano di farsi la nomea di “Re del mercato” con la quale poi riciclarsi altrove per incrementare stipendio e ruoli; i presidenti che si fingono mecenati e tengono buoni la tifoseria ricavandone immagine pubblica e peso specifico nel sistema; i giornalisti che spacciano chiacchiere per confidenze esclusive e diventano “specialisti”; i giornali che vendono copie perché quando il calcio è mercato, vincono tutti e non perde nessuno.
D’altra parte il mercato, quando parla italiano, risulta almeno bizzarro. Davvero si ritiene che un giocatore senz’altro di prospettiva come Verratti valga un investimento pesante in tempi di fair play finanziario? O che Destro, ottimo attaccante del Siena (ma non altrettanto nel Genoa) valga sedici milioni di euro? Su Destro si è scatenata un’asta tra Juve, Inter, Roma e Milan, con i giallorossi in pole position, ma sedici milioni di euro per un buon girone di ritorno in una provinciale si possono giustificare solo con un atto di fede. Giocare a Siena non è lo stesso che farlo a Milano, Torino o Roma, men che mai in Europa.
Il suddetto quadro genera ansia tra gli osservatori, eppure a ben vedere si potrebbero trovare motivi di soddisfazione. In primo luogo potremo risparmiarci le consuete apparizioni televisive dei neo acquistati che giustappunto ricordano che sin da bambini facevano il tifo proprio per la squadra che li ha appena ingaggiati; che fanno le foto con le nuove maglie e sorrisi pari agli emolumenti o che, addirittura, cambiano casacca e, giacché ci sono, pure opinioni.
L’ultimo è stato Lucio, che arrivato a prezzi di saldo dal Bayern Monaco all’Inter, con la casacca nerazzurra è diventato un giocatore vincente: il Triplete ed altri trofei (campionato del mondo per club) non li aveva mai vinti con le squadre dove aveva militato. Ebbene, nonostante ciò Lucio ha scelto le parole più acide e ridicole verso l’Inter, ammettendo a denti stretti che trescava con la Juventus già da Giugno scorso.
Marotta magari nell’occasione non avrà avuto da ridire circa l’avvicinamento ad un tesserato di un altro club senza il permesso, ma la Juventus, come è noto, ha una decisa difficoltà ad interpretare i regolamenti quando non le conviene.
Ma Lucio, che fino a tre mesi prima cantava “senza rubare, vinciamo senza rubare” o “chi non salta bianconero è”, improvvisamente si scopre ultras juventino e parla di scudetti di cui non conosce nulla. Perché? Per due milioni e mezzo di euro all’anno: vi sembrano pochi? Non sufficienti a sputare nel piatto dove si è mangiato?
Beh, questione di stile come diceva la canzone. E forse anche di scarsa conoscenza della matematica, giacchè il difensore brasiliano era il più scatenato nei festeggiamenti per il 18° scudetto dell'Inter. Pugni sul cuore e baci sulla maglia nerazzurra con commozione annessa. Ma se l'Inter di scudetti ne ha 18, la Juve non può averne 30. Glielo hano spiagato a Vinovo mentre l'istruivano su cosa dire ai media?
Certo, molti altri hanno lasciato l’Inter o il Milan o la Juventus senza per questo schizzare fango appena firmato il nuovo contratto, ma stiamo parlando di fuoriclasse, non di campioni. Lucio si è sempre detto un atleta di Cristo, calciatore fedele a Dio. Il dio denaro?
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di Silvia Mari
La domanda è arrivata in conferenza stampa alla vigilia della partita con la Croazia e Cassano, scivolando anche su qualche congiuntivo e su un incipit bizzarro tipo “se penso quello che dico”, ha dato fondo alle sue riflessioni sul tema dell’omosessualità nel mondo del calcio. Li chiama froci e non omosessuali, attingendo tutta l’ispirazione al linguaggio offensivo e insultante della strada. Prosegue con risatina da macho che la sa lunga e afferma “problemi loro”, augurandosi di non trovarseli in Nazionale. Mancava la battuta sul bagno e sulla saponetta per completare il corollario dei più osceni e volgari luoghi comuni.
Non ci aspettavamo certo un’argomentazione di rilievo da un uomo che sa giocare a pallone e non risulta sappia fare molto altro. Non proprio a dire il vero. Si era cimentato persino scrittore, narrando le sue gesta di amatore seriale. Ma se quel mostro letterario gli è stato perdonato dalla moglie Carolina problema non si pone.
Quel che Cassano sa bene è di essere un mito sportivo nazional-popolare, beniamino di moltissimi giovani tifosi e di avere un potere di comunicazione, nonostante le cose che dice e come le dice. Quando si è mediaticamente esposti la cautela dovrebbe essere la parola d’ordine, prima ancora di decidere di dire tutto quello che si pensa e magari di farlo con toni e modi non proprio di stile. Non è questione di sintassi, ma è rischio di condizionamento e di cattivo esempio.
Subito sono partite operazioni di biasimo e di dissociazione. Non a caso proprio Prandelli, ct della Nazionale, aveva non molto tempo fa espresso desiderio di apertura e non discriminazione nei riguardi dei calciatori omosessuali. Al calcio non fa differenza il gusto sessuale, come per niente altro e, a quanto pare, nemmeno troppo l’intelligenza e l’istruzione.
A chi lo difende con la tesi della sincerità e il valore dell’estemporaneità che tanto fa breccia nelle tv degli italiani modellate sullo spirito dei reality, andrebbe ricordato quale è il valore dello sport. Quella scuola di inclusione e rispetto, quella filosofia di lealtà e di spirito di squadra che in una battuta da bullo il mito del Milan ha buttato via.
E così al calcio nazionale, funestato dall’ombra della corruzione, mancava solo una definitiva caduta di stile per ricordarci quanto sia tutto troppo lontano dalla bellezza dello sport. Anche un calciatore di talento, un fuoriclasse vero che ancora una volta manca l’occasione di dimostrarsi un vero campione.
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di Fabrizio Casari
La Domenica dell’addio di tanti campioni ha sbattuto con violenza mediatica la carta d’identità del nostro campionato mediocre. Lacrime, applausi, dichiarazioni e lettere d’addio sono state la scenografia obbligata per la fine di un torneo che per molti aspetti ha segnato la fine di un ciclo storico del calcio italiano.
Si è concluso con l’addio di tanti giocatori che hanno in parte rappresentato il mondo delle all stars di questi ultimi quindici anni: Del Piero, Inzaghi, Gattuso, Nesta, Zambrotta, Cordoba ed altri hanno infatti rappresentato una parte non secondaria della qualità del calcio italico nei campionati e nelle competizioni internazionali.
L’abbandono più doloroso è stato proprio quello di Del Piero; ma mentre Gattuso e Nesta, Zambrotta e Inzaghi scelgono volontariamente di farsi da parte, Del Piero é stato cacciato dalla dirigenza juventina. Non é una differenza irrilevante e qualifica in senso negativo le scelte di casa Agnelli, dove una dirigenza incapace di essere grande nel momento del trionfo non ha voluto e saputo offrire un altro anno da capitano al suo giocatore più rappresentativo.
Del Piero, infatti, oltre a rappresentare insieme a pochi altri la cifra tecnica italiana migliore per tanti anni e ad aver offerto prove di fedeltà assoluta ai colori della Juventus, è uno dei calciatori italiani più corretti e tra i pochissimi in grado di declinare una frase in italiano. Davvero meritava un altro anno a Torino e chissà che quella che ormai a Milanello chiamano sindrome Pirlo il prossimo anno non venga affiancata a Vinovo dalla sindrome Del Piero.
E’ comunque stato l’anno che ha visto la Juventus tornare alla vittoria, dopo il lungo purgatorio post-calciopoli. Una vittoria meritata che ha nella infinita querelle legale da parte del rampollo di casa Agnelli l’elemento più penoso, anche perché mai si è sentita, da parte della famiglia, la necessità di chiedere scusa per quello che i vertici dei bianconeri condannati in ogni grado di giudizio fino ad ora celebrato hanno inflitto al calcio italiano.
Altro che stelle e stelline: qualcuno, causa Moggi, Giraudo e altri, proprio sul campo si è visto privare di vittorie e, prima ancora, di giustizia, essenza stessa - quest’ultima - di ogni competizione. Proprio sul campo quella macchina indegna gestita da Juventus e Milan ha impedito per diversi anni la regolarità della competizione sportiva.
L’ultima giornata doveva comunque emettere due verdetti: quello per la zona Champions e Europa League e quello per la retrocessione. La lotta per l’ingresso in Europa più importante ha visto prevalere l’Udinese e, in fondo, per quanto visto nel corso della stagione, il verdetto é giusto.
Quello appena finito è stato comunque un anno di scarso valore tecnico, caratterizzato da polemiche arbitrali e panchine saltate, e che ha visto sì la Juventus imbattuta, ma anche con un numero di vittorie (e di punti) minore degli anni scorsi. La stagione appena finita, poi, ha le sue riconferme (l’Udinese, che migliora la sua classifica rispetto all’anno precedente pur avendo venduto i suoi pezzi migliori) e le sue delusioni: Milan, Inter, Roma e Fiorentina sono le squadre cui è possibile intestarle.
Ha significato la fine del ciclo vincente interista; la squadra di Moratti non mancava la partecipazione alla Champions da undici anni. L’Inter ricomincerà da quello di buono che si è visto da quando Stramaccioni è arrivato sulla panchina. Si trova di fronte alla necessità di dover rinnovare in profondità ma senza avere le risorse economiche per innestare grandi campioni. Per Moratti si apre una strada che forse varrebbe la pena percorrere: nei dieci livelli di calcio regolamentari, dai pulcini alla Primavera, l’Inter è la prima squadra ovunque; dunque in assenza di un portafoglio adatto all’ingaggio di fuoriclassei sembrerebbe ovvio ricorrere ai giovani di talento che si hanno in casa, corroborandoli con tre o quattro acquisti di alto livello con cui ripartire.
Il Milan, che ha salutato tanti suoi giocatori famosi che molto hanno dato alla causa rossonera e al calcio italiano, dovrà sostanzialmente ricostruire grande parte dell’impianto di squadra e la capacità di dotarsi di giocatori all’altezza delle ambizioni è necessaria, anche per convincere Ibrahimovic a rimanere a Milano. La riconferma di Ibra, la capacità cioé del club di Via Turati di reagire al canto delle sirene che viene dal Real Madrid ad insidiare il fuoriclasse svedese, sarà la prima dimostrazione pratica di come Galliani intenderà procedere. Ben altro che Montolivo serve al Milan.
Il Napoli, protagonista di un’annata con alti e bassi, ha comunque svolto un buon campionato, evidenziando semmai come il suo straordinario attacco ed un centrocampo di qualità e corsa abbiano risentito di una fase difensiva lacunosa, primo elemento da correggere in sede di mercato estivo. Se Lavezzi dovesse partire, il trio delle meraviglie verrebbe ridotto a duetto, non è certo il pur positivo Pandev a garantire un campionato ad alti livelli.
La Lazio, che pure ha fatto un buon campionato, ha pagato la mancanza di rinforzi a Gennaio, che l’hanno costretta a giocare senza titolari e prime alternative in diverse occasioni causa infortunio dei titolari. Il suo presidente è stato decisivo - in negativo - nel privare al momento giusto la squadra di Reja del carburante necessario a proseguire la corsa. Ciononostante, il piazzamento della Lazio non va disprezzato e Reja, nonostante i tira e molla con Lotito, dovrebbe poter essere riconfermato alla guida della squadra. Urgono però due rinforzi in attacco per sostituire Klose e Rocchi e uno almeno due centrocampo per sostituire Brocchi e Hernanes.
La Roma con Montella vedrà probabilmente un cambio di direzione rispetto al modello di gioco disegnato da Luis Enrique e la possibilità di correggere gli errori di mercato con tre o quattro elementi di spessore può disegnare una squadra di sicuro interesse. Sarà forse l’ultimo anno di livello assoluto di Francesco Totti e pensare fin da ora a come sostituirlo non sarà semplice. La querelle con Pulvirenti andrà sistemata con giocatori o soldi, mentre la via del ritorno dai prestiti di alcune scelte di Luis Enrique dovrà essere affollata. Molti dei Primavera della Roma sono decisamente migliori dei vari Josè Angel, Bojan o Cicinho.
La Fiorentina deve davvero ricostruire tutto e partire da Oriali sulla plancia di DG sarebbe cominciare con il piede giusto, mentre desta qualche perplessità l’arrivo di Ranieri, soprattutto se si vuole attingere dal vivaio una parte dei rinforzi. Lo scontro tra la famiglia Della Valle e la tifoseria dovrà però essere risolto, pena non vedere la luce fuori dal tunnel.
E’ stato anche l’anno che ha visto emergere nuovi giovani allenatori italiani di sicuro avvenire: da Conte a Sannino, da Montella a Pioli, da Stramaccioni a Colantuoni, il mestiere di allenatore sta diventando un fiore all’occhiello (forse l’unico) per il nostro calcio. Lo stress denunciato da Guidolin e Luis Enrique, però, è l’altra faccia della medaglia di un mestiere che ormai denuncia l’esasperata tensione con la quale si allena. Detto ciò, lo stress che ci preoccupa non è mai stato quello dei miliardari.
E’ finito poi un campionato infamato come mai dallo scandalo del calcio-scommesse che, per l’ampiezza numerica di squadre e giocatori coinvolti, sembra rappresentare la cifra esatta, o forse sottostimata, della dose di marcio che attraversa il calcio italiano.
La classifica finale, visibile da ieri, rischia però di venire in parte modificata dalla giustizia sportiva, chiamata a pronunciarsi a seguito della chiusura delle inchieste che da Cremona a Napoli entro la fine del mese verranno presentate anche al vaglio degli organi federali. Sono decine i giocatori, le partite e le squadre oggetto delle diverse inchieste e tutto lascia pensare che quello che sta per avventarsi sull'Italia del pallone sarà un vero tsunami. La speranza é che la giustizia non faccia sconti a niente e a nessuno.
Si passa ora alla Nazionale. Prandelli ha diramato la lista dei primi 32 giocatori da portare all’europeo e sono poche le obiezioni che si possono muovere alle scelte del CT. Ci sarà modo e tempo per tornarci su, ma ci piace chiudere, oggi, salutando la fine di un torneo che non ci è piaciuto e dolendoci, ancora una volta, di aver dovuto assistere, tra tanta mediocrità, anche a una tragedia: quella della fine assurda e infame di Piermario Morosini.