di Tania Careddu

Su duemilacentodiciassette studenti di terza media, l’81 per cento è collegato. Ad internet, ventiquattro ore su ventiquattro, complice il crollo dei costi di accesso e la possibilità di connettersi dallo smartphone in qualunque momento della giornata. E internet uguale social: whatsapp lo usano otto adolescenti (e pre) su dieci, il 75 per cento del campione ha un profilo facebook, il 42 per cento utilizza Instagram, il 67 per cento “sta” su ASK e il 23 per cento su twitter. Se per l’87,6 per cento dei ragazzini internet è utile perché si può stare in contatto con gli amici, per il 60,2 per cento è irrinunciabile.

E così internet è diventato il “primo pensiero” della giornata. E anche l’ultimo: cresce, infatti, l’abitudine a navigare durante le ore serali e notturne, interferendo con il sonno e procurando conseguenze non trascurabili sulla salute. E che possono sfociare in comportamenti a rischio: da quelli rivolti a sconosciuti, tipo “postare” foto (anche provocanti) o rivelare la scuola che si frequenta o, addirittura, accettare proposte di sesso on line, al cyberbullismo.

Più esposti, e non solo sul web, quelli che sono iscritti a più di tre social. Questi, emerge dall’indagine Generazione I LIKE, condotta dalla Società Italiana di Pediatria, fumano e bevono di più. E pare che a una più ampia collezione di “mi piace” corrisponda una maggiore fragilità. Si, perché in un’età di trasformazione fisica che, spesso (ma non vuol dire che sia fisiologico, anzi), è scissa da quella psichica, l’insoddisfazione è riversata sull’aspetto: sei su dieci vorrebbero essere più magre – il 35 per cento di loro ha già fatto una dieta - avere più seno, e otto su dieci gradirebbero delle gambe più belle. Alle brutte, si ubriacano con il vino nei piccoli comuni e con la birra e i superalcolici nelle metropoli, fumano canne e pensano che quattordici anni siano un’età ragionevole per poter cominciare a intrattenere rapporti sessuali. Bando, di contro, allo sport: una rinuncia che loro attribuiscono alla mancanza di risorse economiche.

Per un adolescente su tre, infatti, la crisi economica ha avuto ripercussioni sulla propria famiglia. Ma se avessero mille euro in tasca indirizzerebbero i loro acquisti verso scarpe, abbigliamento, viaggi, smartphone e playstation. Il denaro di cui dispongono è utilizzato anche per giocare d’azzardo. Pur se vietato ai minori, il 13 per cento ha praticato il “gambling a soldi”: qualcuno ha vinto e il 32 per cento è orientato a ripetere l’esperienza. “La riflessione che dobbiamo fare di fronte a questi numeri, che a rigor di legge dovrebbero essere zero per cento, è duplice”, sostiene il curatore dell’indagine, Maurizio Tucci.

Che continua: “Da un lato, dobbiamo constatare la pressoché nulla deterrenza rappresentata dai 'divieti ai minori’ di cui il web è pieno. Il ‘divieto’ passa dall’essere totalmente ignorato a essere (come proprio un tredicenne ha detto in uno dei focus group che realizziamo a corollario dell’indagine quantitativa) “una traccia da seguire”.

"Dall’altro - prosegue Tucci - dobbiamo considerare che, al di là della violazione del divieto, questi giocatori in erba hanno anche modo di gestire somme di denaro e utilizzarle in ambiti in cui dovrebbe comunque avvenire un controllo sull’identità.

I meccanismi di accesso al gioco on line, la consuetudine di molti di questi a offrire gratuitamente fiches di ‘benvenuto’, e i sistemi di pagamento ammessi, sono però tali per cui non è difficile, anche per un minorenne, magari grazie a un maggiorenne compiacente, avere esperienze di gioco”.

Sono giovani sfiduciati sia verso i rapporti umani più profondi (genitori e amici, e più fiduciosi verso le forze dell’ordine e i soldati), sia verso le prospettive future: in buona sostanza, un adolescente su due ha la convinzione che la vita di un coetaneo di trenta anni fa fosse migliore di quella di un ragazzo di oggi. Per l’assenza dei social network? “I social network non vanno demonizzati, perché hanno anche aspetti di grande utilità e socializzazione. Il problema, come sempre, è l’abuso. La migrazione degli adolescenti dal computer al telefonino rende difficilissimo per i genitori rendersi conto del tempo effettivamente speso dai loro figli sui social.

E’, inoltre, difficile dettare regole di comportamento, dal momento che la stragrande maggioranza degli adulti non ha idea di come si sviluppa la socialità sui nuovi social network, di come si strutturano le relazioni, non conosce il linguaggio utilizzato. In questo contesto (e non solo), parlare di controllo non ha più molto senso. Le nostre risorse per prevenire comportamenti a rischio sono il dialogo, l’ascolto, l’etica comportamentale che noi adulti di riferimento abbiamo insegnato ai figli. I quali prima di essere adolescenti sono stati bambini”, dichiara il presidente della SIP, Giovanni Corsello. Questione di feeling.

di Tania Careddu

E’ bastata una grandinata, seppure dai chicchi di enormi dimensioni, a far crollare l’interno di una scuola elementare di Lazzeretto, frazione di Cerreto Guidi, vicino a Empoli. Danni: cinque feriti, tutti adulti. E’ solo l’ultimo, in ordine cronologico, dei trentasette episodi del tipo verificatisi in quest’anno, a confermare quanto riportato dal XII Rapporto su “Sicurezza, qualità, accessibilità a scuola” di CittadinanzAttiva. E cioè che le scuole italiane non sono sicure.

Su duecentotredici strutture monitorate, quattro edifici su dieci hanno una manutenzione carente, oltre il 70 per cento ha lesioni strutturali sulla facciata esterna, nei corridoi, nelle mense e nei bagni, e le aule presentano distacchi di intonaco. Fatiscenti i laboratori, le palestre e le segreterie.

Gli interventi per porre riparo alla situazione vengono attuati in un caso su tre. Mancano scale di sicurezza, vetrate a norma, porte con apertura antipanico. Solo una scuola su tre possiede il certificato di agibilità statica, di agibilità sanitaria solo il 15 per cento degli istituti, e il 23 per cento quello di prevenzione incendi. I cortili, centosettantotto su duecentotredici, con mura di cinta nell’80 per cento dei casi, hanno una pessima recinzione in una scuola su cinque.

Il loro uso è promiscuo: da magazzini, con ingombri e rifiuti non rimossi, a parcheggi per personale e famiglia. In due cortili su tre è presente un’area verde, utilizzata come spazio ricreativo o sportivo. Dove, nell’80 per cento delle scuole, si svolgono attività didattiche, e, nel 49 per cento dei casi, culturali, sportive e ricreative. Se non fosse per la cattiva abitudine di lasciare i cancelli aperti durante le ore di lezione. Anche perché il sistema di vigilanza è attivo nel 77 per cento delle scuole ed è svolto da collaboratori scolastici. Cosicché, oltre a essere dubbia l’incolumità degli studenti, si possono verificare atti di vandalismo ed episodi di criminalità all’interno degli edifici.

Più della metà dei quali è ubicata in zone ad alto rischio sismico, una su quattro in aree a rischio idrogeologico, il 7 per cento in quelle a rischio industriale, il 5 per cento a rischio vulcanico, il 14 per cento è sistemata in luoghi a elevato inquinamento acustico, il 2 per cento “contiene” amianto e radon.

E abbondano le barriere architettoniche: una scuola su quattro è priva di posti ad hoc, nel cortile interno, per disabili e quasi una su due non ne possiede nemmeno nei pressi dell’edificio; sebbene nel 46 per cento di essi vi sia un ascensore, o non è funzionante o non è abbastanza capiente per consentire l’ingresso di una carrozzina per disabili.

La quale non trova alloggiamento, talvolta, nemmeno nei banchi (che dovrebbero essere adattabili a uno studente diversamente abile) e fa difficoltà ad accedere ai bagni, sprovvisti, per tutti, di carta igienica, di sapone, di asciugamani e di scopini per il wc. Anche le aule computer, in un caso su tre, non possiedono sussidi didattici adatti agli studenti inabili, i quali non possono neppure usufruire delle attrezzature tecnologiche.

Unica nota positiva: il piano di evacuazione è presente in tutte le scuole e le prove per la sua applicazione sono state effettuate nel 90 per cento di esse, per lo più relative al rischio incendio e sismico. Riscontrabile, soprattutto in Sicilia e in Campania, in più di quattromilaottocento scuole, e in Calabria, in circa tremila. Almeno si può scappare.

di Tania Careddu

In dieci anni di crisi, diecimila notizie di casi criminali e undici notizie sui bambini soldato. Centoquarantatre notizie sul royal baby in sei mesi e zero notizie sulla Repubblica Centrafricana. E’ il risultato, esposto nel "10° Rapporto. Le crisi umanitarie dimenticate dai media" di Medici Senza Frontiere e Osservatorio di Pavia, di un’analisi sulla rappresentazione, nei telegiornali italiani, delle crisi umanitarie internazionali. Di un decennio, dal 2004 al primo semestre del 2014, importante dal punto di vista degli sconvolgimenti geopolitici avvenuti in molte aree del mondo.

E, di fronte all’inasprirsi di alcune crisi, il trend è apparso di segno opposto: dalle agende dei telegiornali di prima serata, le crisi scompaiono progressivamente. E sempre peggio: milleseicento notizie che si occupano di crisi umanitarie internazionali nel 2013 versus le cinquemilasettecento del 2004. E a sparire sono quelle crisi umanitarie che non soddisfano i requisiti di notiziabilità, ossia che non hanno le caratteristiche tipiche dei grandi eventi epocali, con tutta la loro portata di drammaticità e gravità.

Guerre, malattie endemiche, emergenze sanitarie, carestie, malnutrizione, riaffiorano sui nostri schermi solo al verificarsi di eventi speciali e specifici che li rendono (momentaneamente) “veri” e “reali”. La loro visibilità viene occultata da scenari di conflitti che coinvolgono i principali attori della politica internazionale o che accadono in aree regionali strategiche (per chi le racconta).

Per l’eccezionalità dell’evento, per la prossimità, la possibile minaccia per l’Italia e il coinvolgimento di occidentali - più il contesto di crisi è vicino all’occidente per ragioni politiche, geografiche e culturali o perché è sede di sequestri e attentati ai danni di cittadini occidentali, tanto più alta è la possibilità che trovi spazio tra le notizie nei nostri tg - oppure per la presenza di testimonial vip che la descrivono.

Il record di attenzione spetta ad una zona ben definita: Israele, Libano, Palestina, Iraq e poi Afghanistan. Si, perché quando si parla di crisi nell’occhio del tubo catodico, in due terzi dei casi, con ventitremila e rotti notizie in dieci anni, ci si riferisce a scenari di guerra con, però, un’attenzione marginale alle condizioni dei paesi teatri dei conflitti, alla situazione della popolazione civile, al coinvolgimento di vittime minori, alla difficile posizione delle donne.

Si privilegia, piuttosto, la “cronaca degli attacchi e degli attentati” che si esaurisce nel resoconto dell’accadimento. Con un focus particolare sulla partecipazione dei militari italiani nelle missioni o sulle strategie internazionali per risolvere i conflitti.

Va da sé che fra le crisi più citate ci sono quei contesti che godono di una “visibilità continua” oppure quelli che attirano l’attenzione in concomitanza di eventi tragici, secondo una logica informativa catastrofica, la quale da spazio agli eventi spettacolari, provocando una “telegenia dell’orrore”.

Cioè, tanto più un evento rompe la routine di fallimenti a cui siano abituati, tanto più entra a gamba tesa nei telegiornali. Oppure hanno una “visibilità a singhiozzo”, quando  i riflettori si accendono su quell’emergenza in coesistenza di alcuni fatti significativi. Vedi le crisi umanitarie connesse alle calamità naturali.

Che sono state affrontate in duemilacinquecento servizi; fra questi il triste primato di visibilità va allo tsunami del sud est asiatico, seguito dal terremoto di Haiti e dalle alluvioni in Indonesia, Pakistan e Filippine. E poi, esistono le crisi invisibili. Dimenticate eppure gravi. Ma immobili tanto da rimanere silenti fino all’accadere di eventi più idonei a essere urlati nei tempi delle ‘rap news’ dei telegiornali sincopati.

E’ il caso della Repubblica Centroafricana assente in dieci anni di analisi, dei conflitti in Uganda e in Sierra Leone, nel Mali e in Congo - nominato solo nelle nove notizie relative al blocco delle adozioni internazionali a seguito degli scontri tra ribelli e forze governative ma nessun riferimento al conflitto cronico che infiamma il paese da oltre venti anni.

E’ questo un caso di “provincializzazione” e di “decontestualizzazione” delle notizie che, insieme alla “personalizzazione”, finisce per riservare maggior spazio al nostro Belpaese piuttosto che a quello in cui è in corso la crisi umanitaria, la quale rimane sullo sfondo perché il suo approfondimento richiede tempi poco compatibili con i notiziari. Che preferiscono aprire a tabloidizzazione e infotainment.

Via, dunque, a elementi di intrattenimento, cronaca rosa e gossip: trecentottanta notizie in sei mesi dedicate alle nozze di William e Kate contro le undici dedicate alle condizioni drammatiche dei bambini soldato; nel 2007 l’estate di Paris Hilton merita l’attenzione di sessantatre notizie mentre la Repubblica democratica del Congo tre; le vacanze della coppia Briatore-Gregoraci trentatre notizie versus dodici per un mese di colera nello Zimbabwe.

E ancora: per il caldo torrido del 2009 sono state scritte duecentoquarantasei notizie contro le centosedici per un anno di fame; nel 2012 impazza la fine del mondo secondo la profezia Maya riportata in trentanove notizie e zero per le malattie tropicali, nel 2013 otto notizie riservate ai disordini decennali del Sud Sudan e settantatre alle nozze e alla maternità di Belen Rodriguez.

E così cadono nell’oblio, con una media di trenta notizie all’anno, la povertà, la malnutrizione e le emergenze sanitarie. A meno che l’Ebola non oltrepassi i confini nazionali.

di Tania Careddu

“Sono stanco, la sera non riesco nemmeno a dormire da quanto sono stanco. Non voglio più lavorare così tanto, voglio vivere tranquillo e avere qualcuno che mi dice di andare a scuola. Io voglio studiare. Ho lavorato per quattro settimane dalle sette del mattino all’una di notte. Dormivo tre ore, guadagnavo centocinquanta euro a settimana. Vorrei guadagnare almeno duecento euro da mandare a casa. Se potessi esprimere un desiderio, vorrei fare lo chef e girare il mondo”. M., tredici anni, egiziano. Uno dei trecentoquarantamila minori tra i sette i quindici anni coinvolti nel lavoro minorile in Italia.

Paese fra quelli europei, stando a quanto si legge nel Dossier 2014 di Save the children ‘Piccoli schiavi invisibili’, nel quale è stato segnalato il maggior numero di vittime accertate e presunte. Quelle presunte sono ventottomila, coinvolte in attività definite a “rischio di sfruttamento”: in attività a conduzione famigliare, nel settore della ristorazione, dell’artigianato, nella vendita (anche ambulante), nell’edilizia (manovali, imbianchini, carpentieri), lavoro di campagna e maneggio degli animali. Sono soprattutto maschi e oltre il quaranta per cento ha avuto esperienze lavorative al di sotto dei tredici anni.

Gli stranieri rappresentano il 7 per cento e provengono soprattutto dall’Eritrea, dove i connazionali adulti approfittano della situazione di vulnerabilità o mancanza di conoscenze e informazioni per estorcere denaro in cambio di servizi, come accoglienza notturna, passaggio verso il Nord Italia, accompagnamento ai servizi sociali; dall’Afghanistan, in condizioni di forte rischio di sfruttamento quando questo diventa l’unico modo per guadagnare soldi necessari a proseguire verso la loro meta finale, e dall’Est Europa, sfruttati in attività illegali.

Partono anche dall’Egitto, perché stimolati dai racconti di viaggi portatori di grandi successi economici che ostentano una ricchezza mai ottenuta in Italia o dai post su Facebook che alimentano false speranze. Oppure per l’instabilità politica del loro Paese, la mancanza di principi e ideali o del senso di appartenenza al proprio Stato.

Per intraprendere il viaggio contraggono un grosso debito che dovrà essere ripagato con i soldi che potenzialmente il minore dovrebbe inviare alla famiglia una volta giunto nel Belpaese ed essere stato inserito nel mondo del lavoro, a qualunque condizione.

Sfruttati: in piccole attività commerciali, prevalentemente a Roma, nei mercati generali o negli autolavaggi, dove lavorano per dodici ore consecutive a fronte di paghe irrisorie, pari a due o tre euro l’ora.

Un lavoro cosi pesante da causare dolore fisico che cercano di alleviare con l’assunzione di farmaci oppiacei antidolorifici. Nei negozi di fiori, invece, o vendendo ombrelli per strada e fazzoletti ai semafori, è la sede di lavoro dei minori del Bangladesh. I quali, soprattutto nella Capitale e a Napoli, sono impiegati in lavori continuativi, spesso senza retribuzione.

Quelli più a rischio sono coloro che non hanno conoscenza, che vivono in condizioni di isolamento e dormono per strada senza possibilità di accesso ai servizi di base, compresi quelli sanitari. A volte, tutti loro, entrano nel circuito della giustizia per il coinvolgimento in attività illecite che hanno cominciato parallelamente all’acutizzarsi di problemi a scuola, culminati in bocciature o abbandoni: furti in appartamenti o in negozi, furti di auto e spaccio di sostanze stupefacenti. Con questa dinamica: gli sfruttatori permettono di trattenere una parte del guadagno per dare loro una motivazione o una parvenza di autonomia. Per non sentirsi troppo sfruttati.

di Tania Careddu

Una violenza endemica, di genere, che oltraggia i diritti umani. Profondamente segnato da culture patriarcali e da dinamiche di potere decisamente sfavorevoli al sesso femminile. Silente eppure frequente: il matrimonio forzato. Occuparsene, per capirlo, significa interrogare le culture, affrontare l’accesso delle donne ai beni sociali ed economici nelle diverse realtà culturali. Soprattutto in quelle caratterizzate da società “poco sviluppate”, in cui le tradizioni definiscono l’identità individuale e sessuale e dove le scelte del nucleo famigliare prevalgono prepotentemente su quelle soggettive.

Le quali, spesso, sono condizionate da un gioco di valori, dall’esperienza (poca), da un calcolo del rapporto costi/benefici, dalla consapevolezza (o meno) di sé e del proprio desiderio. O ancora: affrontare la profonda e strutturale differenza tra i sessi, fare i conti con una limitazione della libertà degli individui e una prevalenza di usi, costumi e sistema di valori collettivi che investe uomini e donne, considerare i radicalismi religiosi, spesso abbinati a una rigida gerarchia di norme codificate dalla tradizione.

Vuol dire tenere in conto del livello di povertà - fattore primario di rischio per i matrimoni (forzati, ovviamente) infantili, dove l’obbligo di sposarsi imposto alle minorenni origina dalla speranza che il matrimonio porti alla famiglia dei vantaggi finanziari o sociali - o dal valore della “purezza sessuale” fisiologica delle ragazzine.

In Italia, secondo quanto si legge nella pubblicazione del dipartimento per le Pari opportunità “Il matrimonio forzato in Italia: conoscere, riflettere, proporre. Come costruire una stima del numero delle donne e bambine vittime in Italia di matrimoni forzati”, non è possibile quantificare il fenomeno per la sua liquidità, la difficoltà di racchiuderlo in una definizione univoca e condivisa, la carenza di basi di rilevamento e di rappresentatività statistica.

Si possono, però, considerare sia i casi di matrimoni forzati (isolati e sporadici) in cui agiscono fattori di costrizione tradizionali anche all’interno di famiglie native - dove si può rilevare un aumento dei matrimoni precoci, in particolare nel Sud Italia e in quelle piccole comunità in cui sia fortemente presente l’elemento del controllo della sessualità femminile e dell’onore familiare - sia le forme di conflitto che si generano nell’esperienza migratoria tra prime, seconde e terze generazioni di migranti.

Le cui figlie vivono in bilico tra due culture: laddove i legami identitari sono più radicati, le pressioni riescono ad avere presa anche fra quelle ragazze che, vivendo nel Belpaese, sembrano aver conquistato autonomia di pensiero e libertà di scelta. I matrimoni forzati si “celebrano” più frequentemente fra i migranti del subcontinente indiano e dei paesi musulmani. Gli immigrati del Marocco e dell’Albania rappresentano le comunità maggiormente degne di interesse, perché si tratta di gruppi in cui la folta presenza di donne da una parte e di seconda generazione dall’altra sono componenti importanti per poterne intravedere il rischio.

La cui concretizzazione ha serie conseguenze: intrappolamento in situazioni di violenza da parte dei mariti, gravidanze forzate o precoci, ridotto accesso all’educazione, abbandono scolastico e sempre più scarse opportunità di impiego, compromissione dello sviluppo psicologico. “Io non voglio fare del male, io voglio essere libera”. H., vittima di matrimonio forzato.


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