di Tania Careddu

I loro genitori arrivano in Italia, consapevolmente per sbarcare il lunario, inconsciamente per fornire ai figli l’opportunità di costruirsi un’identità. Che, però, stando ai dati raccolti dalla ricerca effettuata dall’Ocse, in collaborazione con il CNEL e il ministero del Lavoro e delle politiche sociali, è cosa tutt’altro che semplice. L’integrazione degli immigrati e dei loro figli in Italia, infatti, non è di scontata realizzazione. Anzi, i figli degli immigrati la pagano ancora a caro prezzo. Tutto passa per l’integrazione. A partire dalla scuola.

Il background socio economico più debole dei genitori pone diverse sfide per l’inserimento nel sistema scolastico italiano. Sebbene il ministero dell’Istruzione presti particolare attenzione alle scuole con un’alta percentuale di bambini immigrati sia attraverso l’allocazione di risorse economiche, sia attraverso la revisione dei programmi di studio e promuovendo la percezione dei minori stranieri come una risorsa, esistono ancora situazioni di discriminazione. Soprattutto per gli adolescenti – marocchini e cinesi, in particolare, che sentono un forte isolamento nella fase di arrivo.

Questa esclusione sociale, che si affievolisce con il passare del tempo, mina il rendimento scolastico, che migliora con l’intensificarsi dei rapporti con i coetanei italiani. Lo status di figlio immigrato aggrava poi ciò che è già un ostacolo alla mobilità verticale nella società italiana: la scelta della scuola superiore. Scelgono per lo più percorsi di formazione professionale, forse per l’impellente volontà di accedere rapidamente al mercato del lavoro ma è molto difficile che arrivino al diploma. L’abbandono scolastico, che fra i compagni italiani è pari al 18 per cento, è riconducibile anche alla tendenza a collocarli nelle classi con alunni più piccoli, abbassando la motivazione a frequentare.

In cifre: quattro figli di immigrati su dieci di età compresa fra i quindici e i ventinove anni, così come cinque immigrati su dieci arrivati in età scolare hanno chiuso i libri senza nessuna istruzione o con un livello molto basso. E così il passaggio dalla scuola al lavoro è più breve. Anche se certamente, quando accedono al mercato del lavoro, mostrano un basso livello di qualifica, un più basso livello di istruzione e un livello più alto di sovraqualificazione rispetto agli autoctoni.

Cioè, sembrano investire meno in capitale umano e non sembrano in grado di sfruttare appieno la loro istruzione. E così persisteranno (sempre) le differenze: già tra i figli degli immigrati si registrano tassi percentuali di disoccupazione più elevati rispetto a quelli degli italiani e quelli tra i quindici e i diciannove anni hanno più probabilità dei coetanei italiani di rientrare tra i NEET.

Senza considerare che, nel confronto internazionale, la percentuale di giovani tra i quindici e i ventinove anni con due genitori immigrati nel Belpaese è molto bassa, perché la maggior parte della popolazione immigrata è approdata in Italia negli ultimi due decenni. Però, nel 2011, quasi ottantamila bambini di genitori stranieri sono nati nello Stivale. Sono aumentati anche il numero di ragazzi in età scolare e la percentuale di minori sotto i diciotto anni, che è quasi triplicata.

Nello scorso anno scolastico, la presenza di alunni stranieri è stata più elevata nelle classi della scuola materna ed elementare. Con una variegata multietnicità. Ma senza politiche mirate, i figli di immigrati saranno costretti a condividere il destino della prima generazione, deludendo le aspettative dei genitori che hanno intrapreso il viaggio dell’emigrazione come una possibilità per riscattare la condizione della loro famiglia. Tutta.

di Rosa Ana De Santis

Domenica 13 luglio due cittadini originari della Costa D'Avorio, Yussif Bamba e Nicolas Gyan, rispettivamente di 35 e 37 anni, vengono feriti da Cesare Cipriano, proprietario di un’azienda di vigilanza privata. Figlio e padre, responsabili dell’agguato, sono stati fermati con l’accusa di omicidio volontario. Un litigio che si trasforma in un fatto di sangue.

Gli immigrati della zona minacciano una rivolta, uno dei due ivoriani feriti è persino estraneo all’intera vicenda. Il clima è incandescente e non è la prima volta.

Tornano alla memoria i fatti del 2008 e l’uccisione di sei immigrati per mano dei Casalesi. Barricate, strade bloccate, cortei di stranieri che in questa terra, tra il comune di Castel Volturno e Mondragone, vivono e lavorano in condizioni di estremo degrado, in balia della malavita locale e invisibili alle Istituzioni. Solo le associazioni impegnate nel sociale sono riuscite a stemperare la tensione a Pescopagano e a governare la situazione.

Ma questa è “terra di nessuno” e i malavitosi si mescolano agli sfruttati, ai lavoratori irregolari, in una rete su cui sembra impossibile intervenire a ripristinare la legalità. Uno dei due ivoriani feriti attende il riconoscimento dello status di rifugiato politico dal 2005. La storia assomiglia a quella di tanti, tantissimi clandestini persi nelle trame di una burocrazia che non riesce a tenere il passo con i ritmi e i numeri di una autentica emergenza umanitaria.

Il dato più inquietante di Castel Volturno è l’amalgama perfetta di illegalità tra l’ondata di un’immigrazione mal gestita e la malavita organizzata locale che è riuscita ad assoldare manodopera disperata e priva di diritti, riesce a far vivere persone in attesa di una sorte giuridica in condizioni indecorose e incredibilmente tollerate.

Il silenzio delle Istituzioni su Castel Volturno è un elemento importante da considerare e un utile metro di giudizio su tanta indolenza che l’Italia ha avuto nell’affrontare il fenomeno dell’immigrazione.

Il Ministro Alfano ha deciso di incontrare i sindaci di Castel volturno e Mondragone e al titolare degli Interni è stato chiesto di rilasciare il permesso di soggiorno per motivi umanitari a quanti, stranieri fantasmi, lavorano onestamente e sono sfruttati, costretti a vivere in degrado e abbandono.

Il lavoro sommerso è la prova regina di una mafia che in questa terra difficile riesce a governare cose e persone nel terrore e nell’illegalità, mostrando la sfrontatezza di avere più potere di uno Stato che miseramente arretra. Si arrende.

di Tania Careddu

Un quarto degli italiani non è cattolico. Un quinto non è religioso. Un decimo non è credente. E tre quarti si, sono cattolici. “Credenti cattolici”, che per il 75 per cento degli intervistati dalla Doxa per conto dell’associazione Unione Atei e Agnostici Razionalisti (UAAR), è l’espressione che meglio sintetizza il proprio credo religioso. Così composti: sono più cattoliche le donne degli uomini - 80 per cento contro il 69 per cento - con un’età superiore a cinquantacinque anni, abitanti del Sud e delle Isole, particolarmente in Puglia, Campania e Sicilia, e del Centro.

Al Nord Ovest, invece, vivono soprattutto gli atei e gli agnostici: sono per lo più di sesso maschile, hanno fra i quindici e i trentaquattro anni e appartengono a una classe sociale alta. Bassa, di contro, è quella nella quale si collocano i credenti cattolici, dei quali il 62 per cento è praticante.

Stesso valore percentuale quello che indica gli italiani che ritengono che la Chiesa cattolica condiziona la vita e le scelte delle persone in generale (principalmente in Piemonte, in Lombardia e in Calabria), fra i quali il 52 per cento ammette il condizionamento sulla propria, di vita.

A scegliere liberamente, soprattutto in Toscana, nel Lazio e nel Veneto, solo il 12 per cento e in una fascia d’età che supera i cinquantacinque anni. Emerge un’Italia spaccata in due, in evoluzione ma un po’ schizofrenica. Tanto che di fronte a questioni come il battesimo (confonde e terrorizza Bergoglio che ha dichiarato che “non è lo stesso, un bambino battezzato o un bambino non battezzato”?), ben il 61 per cento dei non cattolici è d’accordo nel farlo.

Tra gli agnostici il consenso è del 49 per cento e chi risponde negativamente è pari al 29 per cento tra gli atei. La tanto discussa ora di religione, invece, sembra mettere d’accordo quasi tutti: il 54 per cento è sfavorevole. Così come lo sono verso la scelta di docenti effettuata dai vescovi e pagati dallo Stato italiano.

Con ovvie differenze: tra i cattolici, i contrari sono il 48 per cento, tra gli agnostici il 69 e tra gli atei il 72. Mentre in Sicilia, il disaccordo è molto contenuto, in Toscana e in Puglia è particolarmente ampio. Anche perché, il 58 per cento dei cattolici pensa che “senza Dio” non si possa vivere bene, eccezion fatta per i credenti (il 36  per cento) del Veneto, della Lombardia e del Piemonte.

Si nota, in ogni caso, un’apprezzabile apertura verso la libertà d’espressione: “I non credenti devono poter criticare i credenti” e viceversa. L’atteggiamento positivo verso i “senza dio” è prevalente: sette credenti su dieci potrebbero scegliere un medico di famiglia ateo e il 57 per cento di loro ha rapporti di amicizia con gli atei. E se lo fosse anche il Presidente della Repubblica? A parte un irrisorio 27 per cento contrario, per il 46 per cento è indifferente.

Si legge nella Sacra Bibbia, Salmi 14: “Lo stolto pensa: ‘Non c’è Dio’. Sono corrotti, fanno cose abominevoli: nessuno più agisce bene”. Era proprio stolido: la corruzione c’è. Anche in grazia di Dio.

di Rosa Ana De Santis

E’ cominciata la diaspora del fine settimana dei bagnanti. I fanatici della tintarella e del mare lasciano l’urbe per mettersi in fila verso il litorale e i suoi stabilimenti alla moda. Costa caro il servizio ombrellone e lettino: 15 euro di media per infilarsi come polli in batteria sull’arena. Senza nemmeno potersi fare il bagno. Perché - attenzione - la notizia poco emersa dell’anno è questa. L’indagine di Goletta Verde e il lavoro dei biologi di Legambiente non lascia spazio ai dubbi.

Sono 13 le foci dei corsi d’acqua nel Lazio altamente inquinanti. Due le bandiere nere in testa: a San Felice Circeo per l’inquinamento alla foce del canale sulla spiaggia di fronte a Viale Europa e Via Gibraleon e anche a Waterfront di Ostia, progetto targato Gianni Alemanno. Sono stati il presidente di Legambiente, Lorenzo Parlati, il responsabile del servizio scientifico, Giorgio Zampetti e Cristiana Avenali, direttrice di Legambiente, ad ufficializzare i dati. Su otto canali campionati, sette risultano altamente inquinati.

Si parla di inquinamento microbiologico, di scarichi non depurati per il Circeo, mentre Waterfront e la colata di cemento ad Ostia, oltre a creare problemi irrecuperabili sull’arena e quindi sul controllo naturale del mare, ha sepolto ogni progetto di riqualificazione anche paesaggistica del litorale di Roma.

E parliamo quindi delle controverse bandiere blu. A vincere le bandiere blu 2014 diverse zone dell’Abruzzo, Sicilia e Sardegna, come al solito la Liguria, ma meno che nelle previsioni e con qualche incongruenza di cui si accorse già Stefania Prestigiacomo ai tempi in cui era a capo del Dicastero dell’Ambiente. Alcuni esempi? Spiagge abruzzesi e adriatiche che, poco dopo aver ricevuto la bandiera blu, hanno dovuto mettere i divieti di balneazione.

E ancora Fenicia Toscana, dove è possibile fare il bagno dentro al porto senza alcuna avvertenza né divieto e dove arrivò la bandiera blu senza che il Comune avesse nemmeno un depuratore. Caso denunciato nel rapporto sulla depurazione del Mar Mediterraneo Unpe/Map. Altra incongruenza tra le bandiere blu e le indicazioni di Touring Club. Insomma sfugge il confine tra l’esatta misurazione dell’inquinamento e la solerzia nel compilare i questionari sulle condizioni del mare da parte delle istituzioni coinvolte.

Il vademecum per l’assegnazione della bandiera blu, gestito dalla FEE (Federazione Educazione Ambientale) tiene conto di diversi punti - dalla gestione dei rifiuti, ai depuratori - ma l’aspetto più controverso è l’effettivo controllo dei parametri ambientali e scientifici che sono il nocciolo della questione. La Liguria rimane in testa, la Calabria e la Basilicata ai minimi e una bella new entry per il Lazio è data da Gaeta. Per i siti lacustri svetta il Trentino.
Pur con tutti i dubbi che questa classifica ripropone ogni volta, per prudenza, se siete maniaci del mare e abitate a Roma, consigliamo di puntare su Anzio. Pare che qui il mare sia più blu.

di Tania Careddu

E’ notizia di qualche giorno fa l’arresto per pedopornografia dello stretto collaboratore (ormai ex) del premier britannico, David Cameron. Patrick Rock ha occupato un ruolo importante da consulente del governo, lavorando, ironia della sorte, all’accordo per un filtro ai contenuti pedofili con i maggiori motori di ricerca. Il nome è noto e fa cronaca. Arriva oltre la Manica e l’eco dello scandalo si propaga anche in Italia. Dove, invece, i casi simili a questo avvengono fra la gente comune (?) e perciò sono meno individuabili.

Anche perché, nonostante sia stata creata dal Dipartimento per le Pari opportunità una banca dati ad hoc, per la quale sono state investite ingenti somme, la stessa risulta “in fase di realizzazione” e l’ultima relazione al Parlamento risale al 2010. Un vuoto di conoscenza che si riscontra anche relativamente ai dati sul turismo sessuale a danno dei minori.

Fenomeno ampio, basti pensare che nel 2011, secondo l’ECPAT, circa duecentocinquantamila bambini sono stati vittime di prostituzione e ogni anno cinquecentomila di loro al di sotto dei diciotto anni, subiscono abusi sessuali. Violenze per le quali i nostri connazionali guidano, insieme ai tedeschi e ai portoghesi, le classifiche dei carnefici. Meta preferita: Brasile.

Attualmente protagonista di grandi eventi sportivi, dalla Coppa del mondo in corso alle prossime Olimpiadi nel 2016, risulta Paese di “destinazione” particolarmente a rischio. Sebbene la mancanza di banche dati, appunto, non consenta di quantificarli esattamente, né di conteggiare il numero degli italiani arrestati o che hanno deciso di sostenere il processo all’estero, secondo le associazioni non governative - le uniche, al pari di quelle turistiche, in grado di monitorare la situazione - i turisti italiani che scelgono il Brasile a scopi sessuali con bambini sarebbero ottantamila l’anno.

E nonostante i tifosi di calcio e gli sportivi non costituiscano un gruppo a rischio, potrebbero, però, trasformarsi in turisti sessuali “occasionali”. Vuoi per l’atmosfera esotica ed euforica e per il desiderio di nuove esperienze, vuoi per l’assenza di informazione, per i pregiudizi o per il senso di impunità legato all’anonimato nel Paese straniero.

Nell’ultimo anno, però, iniziative di sensibilizzazione proposte da confederazioni sindacali hanno coinvolto aziende farmaceutiche e imprese che offrono servizi di comunicazione. Stando a quanto si legge nel 7° Rapporto di aggiornamento su "I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia", prodotto dal Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (CRC), pare che si muova un innovativo interesse fra l’opinione pubblica per l’approfondimento del fenomeno, anche verso i suoi aspetti normativi.

E’ giunto il momento visto che, secondo quanto emerge da una ricerca sul sesso tra adolescenti e adulti, effettuata da Ipsos lo scorso febbraio, una larga fetta della popolazione italiana, pari al 38 per cento, la ritiene una pratica accettabile.

Spiegati così, almeno sociologicamente, i recenti e non sporadici fatti di cronaca che vedono adolescenti di genere femminile coinvolte nel giro di sesso a pagamento con uomini adulti. Professionisti, impiegati, persone di status economico-sociale medio alto che non si pongono alcuno scrupolo né sul piano legale e normativo né su quello etico e morale. E così la prostituzione minorile è in evoluzione: dalle baby squillo alla tratta delle giovani straniere.

Recenti stime evidenziano la presenza di più di mille minori di diciotto anni in strada. Ma, al di là dei dati quantitativi, lo sfruttamento sessuale delle minori, sia per strada sia indoor, risulta sommerso. Invisibili alle autorità competenti e agli operatori sociali per la spiccata mobilità sul territorio e a causa dello schiacciante controllo degli sfruttatori.

E anche per la difficoltà a denunciarne i casi. Addirittura i pediatri, oltre il 60 per cento di loro, hanno percepito casi di maltrattamento ma non li hanno segnalati per l’incertezza degli elementi a disposizione, dei modi per farlo e degli organismi a cui rivolgere le segnalazioni. E pure intimoriti dalle conseguenze dell’eventuale gesto.

Anche la scuola fatica a segnalare o lo fa in ritardo, perché spesso sottovaluta l’entità dei fatti, soprattutto quando si tratta di adolescenti. Scarseggiano gli interventi di assistenza e recupero delle giovani vittime che, invece, necessiterebbero di un percorso psicoterapeutico e sul piano giudiziario non sono adeguatamente rappresentati nel processo.

Ma, alla resa dei conti, stando ai numeri di una ricerca condotta nel 2013 da CISMAI e Terre des hommes, ben centomila bambini, lo 0,98 per cento della popolazione minorile, ogni anno sono presi in carico dai servizi sociali italiani esclusivamente per abuso sessuale. Tutto il mondo è paese. Purtroppo.


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