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di Silvia Mari
“Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E’ la notte in cui Magherini muore a Borgo San Frediano. “Ragazzo immobilizzato dai carabinieri. Trenta anni. Stanno rianimando. Per ora metti droga, poi vediamo”. Questa la sequenza delle telefonate del soccorso medico e i carabinieri, tra tutte quelle dei cittadini del posto che svegliati dalle urla di Riccardo chiamano le forze dell’ordine per segnalare che qualcosa di grave sta accadendo sotto le loro finestre.
I fatti di quella notte, 3 marzo scorso, sono affidati alla ricostruzione degli amici di Riccardo che lo vedono per ultimi, del taxi, dell’amico del bar che lo accoglie spaventato, quasi terrorizzato ma inoffensivo fino all’arrivo dei carabinieri che lo immobilizzano brutalmente e che dichiarano che il ragazzo è ubriaco, nudo e spacca macchine.
Ma il video amatoriale rubato da un testimone alla finestra con il telefonino che ha già fatto il giro del web non mostra un uomo pericoloso e minaccioso, non documenta alcun atto vandalico, ma un ragazzo accerchiato da tanti uomini, che lo comprimono a terra, gli danno un bel calcio per farlo tacere con qualche sarcastica battutina d’accompagnamento, mentre il giovane Riccardo non fa che gridare “aiuto” e dire che “sta morendo”. Queste le sue ultime parole.
L’autopsia ha certificato che la morte di Magherini, ex calciatore del Prato di 40 anni, in realtà è sopraggiunta dopo lunga e dolorosa agonia. La causa principale della consulenza medica viene addebitata ad uno stupefacente assunto da Riccardo, ma c’è una parte residuale (su cui si farà battaglia) dovuta a complicanze asfittiche e cardiologiche. Per ora si escludono traumi di tipo lesivo dovuti a percosse, ma ancora una volta le foto del corpo dopo il decesso mostrano segni e lividi che vanno ben oltre la morte per soffocamento.
Non è difficile ipotizzare che il balletto di telefonate con i soccorsi e l’accerchiamento brutale e la compressione sul corpo di Riccardo non abbiano aiutato il giovane a superare la crisi, ma lo abbiano definitivamente condannato a morte. Sono quattro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118 per omicidio colposo. Viene in mente, per analogia di cronaca, il caso del diciottenne Aldovrandi.
La famiglia chiede di far luce sulle responsabilità. Non è chiaro e non è legalmente tollerabile che un uomo che grida, fosse pure in preda ad una crisi per droga, che non ha colpito o danneggiato niente e nessuno, invece di essere tempestivamente soccorso, sia accerchiato, sbattuto a terra anzi schiacciato quando già gridava di soffocare, preso a calci, come sentono i cittadini in quella notte, anche con un sarcasmo orribile da branco e con tanta sottovalutazione da parte degli uomini del soccorso, che arrivano per “sedare” un uomo che è a faccia in giù sull’asfalto, ammanettato e senza respiro. Un controsenso, un’errata valutazione delle sue condizioni fisiche, un’overdose di violenza di gruppo su un uomo terrorizzato, visibilmente fuori di sé e in preda al panico, ma non aggressivo come tutti coloro che incontrano e sentono Riccardo quella notte sono pronti a testimoniare.
Ancora una volta c’è, aldilà degli esiti giudiziari anche facili da immaginare, una sproporzione evidente tra l’azione delle forze dell’ordine - in questo caso carabinieri - e la persona per la quale sono chiamati ad intervenire. Nel caso di Riccardo un uomo destabilizzato da qualche stupefacente che teme di essere accusato di rapina per non aver pagato il taxi, che scappa e chiama aiuto, che non “spacca macchine”, che non aggredisce alcuno. Nel caso di Aldovrandi un ragazzetto che tornava a casa, pestato a morire e soffocato, per cui tutte le istituzioni sono scese in campo a processo concluso e dopo l’orrore degli applausi agli agenti assassini.
E ancora Stefano Cucchi, anche lui tumefatto di calci e lasciato morire dentro un ospedale dello Stato. La giustizia che come al solito salva gli uomini in divisa a priori e nonostante i fatti, quelli che proprio per onore di ciò che rappresentano – giustizia, legalità e sicurezza - dovrebbero pagare più degli altri quando ledono la legge e i diritti umani fondamentali, lasciano soprattutto un altro interrogativo sui corpi di queste vittime.
Non si sa se sia stato per incompetenza, impreparazione o per un’odiosa esaltazione accompagnata da rivalsa ideologica contro chi ha il peccato di essere più fragile, magari di essere o esser stato un tossicodipendente, di chi vive nella marginalità o nel disagio. Un debole contro cui è facile e barbaro essere forti e scatenare campagne di odio sociale. Lo stesso che vediamo quando vengono affrontati i cortei degli studenti.
Mentre indisturbati i delinquenti, drappelli di barbari a piede libero, riempiono gli stadi ogni domenica con la scusa del tifo calcistico e assediano città per ore e ore, lasciando i cittadini perbene in balia e in ostaggio degli incappucciati delle tifoserie. Qui non c’è uso sproporzionato della forza, qui tutto avviene al cospetto di divise imbarazzate, prudenti e obbedienti ad ordini che, evidentemente, considerano la vita di un delinquente allo stadio di maggior valore di quella di un uomo isolato e spaventato che grida di essere aiutato.
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di Tania Careddu
Privazione per i bambini e gli adolescenti della possibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni: povertà educativa. Che, secondo quando si legge nella pubblicazione curata da Save the children "La lampada di Aladino", in Italia raggiunge livelli allarmanti non paragonabili a quelli degli altri Paesi europei.
Strettamente correlata alla provenienza famigliare che esercita un peso enorme sul curriculum scolastico e sulle opportunità di crescita dal punto di vista emotivo e dei rapporti con gli altri, la scuola, dal canto suo però, non riesce a controbilanciarne gli effetti negativi.
Il Rapporto annuale ISTAT, infatti, conferma che il completamento del ciclo di istruzione secondaria così come l’iscrizione all’università, sono correlati positivamente alla classe sociale, misurata in termini di risorse economiche, potere e influenza, grado di istruzione, condizione occupazionale dei genitori, provenienza geografica. E così l’Italia si caratterizza per un alto tasso di dispersione scolastica: il 17 per cento dei ragazzi tra i diciotto e i ventiquattro anni non consegue il diploma superiore e abbandona prematuramente ogni percorso formativo. E una regione con un’alta percentuale di ragazzi che hanno abbandonato la scuola precocemente è sempre una regione dove maggiore è la privazione delle opportunità educative.
D’altronde il sistema scolastico non aiuta, non riesce ad accogliere i bisogni educativi, soprattutto quelli avanzati in situazioni di maggior svantaggio. Per esempio, i nidi e i servizi per la primissima infanzia, età cruciale per lo sviluppo emotivo e cognitivo, hanno una copertura limitata: solo l’Emilia Romagna raggiunge gli standard europei. Il tempo-scuola per le discipline scolastiche e per le attività extrascolastiche ha le ore contratte: le classi della scuola primaria e secondaria di primo grado, con il tempo pieno non superano il 50 per cento in nessuna regione italiana.
Per non parlare del servizio mensa che registra forti squilibri fra le regioni, essendo decentralizzato alle autonomie locali: molti comuni adottano criteri di equità, molti altri, sistemi fortemente discriminatori. Anche l’insicurezza negli edifici scolastici è indice di penuria educativa: la metà di essi non ha il certificato di agibilità, soprattutto in Calabria, Sicilia, Puglia e Sardegna.
E le scarse performances dei bambini nell’universo scolastico non sono l’unico indicatore di povertà educativa. Basti pensare alla carenza di opportunità di venire a contatto con la bellezza e accedere ad alcune attività culturali, tipo visite ai musei, frequentazioni ai concerti o agli spettacoli teatrali: nella maggior parte delle regioni del Belpaese, meno di un terzo dei bambini è andato a teatro o a un concerto e meno di un bambino su tre ha varcato la soglia di un museo.
Dal nord al sud dello Stivale - sebbene nelle regioni meridionali e nelle isole si riscontri la più alta concentrazione di fattori determinanti per la povertà educativa - trecentomila bambini, nell’ultimo anno, non sono mai andati al cinema, non hanno usato un computer, non hanno praticato uno sport, fondamentale per creare momenti di confronto e di aggregazione, e non hanno letto un libro.
Anche questa è una negazione condizionata dalla situazione educativa e culturale della famiglia, dall’assenza di libri in casa e, non ultimo, dalla mancanza di biblioteche pubbliche e di eventi di promozione della lettura. Una delle tante carenze imputabile in questo caso anche alle istituzioni, che per molti bambini diventa il preludio di gravi discriminazioni rispetto ad altri coetanei, con conseguenze che, nel tempo, possono diventare irreparabili. Ma la povertà non è un destino ineluttabile per nessuno.
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di Tania Careddu
Distanze già ampie che si allargano. Compattezza sociale che si disgrega. Conflitto sociale in agguato. Violenza, disoccupazione e invecchiamento. Ma più cultura. Questo il (reso)conto italiano di sei anni di crisi economica. Incrociando i dati di CNA, Censis, CGIA Mestre e Coldiretti, la fotografia che immortala l’Italia dal 2007 al 2013 non è certamente a colori.
In primo piano, l’esclusione sociale e la povertà: nel 2012, le persone a rischio povertà hanno oltrepassato i diciotto milioni, due milioni in più rispetto al 2007. E la difficoltà di far fronte alla quotidianità, alla capacità di mantenere un tenore di vita soddisfacente, ha fatto esplodere l’esclusione sociale, impoverendo, in qualche maniera, la qualità dei rapporti interpersonali.
Agevolando il rischio di un ritorno al conflitto sociale, piuttosto che aprire alla cultura dello sviluppo come presupposto per un maggior benessere. Così, il disagio socio-economico si è tradotto in situazioni di crescente aggressività. Aumentano, dell’8,7 per cento, gli episodi di criminalità: furti, truffe, frodi informatiche, reati di contraffazione di marchi e prodotti industriali, rapine - quarantaquattromila solo nel 2013, per una media di centoventi al giorno - percosse, minacce e ingiurie. Cresce la depressione (nesso tutto da accertare, ndr): stando al Rapporto sulla Felicità dell’Onu, l’Italia si colloca al quarantacinquesimo posto nella classifica mondiale.
Forse poi, ottimisticamente per orientarsi meglio ma realisticamente perché prolungare gli studi è la contropartita al mancato inserimento nel mercato del lavoro, è lievitato il grado di istruzione della popolazione: aumentano le persone che hanno conseguito un titolo di laurea o post laurea o di diploma, sebbene ormai, in termini di probabilità di occupazione, equivalga a una licenza media. Ma, insieme al grado di istruzione cresce anche il numero dei NEET (Not in education, employment or trading), ossia quei giovani fra i quindici e i trentaquattro anni, non più inseriti in un percorso scolastico e nemmeno in un’attività lavorativa.
Sono più di tremilioni e mezzo. E il rischio di disoccupazione, che nel 2014 è balzata al 12,9 per cento, aumenta con l’età: l’incidenza dei NEET cresce più rapidamente nelle classi d’età più avanzate, arrivando alla perdita di quasi un milione di posti di lavoro. Anche perché sono stati spazzati via i generatori di offerta di lavoro.
Centotrentaquattromila piccole imprese, infatti, hanno chiuso i battenti: seicentoquarantamila tra i commercianti, settantamila tra gli artigiani. Fra le cause, gli elevati costi dell’energia e del gasolio, delle tasse - la cui pressione è aumentata di 1,7 punti percentuali - e della burocrazia, che grava di settemila euro l’anno su ogni impresa.
Perciò si riduce il potere di acquisto che si concretizza nel taglio dei consumi alimentari, i quali sono tornati ai livelli minimi del 1981. Si rinuncia al pesce fresco, alla pasta, al latte, all’olio, all’ortofrutta, alla carne e si acquistano uova, farina e miele.
Crollano gelati e merendine e vanno per la maggiore i prodotti low cost dei discount. Rimangono pochi ricchi e molti poveri: i dieci uomini più ricchi d’Italia hanno un patrimonio pari a quello di cinquecentomila famiglie operaie messe insieme.
Secondo la Banca d’Italia, centoventisettemila persone hanno una ricchezza superiore a un milione di dollari e il numero dei poveri è raddoppiato. Per dirla in sintesi, il 50 per cento più povero della popolazione detiene il 10 per cento della ricchezza totale e il 10 per cento più ricco detiene il 50 per cento della ricchezza totale. Se poi nascono dei figli, le iniquità sociali diventano enormi. Ed è così che la popolazione del Belpaese, negli anni della crisi, è invecchiata ed è aumentato il peso della popolazione anziana. Italia più vecchia, e sempre più piccola.
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di Tania Careddu
Legami di cuore più che di sangue. Rapporti profondissimi altro che viscerali. Quelli con i figli adottivi che, secondo quanto si legge nell’ultimo Rapporto della Commissione per le adozioni internazionali Dati e prospettive nelle adozioni internazionali, nel 2013, in Italia sono stati 2825, provenienti da cinquantasei Paesi, grazie a 2291 famiglie. Nonostante il calo del 9 per cento delle adozioni internazionali rispetto all’anno precedente, il Belpaese rappresenta sempre uno dei Paesi di destinazione più attivi nello scenario mondiale tanto che la disponibilità delle coppie adottive supera il numero di quelle che portano a termine l’adozione.
Che hanno un’età media in aumento, compresa fra i quaranta e i quarantatre anni; un livello di istruzione alto, quasi il 50 per cento ha un titolo di scuola media superiore e circa il quaranta universitario. Con una professione di tipo intellettuale a elevata specializzazione. Sono coppie che risiedono soprattutto nelle regioni settentrionali, principalmente in Lombardia e in Veneto, o nel Lazio e in Campania che, quest’anno, è la regione nella quale si è registrato il maggior incremento delle adozioni insieme al Trentino Alto Adige.
Quattro le motivazioni che le spingono ad adottare: la più frequente, l’infertilità, poi la “conoscenza del minore”, già accolto dalla (futura) famiglia in un’esperienza di affido, a seguire il “desiderio adottivo”, letto come l’esigenza di aiutare i bambini in difficoltà e, in ultimo, per chi ha già adottato un figlio, il desiderio di dargli un fratello. E i bambini? Sono soprattutto maschi, mediamente hanno cinque anni e provengono dalla Federazione Russa, dall’Etiopia, dalla Polonia, dal Brasile, dalla Colombia, dalla Repubblica Popolare Cinese e dalla Repubblica Democratica del Congo.
Sono bambini - è il caso di quelli africani e del sud-est asiatico - che hanno subìto l’abbandono da parte dei genitori biologici presso ospedali o altre strutture, o i cui genitori naturali, soprattutto dei minori dell’Est Europa e dell’America Latina, hanno perso la potestà per effetto di un provvedimento dell’autorità pubblica.
Da qui, la sistemazione in un strutture di accoglienza per un periodo che oscilla tra i diciotto e i quarantotto mesi, a seconda del Paese nel quale sono collocati, così come varia la durata del tempo, solitamente da due a sei mesi, che intercorre tra il momento dell’abbinamento del bambino con gli aspiranti genitori e l’ingresso in Italia.
In mezzo c’è il tempo che passa tra il conferimento dell’incarico a un ente autorizzato e il rilascio dell’autorizzazione all’ingresso, stimato intorno ai due anni. Nel 2013, il 28,7 per cento dei bambini, cioè cinquecentonovantaquattro, è stato segnalato con bisogni speciali, ossia con patologie neurologiche gravi e spesso incurabili, o con bisogni particolari, intesi come ritardo (guaribile) motorio o psichico, spesso conseguenza di una precoce istituzionalizzazione in ambienti non idonei e con scarsi stimoli.
Altri soffrono, in maniera più incisiva, di malattie attribuibili a carenze nutrizionali o a scarsità di igiene. Situazioni difficili da reggere che talvolta sfociano nella tristissima piaga dei rigetti. Ma in una storia d’amore, si sa, ci vogliono coraggio e creatività.
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di Rosa Ana De Santis
Nei giorni scorsi è finito sotto attacco “Mare Nostrum”. La Lega in testa a denunciarne l’inefficacia e la colpa di rappresentare un escamotage giuridico per incoraggiare gli immigrati clandestini. E’ sempre l’opulento Nord, quello che la manodopera a nero di stranieri nelle fabbrichette non l’ha disdegnata affatto, a levare la voce persino contro un’operazione di soccorso dai naufragi qual Mare Nostrum è. Qualcosa per cui l’Europa dovrebbe certamente ringraziare il nostro Paese e gli straordinari sforzi economici e di persone spesi sul campo.
E’ il Sud però, come la storia insegna, che ancora una volta dà prova di accoglienza. E’ l’estrema propaggine dello stivale che quasi si congiunge all’Africa, quella parte di paese più tartassato da povertà e disoccupazione, a dare prove di integrazione.
Arrivano da Pozzallo, provincia di Ragusa, storie di un Mare Nostrum realmente vissuto e sentito dai cittadini italiani. Da gennaio ad oggi sono arrivati nella zona più di 5 mila migranti, ma le persone del posto, che hanno vissuto sulla propria pelle o ancora oggi su quella dei loro figli il bisogno di viaggiare per lavorare, non hanno chiusura verso gli stranieri che sbarcano. C’è paura a volte, incertezza, tensione, ma, tanto per citare un esempio, Forza Nuova non è riuscita a cavalcare l’onda per alimentare politiche di discriminazione o campagne di terrorismo psicologico che altrove, invece, hanno funzionato.
Incredibile vedere come questo centro possa reggere l’impatto di continui sbarchi. Il centro di espulsione conta 443 persone, gli uffici comunali sono al collasso cosi come le forze militari e i volontari impiegati nel soccorso. “Mare Nostrum deve proseguire a terra” commenta il sindaco di Pozzallo, ma nessuno ne disconosce il valore e l’assoluta necessità.
Questo è un paese in cui, a poca distanza dalla piazza principale, il caffè letterario Rino Giuffrida, da 6 anni, grazie all’impegno di giovani insegna l’italiano agli immigrati. La lingua è il primo paracadute per una reale integrazione, l’aiuto indispensabile per chi cerca un’occupazione. Lì dove gli stranieri in fuga trovano il primo porto trovano anche una delle più belle fotografie d’Italia.
Ma è solo inizio. Arrivano subito dopo i centri di espulsione dove vengono parcheggiati sine die, le lungaggini burocratiche, la malavita che facilmente li arruola laddove non ci sono altri mezzi di sussistenza, ma anche la negazione della cittadinanza per quanti in Italia rimangono a lavorarci regolarmente e per anni e il facile veleno dell’odio che lo spauracchio della crisi ha nutrito soprattutto al centro nord criminalizzando l’immigrato in quanto tale.
Da Roma si attendono ricette veloci e pronte al consumo, ma sarebbe preferibile invocare le linee guida della politica dell’immigrazione che finora ha solo fronteggiato emergenze, senza mai ragionare del Mare Nostrum a terra. Non solo la legge che detta i tempi del soggiorno, ma le misure di controllo, di accompagnamento alla frontiera reale, di suddivisione quote d’ingresso con il resto dell’Europa, di tutele speciali per i minori in arrivo, di legge sulla cittadinanza e di pseudo reati di clandestinità che sono stati funzionali ad accrescere l’odio per gli stranieri senza perseguire realmente chi non avesse più diritto di rimanere in Italia a delinquere.
Lo psicodramma italiano sta tutto in questa falsa contrapposizione tra legalità e immigrazione tout court, tra misure di regolarizzazione delle quote d’ingresso e il rifiuto d’accoglienza. Il soccorso in mare è un dovere morale e politico come qualsiasi altro tipo di diritto-dovere umano e, seppure in presenza di una legge che addirittura criminalizza gli stranieri (pessima eredità del governo Berlusconi) il nostro Paese conta troppi clandestini, il problema non sta nell’assenza di misure legislative al di qua dei confini, ma nell’incompetenza di saperle praticare e monitorare. Nulla ha a che vedere con quella bella umanità che ci regala una terra come la Sicilia e tanto Sud e che restituisce un po’ dell’orgoglio di essere italiani.