di Rosa Ana De Santis

Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, nei giorni scorsi ha firmato “nero su bianco” un decreto che impone ai medici ginecologi che operano nei consultori, pur se obiettori di coscienza, di assicurare alla donna che lo richiedesse tutti i certificati necessari per avere assistenza e cura nel caso di interruzione di gravidanza, nonché la prescrizione di farmaci anticoncezionali post coitali, la famosa pillola del “giorno dopo”.

La legge già esiste, ma la 194, proprio in virtù del diritto di obiezione di coscienza, diventa spesso una scatola vuota che disattende il diritto di scelta delle donne. Accade spesso, infatti, che si debba iniziare un vero e proprio pellegrinaggio alla ricerca del medico - o addirittura del farmacista - non obiettore.

Non soltanto quindi la legge dello Stato viene scavalcata per ragioni di ordine etico privato, il che rappresenta un’insidia alla tutela e alla garanzia della legge stessa; ma tutto quel corpus di assistenza anche psicologica che la 194 prevede per le donne in  difficoltà, viene totalmente dimenticato, inficiando quegli scrupoli di ordine morale e quel desiderio di sostenere una scelta così difficile con cui questa legge è nata. Garantire un diritto, senza banalizzarne l’esercizio e l’applicazione.

Il decreto non impone ai medici di applicare obbligatoriamente l’interruzione volontaria di gravidanza, che pure non sarebbe un diktat improponibile nel momento in cui si lavora in strutture pubbliche dove vige la legge italiana e non quella “vaticana”, ma di non esimersi dall’affidare quelle donne ai colleghi e alle strutture giuste, a impedirne l’abbandono come di fatto avviene con una pratica diffusa che solo grazie all’impegno dei volontari viene spesso aggirata.

Niente obiezione di coscienza quindi nei consultori che, nello spirito della legge 194, devono assolvere ad una funzione informativa, educativa ma anche di supporto per qualsiasi decisione la donna dovesse prendere.

La disinformazione sul sesso in Italia è ancora dilagante. I medici omettono l’argomento “contraccezione” e cosi la libertà sessuale che ora tocca fasce d’età di giovanissimi non è accompagnata da alcuna consapevolezza, né adeguata informazione. Lo documenta, da un’inchiesta condotta da L’Espresso, il numero di 9 mila maternità non desiderate.

Anche per questo imporre ai medici dei consultori il rispetto di una condotta che deve tornare ad essere pienamente a norma di legge, diventa urgente e necessario. La politica lo ha capito e al Presidente Zingaretti va riconosciuto il merito di aver sfidato un certo clima culturale di condanna verso questa legge che, ancora a distanza di oltre trent’anni, è al centro di polemiche e boicottaggi clericali pesantissimi.

Se pensiamo che circa il 90% dei medici nel Lazio è obiettore, è facile intuire come la legge 194 sia sostanzialmente inapplicabile, salvo ricerche di vie private - magari tra gli stessi obiettori in pectore degli ospedali pubblici - o di vie crucis tra ospedali.

Il consultorio dovrebbe essere il primo luogo in cui la donna che è incinta e vive il peso di una scelta difficile possa trovare il giusto sostegno e la migliore accoglienza, in termini medico-sanitari e psicologici. Questo dice chiaro la legge. E a questo dovere legale, che impone di non abbandonare una persona che a norma di legge ha il diritto di assumere una certa scelta, se ne aggiunge uno morale più grande ancora. Il rispetto del diritto individuale alla libertà, a vivere secondo un’etica privata che non sia per forza religiosa, tantomeno cattolica.

Peraltro se una donna che pur nella difficoltà decide di diventare madre e rinuncia ad abortire è una vittoria, questa non passa dall’anatema dell’obiezione di coscienza e dell’abbandono. Semmai dall’accoglienza, dalle tutele di uno stato sociale efficiente, da una buona politica e da una capillare informazione ed educazione nelle scuole.

Non certo dal silenzio delle condanne o dal potere delle scomuniche implicite. Quelle che vengono fatte espiare alle donne che scelgono da troppi medici e operatori sanitari in barba alla legge e ad Ippocrate. Sia per quelle donne che lo fanno con dolore e riflessione che quelle che “non sanno ciò che fanno”, c’è bisogno di ben altro che un abbandono. In nome di quale che sia la coscienza.


di Tania Careddu

Parola d’ordine: sgomberare. Ossia, spostamento forzato di comunità Rom associato alla costruzione di spazi abitativi assegnati su base etnica alle stesse comunità. In cambio, una precaria forma di assistenzialismo che inibisce l’esercizio dei diritti fondamentali. Costruirli ha un costo economico, oltreché sociale, altissimo. E mantenerne la gestione ancora di più.

Tanto per farsi un’idea, scevra da pregiudizi, basta consultare le voci di spesa sostenuta all’uopo dal Comune di Roma, nel 2013 e ricostruita dall’Associazione 21 luglio nel Rapporto Campi Nomadi S.p.a. Segregare, concentrare e allontanare i Rom. I costi a Roma nel 2013. Undici insediamenti per cinquemila Rom e cinquantaquattro azioni di sgombero forzato che hanno coinvolto milleduecento di loro per un totale di 24.108.146 euro.

Al conto si aggiungano gli stipendi dei due dipendenti comunali preposti al coordinamento delle attività inerenti i “villaggi della solidarietà”, pari a cinquantaduemila euro annui lordi, e i soldi destinati all’Unità di Strada, la quale si occupa del “supporto alle attività di censimento delocalizzazione villaggi nel territorio città”, che ammontano a centoquarantamila euro e spicci.

Un sistema particolarmente esoso rispetto ai servizi che è in grado di offrire e alla sostenibilità che garantisce. Irrisoria, considerato che il finanziamento iniziale non solo non è sufficiente a sostenere la politica nel lungo periodo ma innesca una serie di spese che richiedono un rinnovamento costante. Una situazione che odora di business fra l’amministrazione comunale, che eroga finanziamenti diretti a pioggia, e il terzo settore, che li riceve per dispensare servizi prevalentemente assistenziali o per agevolare lo spostamento delle comunità Rom da un punto scomodo della città a un altro più invisibile.

Il tutto nella convinzione (o nel convincimento?) che il sistema campi sia la formula più conveniente e giustificando la mancanza di alternative volte a un inserimento, che parta da quello abitativo, con l’assenza di risorse pubbliche. Eppure il loro superamento sarebbe possibile. Lo suggerisce la Strategia Nazionale per l’Inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti, varata nel febbraio 2012, secondo la quale ai Comuni viene proposta un’ampia gamma di opzioni abitative.

Dall’edilizia sociale in abitazioni ordinarie pubbliche al sostegno all’acquisto di abitazioni ordinarie private; dal supporto all’affitto di abitazioni ordinarie private all’affitto di cascine e casali di proprietà pubblica in disuso fino alle autocostruzioni accompagnate da progetti di inserimento sociale. Che nulla hanno a che fare con le attuali soluzioni alloggiative. Che si chiamino “villaggi della solidarietà”, è il caso di Lombroso, Gordiani, Candoni, Cesarina, Camping River, Castel Romano, Salone e La Barbuta, o “centri di raccolta”, quali Best House Rom, via Salaria, o via Amarilli, sono lager più che soluzioni.

Tutti caratterizzati da un isolamento fisico e relazionale, da condizioni igienico-sanitarie al limite della decenza, da spazi inadeguati e claustrofobici, da servizi interni insufficienti, da unità abitative lontanissime dagli standard minimi di alloggio adeguato. Sono container, bungalow e roulotte, a volte prive di cucina e bagno. Gli insediamenti sono provvisti di un sistema di videosorveglianza e di identificazione con un registro in entrata e in uscita, talvolta sono recintati con fili metallici. Distano mediamente due chilometri dalla prima fermata degli autobus e oltre tre chilometri dal mercato più vicino e dagli uffici postali. Quasi del tutto assenti gli spazi riservati ai bambini.

E pensare che sempre la Strategia di cui sopra propone un approccio particolare per i minori che sia “globale, che non separi artificiosamente i temi della scolarizzazione, delle soluzioni abitative in ambienti decorosi, della valorizzazione delle specificità culturali, della salute, del tempo libero e dell’integrazione degli adulti di riferimento”. Ma la sua concreta applicazione risulta in forte ritardo, sebbene l’Italia, con la Strategia, si sia impegnata a livello europeo. Promesse da Belpaese.

di Rosa Ana De Santis

E’ accaduto di fronte a 250 mila fedeli calabresi, durante la celebrazione eucaristica di sabato pomeriggio a Sibari. Papa Bergoglio ha scomunicato i mafiosi, definendo la ’ndrangheta “adorazione del male” e gli affiliati “non in comunione con Dio”.

Una condanna cosi diretta e frontale non era mai arrivata dal capo assoluto della Chiesa di Roma. Abituati ai preti martiri di frontiera, anche un bel po’ dimenticati dalle gerarchie, alle loro battaglie alla periferia del Vaticano suona strano sentire il Papa scagliarsi in modo cosi duro, scomodando il valore accademico e teologico di una scomunica.

Andare in Calabria, una regione assediata e paralizzata dalla malavita, e parlare di risveglio di coscienze e di impegno della Chiesa militante, significa fare qualcosa di più che predicare il bene. Innanzitutto arruolare i giovani ed educarli, tutelarli dalla tentazione dell’omertà.

Assomiglia a una canonizzazione lampo di uomini come don Pino Puglisi, prete antimafia, o di Peppino Impastato, giornalista martire. Assomiglia a un monito per quella contiguità tra potere politico e malavita che tanta storia di questo Paese ha contaminato, scomodando cronache e tribunali senza nemmeno troppa vergogna.

Il Papa ha incontrato in carcere i familiari del piccolo Cocò Campilongo, ucciso e bruciato dalle cosche a soli 3 anni con suo nonno. E sono tanti i nomi di questa strage di innocenti. Cosi tanti che quell’ammantata tradizione di codici di onore di cui si fregiavano questi signori, rimane una caricatura da cinema e null’altro.

La condanna del Pontefice parla chiaro non soltanto ai nomi celebri dei clan inseguiti dalle forze di polizia, ma ai tanti, anche pubblici funzionari dello Stato, contigui alle mafie e perseguiti per reati di stampo mafioso. La mafia è anche quella praticata sotto traccia, senza affiliazioni dirette, sotto coperture impeccabili.

Senza stragi o esecuzioni, ma con quotidiane ingiustizie, illegalità, trame di potere condivise con la malavita per profitto. E anche la compiaciuta omertà per affari e potere che ha derubato di giustizia e verità troppe vittime.

La famosa pace armata tra Stato e mafia che tanto scandalo ha portato nella storia di questa seconda Repubblica, sembra cadere sotto i colpi di questa condanna che non passa per i tribunali, ma unicamente per le vie della moralità e, per chi crede, per quella della fede cristiana.

La chiesa di Francesco, questa la speranza che rimane da queste parole e dagli impegni di questo Papa gesuita (non un caso) è quella che tornerà a dare la comunione ai separati e divorziati e la negherà, pubblicamente e per giustizia, a quelli come Totò Riina e ai suoi padrini.

di Alessandro Iacuelli

Ci sono in Italia 5000 piccoli borghi al di sotto dei 5000 abitanti. Di questi, due terzi sono collocati lungo la dorsale appenninica e c'è chi ha scelto di viverci. Chi perché ci è nato, chi perché era emigrato e dopo anni è tornato a casa, chi perché ha scelto di allontanarsi da città sempre più congestionate, sovraffollate e invivibili. Questi borghi stanno scomparendo, sotto i colpi di una “modernizzazione”, di uno “sviluppo” che va in una direzione imposta e non condivisa.

A colpi successivi, governi ed enti locali li stanno spopolando, forzando la migrazione verso le squallide periferie delle grandi città. Progressivamente nel tempo, si delocalizza la scuola che c'era nel piccolo borgo, un'altra volta si chiude l'ospedale che serviva 10 o 20 di questi piccoli centri, e la carenza di servizi forza gli abitanti a migrare verso le grandi aree urbane.

E' un piano studiato a tavolino di spopolamento delle zone interne dell'Appenino, soprattutto quello centrale e meridionale, che rischia di sconvolgere la stessa geografia dell'Italia. Spostare sì, ma a quale scopo?

Anche se il mondo della politica non lo dice, appare fin troppo chiara una scientifica pianificazione di una nuova riorganizzazione del territorio della penisola. Le aree interne, secondo le intenzioni di chi ha governato e governa, trasversalmente all'arco costituzionale, vanno riusate a nuovi scopi non abitativi.

Così, dopo la Basilicata, è il turno dell'Irpinia di essere al centro di una nuova campagna di trivellazioni petrolifere nelle valli e sulle montagne. Pazienza se si va ad insistere su una zona dove si preleva acqua che va a dissetare un bacino di sei milioni di persone, il 10% degli italiani.

Contemporaneamente, dalle Marche e dall'alto Lazio fino alla stessa Irpinia, è tutto un fiorire di progetti di centrali elettriche, il più delle volte a gas, o ad incenerimento di rifiuti prodotti altrove, che vanno poi allacciate alla rete elettrica nazionale mediante elettrodotti ad alta tensione che sconvolgono il territorio, distruggono ed eliminano aree destinate all'agricoltura o all'allevamento, portano inquinamento elettromagnetico elevato in borghi medievali di 2000 abitanti, che fino a ieri non sapevano neanche cosa fosse l'inquinamento.

Ancora, come se non bastasse, i territori diventano destinatari di progetti di smaltimento dei rifiuti delle grandi città, dalle discariche, fino alle piattaforme per far sparire dalla vista i rifiuti industriali pericolosi.

Per rendere realtà questo progetto di “modernizzazione” del Paese c'è un impedimento da superare: l'esistenza dei cittadini, visti sempre più come il peggiore ostacolo per una democrazia moderna. Pertanto, funzionale al grande progetto, è necessario forzare lo spopolamento, l'abbandono dei piccoli centri.

Certo, non si può deportare la popolazione con la forza, quindi la strategia adottata è quella di far sparire i servizi. Eliminare istruzione, sanità, uffici pubblici, negozi e centri commerciali, fabbriche e attività economiche e, quando la popolazione locale scende oltre un certo limite, viene rimosso anche il medico di base; il tutto per fare in modo che la gente decida da sé di andarsene altrove, togliendo il disturbo.

La terra e la gente dei piccoli paesi delle aree interne meridionali, dall’Irpinia al Salernitano, dalla Puglia alla Lucania, sono sotto attacco. I vecchi emigranti che erano ritornati vedono i figli e i nipoti fare le valige e abbandonare un territorio dove lo stato sociale e i servizi essenziali non sono più garantiti.

Mentre scompaiono presìdi scolastici e sanitari, piccoli tribunali e uffici postali, azzerando in pochi anni le conquiste ottenute dal dopoguerra, procede, di pari passo, l’aggressione a un territorio il cui destino sembra lo spopolamento e il degrado.

Terra, aria, acqua sono a rischio o già compromesse: discariche abusive e sversamenti diffusi, esplorazioni petrolifere in aree sismiche e ricche d’acqua, eolico selvaggio ed elettrodotti, aree di ricarica dei bacini idrici a rischio, depuratori inesistenti, emissioni fuori norma nei nuclei industriali, impianti a biomassa che successivamente diventano inceneritori e molto altro.

Da qualche tempo, gli abitanti di questi piccoli centri, soprattutto in Campania, hanno iniziato a dialogare tra di loro, da Torrita Tiberina a Castelvetere sul Calore, dando vita ad un “forum ambientale” dell'Appennino (http://www.forumambientale.org), dove mettono in comune le proprie esperienze e assieme concertano iniziative di resistenza.

E' un movimento in crescita: ad ogni incontro il numero di partecipanti aumenta. Non per coscienza politica o ambientale, quella magari verrà dopo, ma per paura. Paura delle grandi aziende che gli rubano la terra e mettono centrali, inceneritori, impianti a biomassa che poi diventano chissà cosa.

Paura di cosa c’è nell’acqua che bevono e fanno bere ai loro figli, delle microdiscariche vicino casa e dell’amianto che altri vanno a scaricare, paura degli elettrodotti che passeranno, di quelli che già ci sono e di tanto altro ancora.

Da questa paura, che si trasforma in partecipazione, sta nascendo un centro studi, una serie di iniziative sia di pressione politica, a tutti i livelli, sia di informazione verso la popolazione. L'obiettivo dichiarato è quello di spingere verso una revisione delle politiche territoriali, per rendere l'Appennino territorio di una nuova forma di sviluppo: dalla piccola agricoltura, al ripristino delle forme di allevamento, fino al turismo paesaggistico, il tutto condito dal recupero dei vecchi borghi storici e del riabitarli.

Un movimento dal basso di cui seguire progressi ed evoluzioni. Una speranza, per la bellezza dell'Appennino, la cui unica possibilità di resistere sta nel passare dalla rassegnazione alla consapevolezza e poi all’azione politica.

di Rosa Ana De Santis

Anche questo fine settimana si è caratterizzato per il solito canovaccio, visto che tutti i quotidiani aprivano con la conta dell’ultimo naufragio e le parole del sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini. I soccorsi sono stati affidati all’impegno dei nostri uomini della Marina Militare ed è già partita la macchina umanitaria della Caritas e delle altre associazioni impegnate su questo fronte sempre aperto.

A poche miglia dalla Libia sarebbero morte, precipitate in mare, decine e decine di persone. Quaranta erano in acqua e solo un uomo, ancor più distante dalle coste italiane, sarebbe stato salvato. I gommoni su cui viaggiavano con un centinaio di persone ciascuno, si sarebbero ribaltati. All’appello mancano almeno altre cinquanta persone se non più. Sparite nel nulla e finite nello stesso cimitero che accoglie ormai da anni i più sfortunati di questa odissea del mare.

Sono migliaia le persone che nelle ultime settimane sono state tratte in salvo. Senza l’operazione “Mare Nostrum”, che rappresenta ben oltre  e ben prima di qualsiasi normativa sull’immigrazione, un’azione umanitaria, nessuno probabilmente si sarebbe salvato. Un’azione che investe l’Italia per prossimità geografica con le terre dell’esodo, ma che restituisce all’Europa intera una veste di civiltà in una pagina storica di migrazione continua e disperata senza precedenti.

Palermo si prepara ad accogliere con ogni mezzo 700 migranti. Caritas e diocesi ospiteranno moltissime di queste persone, circa 400, specialmente minori, molti dei quali si scopriranno non accompagnati al momento dell’identificazione. Sarà così che, raccogliendo l’appello di Papa Francesco, conventi ed edifici religiosi per lo più vuoti e sigillati troveranno una loro nobile ragione d’uso e un senso di cristianità autentica da troppo tempo smarrito.

Si sono attivate parrocchie, ma anche strutture comunali, ex edifici scolastici e polizia municipale per i trasferimenti sul territorio di queste persone e tutta la cittadinanza è stata chiamata a mobilitarsi. Oltre l’assistenza immediata ci saranno poi presidi sanitari con equipe di medici e mediatori culturali per intercettare immediatamente ogni problema di tipo sanitario, sia per la tutela di queste persone che per la sicurezza collettiva.

Anche se, come emerso nel dibattito dei giorni scorsi, la sindrome degli untori - cosi come viene percepito il rischio che i migranti portino malattie e infezioni - è fondata solo su pregiudizi di ordine culturale ben cavalcati da politici allo sbaraglio. Sono infatti persone cosi debilitate che contraggono virus di continuo e rischiano la vita arrivati sulle nostre terre.

Il piano di soccorso messo in moto per gli sbarchi è nella sua eccezionalità straordinario, ma per esser portato ad un livello di maggiore efficacia ed efficienza politica sul lungo periodo ha bisogno di essere condiviso con il resto d’Europa, a partire dai centri di espulsione: dalla vergogna del nome alla nullità dell’efficacia. Spetta al governo dei giovani andare a reclamarne l’urgenza forse profittando proprio del semestre europeo che ci vede al timone.

Ma in un clima di continui detrattori e infangatori professionisti del nostro Paese, Mare Nostrum racconta quello che avviene nelle acque del mare a ogni ora del giorno e della notte. Questo coro di sforzi, di alleanza tra istituzioni, cittadini, militari, chiese e associazioni rappresenta almeno una bellissima pagina di umanità.

Città e famiglie di una regione d’Italia che sebbene patisca la crisi più di altre aprono le porte a stranieri e rifugiati, è un segno di coraggio. Un’autorizzazione alla speranza e anche una traccia splendente dell’anima cristiana dell’Europa. La stessa anima che non si vede nei 700 metri quadri di marmi della residenza del cardinale Bertone, uomo di Dio ma troppo lontano da questi uomini che vengono dall’inferno a chiedere aiuto.


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