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di Tania Careddu
Un quarto degli italiani non è cattolico. Un quinto non è religioso. Un decimo non è credente. E tre quarti si, sono cattolici. “Credenti cattolici”, che per il 75 per cento degli intervistati dalla Doxa per conto dell’associazione Unione Atei e Agnostici Razionalisti (UAAR), è l’espressione che meglio sintetizza il proprio credo religioso. Così composti: sono più cattoliche le donne degli uomini - 80 per cento contro il 69 per cento - con un’età superiore a cinquantacinque anni, abitanti del Sud e delle Isole, particolarmente in Puglia, Campania e Sicilia, e del Centro.
Al Nord Ovest, invece, vivono soprattutto gli atei e gli agnostici: sono per lo più di sesso maschile, hanno fra i quindici e i trentaquattro anni e appartengono a una classe sociale alta. Bassa, di contro, è quella nella quale si collocano i credenti cattolici, dei quali il 62 per cento è praticante.
Stesso valore percentuale quello che indica gli italiani che ritengono che la Chiesa cattolica condiziona la vita e le scelte delle persone in generale (principalmente in Piemonte, in Lombardia e in Calabria), fra i quali il 52 per cento ammette il condizionamento sulla propria, di vita.
A scegliere liberamente, soprattutto in Toscana, nel Lazio e nel Veneto, solo il 12 per cento e in una fascia d’età che supera i cinquantacinque anni. Emerge un’Italia spaccata in due, in evoluzione ma un po’ schizofrenica. Tanto che di fronte a questioni come il battesimo (confonde e terrorizza Bergoglio che ha dichiarato che “non è lo stesso, un bambino battezzato o un bambino non battezzato”?), ben il 61 per cento dei non cattolici è d’accordo nel farlo.Tra gli agnostici il consenso è del 49 per cento e chi risponde negativamente è pari al 29 per cento tra gli atei. La tanto discussa ora di religione, invece, sembra mettere d’accordo quasi tutti: il 54 per cento è sfavorevole. Così come lo sono verso la scelta di docenti effettuata dai vescovi e pagati dallo Stato italiano.
Con ovvie differenze: tra i cattolici, i contrari sono il 48 per cento, tra gli agnostici il 69 e tra gli atei il 72. Mentre in Sicilia, il disaccordo è molto contenuto, in Toscana e in Puglia è particolarmente ampio. Anche perché, il 58 per cento dei cattolici pensa che “senza Dio” non si possa vivere bene, eccezion fatta per i credenti (il 36 per cento) del Veneto, della Lombardia e del Piemonte.
Si nota, in ogni caso, un’apprezzabile apertura verso la libertà d’espressione: “I non credenti devono poter criticare i credenti” e viceversa. L’atteggiamento positivo verso i “senza dio” è prevalente: sette credenti su dieci potrebbero scegliere un medico di famiglia ateo e il 57 per cento di loro ha rapporti di amicizia con gli atei. E se lo fosse anche il Presidente della Repubblica? A parte un irrisorio 27 per cento contrario, per il 46 per cento è indifferente.
Si legge nella Sacra Bibbia, Salmi 14: “Lo stolto pensa: ‘Non c’è Dio’. Sono corrotti, fanno cose abominevoli: nessuno più agisce bene”. Era proprio stolido: la corruzione c’è. Anche in grazia di Dio.
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di Rosa Ana De Santis
E’ cominciata la diaspora del fine settimana dei bagnanti. I fanatici della tintarella e del mare lasciano l’urbe per mettersi in fila verso il litorale e i suoi stabilimenti alla moda. Costa caro il servizio ombrellone e lettino: 15 euro di media per infilarsi come polli in batteria sull’arena. Senza nemmeno potersi fare il bagno. Perché - attenzione - la notizia poco emersa dell’anno è questa. L’indagine di Goletta Verde e il lavoro dei biologi di Legambiente non lascia spazio ai dubbi.
Sono 13 le foci dei corsi d’acqua nel Lazio altamente inquinanti. Due le bandiere nere in testa: a San Felice Circeo per l’inquinamento alla foce del canale sulla spiaggia di fronte a Viale Europa e Via Gibraleon e anche a Waterfront di Ostia, progetto targato Gianni Alemanno. Sono stati il presidente di Legambiente, Lorenzo Parlati, il responsabile del servizio scientifico, Giorgio Zampetti e Cristiana Avenali, direttrice di Legambiente, ad ufficializzare i dati. Su otto canali campionati, sette risultano altamente inquinati.
Si parla di inquinamento microbiologico, di scarichi non depurati per il Circeo, mentre Waterfront e la colata di cemento ad Ostia, oltre a creare problemi irrecuperabili sull’arena e quindi sul controllo naturale del mare, ha sepolto ogni progetto di riqualificazione anche paesaggistica del litorale di Roma.
E parliamo quindi delle controverse bandiere blu. A vincere le bandiere blu 2014 diverse zone dell’Abruzzo, Sicilia e Sardegna, come al solito la Liguria, ma meno che nelle previsioni e con qualche incongruenza di cui si accorse già Stefania Prestigiacomo ai tempi in cui era a capo del Dicastero dell’Ambiente. Alcuni esempi? Spiagge abruzzesi e adriatiche che, poco dopo aver ricevuto la bandiera blu, hanno dovuto mettere i divieti di balneazione.
E ancora Fenicia Toscana, dove è possibile fare il bagno dentro al porto senza alcuna avvertenza né divieto e dove arrivò la bandiera blu senza che il Comune avesse nemmeno un depuratore. Caso denunciato nel rapporto sulla depurazione del Mar Mediterraneo Unpe/Map. Altra incongruenza tra le bandiere blu e le indicazioni di Touring Club. Insomma sfugge il confine tra l’esatta misurazione dell’inquinamento e la solerzia nel compilare i questionari sulle condizioni del mare da parte delle istituzioni coinvolte.
Il vademecum per l’assegnazione della bandiera blu, gestito dalla FEE (Federazione Educazione Ambientale) tiene conto di diversi punti - dalla gestione dei rifiuti, ai depuratori - ma l’aspetto più controverso è l’effettivo controllo dei parametri ambientali e scientifici che sono il nocciolo della questione. La Liguria rimane in testa, la Calabria e la Basilicata ai minimi e una bella new entry per il Lazio è data da Gaeta. Per i siti lacustri svetta il Trentino.
Pur con tutti i dubbi che questa classifica ripropone ogni volta, per prudenza, se siete maniaci del mare e abitate a Roma, consigliamo di puntare su Anzio. Pare che qui il mare sia più blu.
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di Tania Careddu
E’ notizia di qualche giorno fa l’arresto per pedopornografia dello stretto collaboratore (ormai ex) del premier britannico, David Cameron. Patrick Rock ha occupato un ruolo importante da consulente del governo, lavorando, ironia della sorte, all’accordo per un filtro ai contenuti pedofili con i maggiori motori di ricerca. Il nome è noto e fa cronaca. Arriva oltre la Manica e l’eco dello scandalo si propaga anche in Italia. Dove, invece, i casi simili a questo avvengono fra la gente comune (?) e perciò sono meno individuabili.
Anche perché, nonostante sia stata creata dal Dipartimento per le Pari opportunità una banca dati ad hoc, per la quale sono state investite ingenti somme, la stessa risulta “in fase di realizzazione” e l’ultima relazione al Parlamento risale al 2010. Un vuoto di conoscenza che si riscontra anche relativamente ai dati sul turismo sessuale a danno dei minori.
Fenomeno ampio, basti pensare che nel 2011, secondo l’ECPAT, circa duecentocinquantamila bambini sono stati vittime di prostituzione e ogni anno cinquecentomila di loro al di sotto dei diciotto anni, subiscono abusi sessuali. Violenze per le quali i nostri connazionali guidano, insieme ai tedeschi e ai portoghesi, le classifiche dei carnefici. Meta preferita: Brasile.
Attualmente protagonista di grandi eventi sportivi, dalla Coppa del mondo in corso alle prossime Olimpiadi nel 2016, risulta Paese di “destinazione” particolarmente a rischio. Sebbene la mancanza di banche dati, appunto, non consenta di quantificarli esattamente, né di conteggiare il numero degli italiani arrestati o che hanno deciso di sostenere il processo all’estero, secondo le associazioni non governative - le uniche, al pari di quelle turistiche, in grado di monitorare la situazione - i turisti italiani che scelgono il Brasile a scopi sessuali con bambini sarebbero ottantamila l’anno.
E nonostante i tifosi di calcio e gli sportivi non costituiscano un gruppo a rischio, potrebbero, però, trasformarsi in turisti sessuali “occasionali”. Vuoi per l’atmosfera esotica ed euforica e per il desiderio di nuove esperienze, vuoi per l’assenza di informazione, per i pregiudizi o per il senso di impunità legato all’anonimato nel Paese straniero.
Nell’ultimo anno, però, iniziative di sensibilizzazione proposte da confederazioni sindacali hanno coinvolto aziende farmaceutiche e imprese che offrono servizi di comunicazione. Stando a quanto si legge nel 7° Rapporto di aggiornamento su "I diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia", prodotto dal Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (CRC), pare che si muova un innovativo interesse fra l’opinione pubblica per l’approfondimento del fenomeno, anche verso i suoi aspetti normativi.E’ giunto il momento visto che, secondo quanto emerge da una ricerca sul sesso tra adolescenti e adulti, effettuata da Ipsos lo scorso febbraio, una larga fetta della popolazione italiana, pari al 38 per cento, la ritiene una pratica accettabile.
Spiegati così, almeno sociologicamente, i recenti e non sporadici fatti di cronaca che vedono adolescenti di genere femminile coinvolte nel giro di sesso a pagamento con uomini adulti. Professionisti, impiegati, persone di status economico-sociale medio alto che non si pongono alcuno scrupolo né sul piano legale e normativo né su quello etico e morale. E così la prostituzione minorile è in evoluzione: dalle baby squillo alla tratta delle giovani straniere.
Recenti stime evidenziano la presenza di più di mille minori di diciotto anni in strada. Ma, al di là dei dati quantitativi, lo sfruttamento sessuale delle minori, sia per strada sia indoor, risulta sommerso. Invisibili alle autorità competenti e agli operatori sociali per la spiccata mobilità sul territorio e a causa dello schiacciante controllo degli sfruttatori.
E anche per la difficoltà a denunciarne i casi. Addirittura i pediatri, oltre il 60 per cento di loro, hanno percepito casi di maltrattamento ma non li hanno segnalati per l’incertezza degli elementi a disposizione, dei modi per farlo e degli organismi a cui rivolgere le segnalazioni. E pure intimoriti dalle conseguenze dell’eventuale gesto.
Anche la scuola fatica a segnalare o lo fa in ritardo, perché spesso sottovaluta l’entità dei fatti, soprattutto quando si tratta di adolescenti. Scarseggiano gli interventi di assistenza e recupero delle giovani vittime che, invece, necessiterebbero di un percorso psicoterapeutico e sul piano giudiziario non sono adeguatamente rappresentati nel processo.
Ma, alla resa dei conti, stando ai numeri di una ricerca condotta nel 2013 da CISMAI e Terre des hommes, ben centomila bambini, lo 0,98 per cento della popolazione minorile, ogni anno sono presi in carico dai servizi sociali italiani esclusivamente per abuso sessuale. Tutto il mondo è paese. Purtroppo.
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di Rosa Ana De Santis
Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, nei giorni scorsi ha firmato “nero su bianco” un decreto che impone ai medici ginecologi che operano nei consultori, pur se obiettori di coscienza, di assicurare alla donna che lo richiedesse tutti i certificati necessari per avere assistenza e cura nel caso di interruzione di gravidanza, nonché la prescrizione di farmaci anticoncezionali post coitali, la famosa pillola del “giorno dopo”.
La legge già esiste, ma la 194, proprio in virtù del diritto di obiezione di coscienza, diventa spesso una scatola vuota che disattende il diritto di scelta delle donne. Accade spesso, infatti, che si debba iniziare un vero e proprio pellegrinaggio alla ricerca del medico - o addirittura del farmacista - non obiettore.
Non soltanto quindi la legge dello Stato viene scavalcata per ragioni di ordine etico privato, il che rappresenta un’insidia alla tutela e alla garanzia della legge stessa; ma tutto quel corpus di assistenza anche psicologica che la 194 prevede per le donne in difficoltà, viene totalmente dimenticato, inficiando quegli scrupoli di ordine morale e quel desiderio di sostenere una scelta così difficile con cui questa legge è nata. Garantire un diritto, senza banalizzarne l’esercizio e l’applicazione.
Il decreto non impone ai medici di applicare obbligatoriamente l’interruzione volontaria di gravidanza, che pure non sarebbe un diktat improponibile nel momento in cui si lavora in strutture pubbliche dove vige la legge italiana e non quella “vaticana”, ma di non esimersi dall’affidare quelle donne ai colleghi e alle strutture giuste, a impedirne l’abbandono come di fatto avviene con una pratica diffusa che solo grazie all’impegno dei volontari viene spesso aggirata.
Niente obiezione di coscienza quindi nei consultori che, nello spirito della legge 194, devono assolvere ad una funzione informativa, educativa ma anche di supporto per qualsiasi decisione la donna dovesse prendere.
La disinformazione sul sesso in Italia è ancora dilagante. I medici omettono l’argomento “contraccezione” e cosi la libertà sessuale che ora tocca fasce d’età di giovanissimi non è accompagnata da alcuna consapevolezza, né adeguata informazione. Lo documenta, da un’inchiesta condotta da L’Espresso, il numero di 9 mila maternità non desiderate.
Anche per questo imporre ai medici dei consultori il rispetto di una condotta che deve tornare ad essere pienamente a norma di legge, diventa urgente e necessario. La politica lo ha capito e al Presidente Zingaretti va riconosciuto il merito di aver sfidato un certo clima culturale di condanna verso questa legge che, ancora a distanza di oltre trent’anni, è al centro di polemiche e boicottaggi clericali pesantissimi.Se pensiamo che circa il 90% dei medici nel Lazio è obiettore, è facile intuire come la legge 194 sia sostanzialmente inapplicabile, salvo ricerche di vie private - magari tra gli stessi obiettori in pectore degli ospedali pubblici - o di vie crucis tra ospedali.
Il consultorio dovrebbe essere il primo luogo in cui la donna che è incinta e vive il peso di una scelta difficile possa trovare il giusto sostegno e la migliore accoglienza, in termini medico-sanitari e psicologici. Questo dice chiaro la legge. E a questo dovere legale, che impone di non abbandonare una persona che a norma di legge ha il diritto di assumere una certa scelta, se ne aggiunge uno morale più grande ancora. Il rispetto del diritto individuale alla libertà, a vivere secondo un’etica privata che non sia per forza religiosa, tantomeno cattolica.
Peraltro se una donna che pur nella difficoltà decide di diventare madre e rinuncia ad abortire è una vittoria, questa non passa dall’anatema dell’obiezione di coscienza e dell’abbandono. Semmai dall’accoglienza, dalle tutele di uno stato sociale efficiente, da una buona politica e da una capillare informazione ed educazione nelle scuole.
Non certo dal silenzio delle condanne o dal potere delle scomuniche implicite. Quelle che vengono fatte espiare alle donne che scelgono da troppi medici e operatori sanitari in barba alla legge e ad Ippocrate. Sia per quelle donne che lo fanno con dolore e riflessione che quelle che “non sanno ciò che fanno”, c’è bisogno di ben altro che un abbandono. In nome di quale che sia la coscienza.
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di Tania Careddu
Parola d’ordine: sgomberare. Ossia, spostamento forzato di comunità Rom associato alla costruzione di spazi abitativi assegnati su base etnica alle stesse comunità. In cambio, una precaria forma di assistenzialismo che inibisce l’esercizio dei diritti fondamentali. Costruirli ha un costo economico, oltreché sociale, altissimo. E mantenerne la gestione ancora di più.
Tanto per farsi un’idea, scevra da pregiudizi, basta consultare le voci di spesa sostenuta all’uopo dal Comune di Roma, nel 2013 e ricostruita dall’Associazione 21 luglio nel Rapporto Campi Nomadi S.p.a. Segregare, concentrare e allontanare i Rom. I costi a Roma nel 2013. Undici insediamenti per cinquemila Rom e cinquantaquattro azioni di sgombero forzato che hanno coinvolto milleduecento di loro per un totale di 24.108.146 euro.
Al conto si aggiungano gli stipendi dei due dipendenti comunali preposti al coordinamento delle attività inerenti i “villaggi della solidarietà”, pari a cinquantaduemila euro annui lordi, e i soldi destinati all’Unità di Strada, la quale si occupa del “supporto alle attività di censimento delocalizzazione villaggi nel territorio città”, che ammontano a centoquarantamila euro e spicci.
Un sistema particolarmente esoso rispetto ai servizi che è in grado di offrire e alla sostenibilità che garantisce. Irrisoria, considerato che il finanziamento iniziale non solo non è sufficiente a sostenere la politica nel lungo periodo ma innesca una serie di spese che richiedono un rinnovamento costante. Una situazione che odora di business fra l’amministrazione comunale, che eroga finanziamenti diretti a pioggia, e il terzo settore, che li riceve per dispensare servizi prevalentemente assistenziali o per agevolare lo spostamento delle comunità Rom da un punto scomodo della città a un altro più invisibile.
Il tutto nella convinzione (o nel convincimento?) che il sistema campi sia la formula più conveniente e giustificando la mancanza di alternative volte a un inserimento, che parta da quello abitativo, con l’assenza di risorse pubbliche. Eppure il loro superamento sarebbe possibile. Lo suggerisce la Strategia Nazionale per l’Inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti, varata nel febbraio 2012, secondo la quale ai Comuni viene proposta un’ampia gamma di opzioni abitative.Dall’edilizia sociale in abitazioni ordinarie pubbliche al sostegno all’acquisto di abitazioni ordinarie private; dal supporto all’affitto di abitazioni ordinarie private all’affitto di cascine e casali di proprietà pubblica in disuso fino alle autocostruzioni accompagnate da progetti di inserimento sociale. Che nulla hanno a che fare con le attuali soluzioni alloggiative. Che si chiamino “villaggi della solidarietà”, è il caso di Lombroso, Gordiani, Candoni, Cesarina, Camping River, Castel Romano, Salone e La Barbuta, o “centri di raccolta”, quali Best House Rom, via Salaria, o via Amarilli, sono lager più che soluzioni.
Tutti caratterizzati da un isolamento fisico e relazionale, da condizioni igienico-sanitarie al limite della decenza, da spazi inadeguati e claustrofobici, da servizi interni insufficienti, da unità abitative lontanissime dagli standard minimi di alloggio adeguato. Sono container, bungalow e roulotte, a volte prive di cucina e bagno. Gli insediamenti sono provvisti di un sistema di videosorveglianza e di identificazione con un registro in entrata e in uscita, talvolta sono recintati con fili metallici. Distano mediamente due chilometri dalla prima fermata degli autobus e oltre tre chilometri dal mercato più vicino e dagli uffici postali. Quasi del tutto assenti gli spazi riservati ai bambini.
E pensare che sempre la Strategia di cui sopra propone un approccio particolare per i minori che sia “globale, che non separi artificiosamente i temi della scolarizzazione, delle soluzioni abitative in ambienti decorosi, della valorizzazione delle specificità culturali, della salute, del tempo libero e dell’integrazione degli adulti di riferimento”. Ma la sua concreta applicazione risulta in forte ritardo, sebbene l’Italia, con la Strategia, si sia impegnata a livello europeo. Promesse da Belpaese.