di Tania Careddu

Quando l’aria economica e politica si fa irrespirabile, l’economia sommersa permette a un gran numero di soggetti produttivi di prendere fiato. E il comparto agricolo è uno di questi: per massimizzare la produttività di un’attività con una modesta redditività, il lavoro perde la caratteristica di costo fisso e diviene un fattore che varia con il livello di produzione. E diventa nero. Sebbene sia difficile da stimare per l’eterogeneità delle fonti e la dispersività dei dati, una cosa è certa: è in crescita in tutti i Paesi e dal 2007 a oggi ha generato cinquecentoquarantanove miliardi di euro l’anno.

Con ordine: la grande maggioranza delle aziende agricole è di piccole dimensioni - individuali o a conduzione diretta - che produce, spesso, per l’autoconsumo utilizzando una manodopera familiare. Ma quando la stagione chiama, si fa ricorso alla manodopera giornaliera, costituita per lo più da migranti, rumeni, bulgari, albanesi, polacchi, indiani, pachistani, provenienti dall’Africa equatoriale e dal Nord Africa. In nero.

Utilizzata in tutti i lavori agricoli, generici e specializzati, dalla semina alla raccolta, dalla selezione alla lavorazione, dalla pastorizia alla zootecnica. In condizioni di estremo sfruttamento se non di vero e proprio schiavismo.

Senza uno straccio di contratto, sconosciuta agli enti previdenziali e di vigilanza, senza tutele previste dalla legge. Ma tant’è: ci si adegua al clima generale per poter lavorare. Soprattutto nelle aree depresse del Sud, in testa Campania, Calabria e Puglia, la più flagellata. Dove, nel 2013, è risultata in nero più della metà dei lavoratori delle aziende agricole, con picchi del 70 per cento nel Salento, del 54 per cento nella provincia di Bari e del 40 per cento in quella di Foggia. Con irregolarità visibili anche sul salario che, generalmente, ammonta alla metà di quello previsto dai contratti. Ma le peculiarità del lavoro agricolo, vedi l’informalità dei rapporti e gli incarichi a giornata, rendono più ostici anche i controlli.

D’altronde, il perdurare di una profonda crisi economica che genera forti difficoltà al sistema produttivo e la pressione fiscale ormai insopportabile, da un lato spinge le aziende verso la ricerca di ‘soluzioni’ poco ortodosse e dall’altro costringe i lavoratori, in mancanza di lavoro e sospinti dal bisogno, ad accettare condizioni di lavoro punitive retribuite in nero.

E’ il caso (anche) degli italiani: operai, muratori, carpentieri, geometri, ragionieri e finanche fornai, approdano nei campi dopo la chiusura di fabbriche e imprese, in seguito a un licenziamento o a una drastica riduzione del salario. Per venti euro al giorno, un quinto del minimo sindacale, dodici ore di lavoro dall’alba al tramonto, trentacinque euro per raccogliere le ciliegie o quaranta come braccianti.

Vivono in baraccopoli, senza acqua potabile, servizi igienici e assistenza medica (il 70 per cento di loro ha contratto malattie), che costituiscono veri e propri ghetti. Gli schiavi del nuovo millennio vengono reclutati dai ‘caporali’, anello di congiunzione del sistema agricolo che garantisce la disponibilità della manodopera al momento giusto e direttamente in azienda, i quali si ‘servono’ nei mercati dei paesi o nelle periferie delle grandi città per cercare forza lavoro giornaliera e condurla nei campi, in un servizio ‘tutto compreso’. Inclusa la percentuale per la prestazione: il 60 per cento della paga giornaliera.

E però, purtroppo, quattrocentomila uomini trovano lavoro tramite loro, operativi in ottanta epicentri di sfruttamento. Dal 2011, quando è stato istituito il reato di caporalato, trecentocinquantacinque caporali sono stati denunciati o arrestati. Ancora troppo pochi.

di Fabrizio Casari

La si può moltiplicare per 10 Tor Sapienza. E’ la storia delle periferie romane, 40 anni dopo Petroselli, l’ultimo sindaco comunista che sul risanamento delle borgate, pur con i suoi errori, mise la condizione delle periferie al centro dell’agenda del governo di Roma. Dopo di lui, nulla. Degrado, marginalità, sporcizia, assenza di servizi, insicurezza, difficoltà di promuovere cultura, partecipazione, dimensione collettiva di quartiere. La strada per trasformare le periferie romane da dormitori e sacche di marginalità in quartieri è lunga come quella che separa la dignità dalla disperazione, irta di ostacoli e deficitaria di attenzioni.

Succede così, dunque, che il nemico della tua qualità della vita lo s’individua nell’ultimo arrivato, soprattutto se più povero e più marginale di te. Soprattutto se privo di rappresentanza e lontano da ogni speranza.

Quel vialone di Tor Sapienza è diventato il luogo simbolo della protesta perché non manca niente del corredo dell’orrore. Spaccio, prostituzione, immigrati, trans, papponi, malavitosi di quartiere, bulli e ultràs. Il menù dell’invivibile affolla piatti che nessuno vorrebbe mangiare a che giacciono, stanziali e ogni giorno più maleodoranti, senza che qualcuno provi a rovesciare il tavolo. Senza che nessuno finalmente racconti di una periferia un tempo umana ed oggi infernale, che nella fine del lavoro e del reddito ha visto la fine anche di ogni piccolo sogno, per modesto che fosse. In una periferia che da culla della romanità è divenuta con la crisi l’immagine di una Roma ridotta ad un colabrodo, quel quartiere racconta di una zona un tempo diversa e oggi drammaticamente uguale a quelle di peggior fama.

Ai più deboli tra i deboli, agli ultimi tra gli ultimi, li si vuole cacciare, come in un rito purificatorio. Li si vuole lontani dalla vista prima che dal contatto, per esorcizzare un futuro prossimo che gli somigli. Come a voler scacciare l’incubo di precipitare negli inferi degli ultimi, i penultimi scatenano le paure alle quali danno un simbolo, agnello sacrificale sull’altare della morte presunta della civiltà del lavoro e del decoro.

La disperazione sociale, il senso di un abbandono irreversibile, la certezza di non poter invertire la corsa verso un piano ogni giorno più basso, alimenta i pensieri che, disperati, si trasformano in grugniti e urla piuttosto che opinioni. Su quella disperazione, provocatori in cerca d’ingaggi lavorano sodo. Si dedicano anima e corpo a trovarsi un ruolo che vaghi negli spazi dell’odio e che ritorni sotto forma di prebende da parte di chi, su quell’odio, costruisce le sue fortune politiche, quasi sempre in combutta con chi poi, a macerie spente, fa affari edili.

C’è un retroterra di razzismo sociale, subìto e riproposto. Chi di quel razzismo sociale è stato vittima, diventa oggi artefice. Incapace di generare un canale politico dove indirizzare la protesta e il bisogno di riscatto, si lascia abbindolare da farabutti alla Borghezio, il cialtrone per eccellenza della politica, o dal furbetto Salvini, imprenditore dell’odio, che sull’odio e sulla furbizia costruisce la sua fortuna, cercando di far dimenticare le vicende grottesche che hanno animato la storia della Lega Nord. Sull’odio per gli albanesi e romeni costruivano consenso e potere, per poi pagare, con i soldi che rubavano, le laure finte romene e albanesi.

Normale dunque che imprenditori dell’abuso e imprenditori dell’odio si mettano insieme. E l’innesto di fascisti e leghisti ad appestare l’aria non può stupire. Normale anche che il ciarpame nero si associ, l’odore del sangue attira sempre le carogne. Meno normale è che trovino qualcuno che possa prestargli anche solo un momento di attenzione invece che di seppellirli di pernacchie.

In quella polveriera di odio incrociato, dove il confronto diventa su chi ha e chi non ha, la vittima inevitabile diventa il chi siamo e il cosa non vorremmo diventare. A fornire l’innesco per quella giacenza umana esplosiva, l’altro giorno è stata una presunta aggressione di presunti stranieri; ma conta poco il fatto in sé, dal momento che le persone in strada raccontano di episodi di violenza, di oltraggi continui, di mancanza di rispetto e d’insicurezza ormai quotidiane.

Conta fino a un certo punto, oggi, stabilire se sia stata o no una buona idea lo sgombero che si annuncia parziale ma che sarà totale. A chi parla di resa dello Stato si dovrebbe ricordare che non può esservi resa da parte degli assenti. A chi vede l’operazione come argine di possibili estensioni di violenza, di drammi sottocoperta che potrebbero innescare fuochi e funerali, si può riconoscere il temporeggiare come agire nel tempo della morte delle parole.

Ma se si vuole andare oltre la condanna di come nel calderone dell’odio ci sia finito soprattutto chi non c’entra, se si vuole uscire dalla retorica che vede nell’immigrato una vittima incapace di riprodursi in forma delinquenziale, e se si vuole evitare il salmo dell’accoglienza qualunque, quantunque e comunque come principio cardine della nostra esistenza, si deve, per forza, puntare il dito sulle responsabilità politiche di chi ha deciso che le periferie della città, già piagate e piegate dalla crisi economica e dalla mancanza di presenza dello Stato sul territorio, debbano diventare pure il supporto unico di ogni gradino della degradazione umana.

Un controllo del territorio migliore, un’illuminazione decente, insediamenti di poche unità di per sé facilmente integrabili e non di decine e decine di persone, inevitabilmente destinate a formare nuclei organizzati, sarebbero le prime cose di buon senso da mettere in agenda. Invece i problemi dettati da una mancanza di una politica dell’immigrazione vengono scaricati sulle periferie e sulle aree più difficili delle città.  Discuterne negli happy hours dei quartieri bene con un tocco di vintage è inutile prima che stupido. Quando la sinistra abbandona lo spazio, la destra avanza. Quando la ragione emigra verso più comodi siti, l’assenza di ragione diventa la nuova ragione.

Quando in un territorio abbandonato politicamente, socialmente ed economicamente, già in estremo disagio, si decide d’importarvi un’area di disagio ancora maggiore, oggettivamente non composta solo da gentiluomini, fatta di campi nomadi, centri d’accoglienza e quant’altro a disposizione per gli ultimi tra gli ultimi, significa dire ai penultimi che non diventeranno mai i primi, semmai da penultimi diventeranno ultimi, perché chi non ha niente da perdere, sa come prevalere su chi, per quanto poco, da perdere ce l’ha.

Non si hanno notizie di spostamenti di disperazione, di scarichi di marginalità in carne e ossa in zone dove la borghesia vive e si riproduce socialmente. Non ci sono i quartieri bene ad ospitare il degrado, che viene invece spedito su aree già degradate. Non perché vi sia l’illusione che le diverse forme di degrado possano integrarsi, ma solo per fare in modo che la disperazione degli ultimi si scontri con il degrado dei penultimi, in modo di lasciare così i primi a debita distanza.

Come un generale editto di Saint Cloud, come in un orrendo film senza storia né senza star, dove tutti gli attori sono non protagonisti, grazie alla fine della politica si proietta la storia del fascismo sociale e diffuso di ritorno. Non ci sono scenografie che illuminino e fondali che stemperino. Il nero domina.

di Tania Careddu

“Nessuna società è in grado di sostenere una tale disuguaglianza in continua crescita. Anzi, nella storia dell’umanità non esiste un solo precedente in cui la ricchezza si è accumulata tanto senza che prima o poi la gente tirasse fuori i forconi. Dove voi vedete una società fortemente iniqua, io prevedo uno stato di polizia. O una rivoluzione. Ne ho la assoluta certezza”.

E se lo dice Nick Hanauer, imprenditore americano di ricchi natali, amministratore delegato di grandi aziende e uno dei primi investitori in Amazon, c’è da giurarci che sia così.

L’estrema disuguaglianza, sia patrimoniale sia di reddito, corrompe la politica, impedisce lo sviluppo economico, paralizza la mobilità sociale, fomenta la criminalità e la violenza, spreca talenti, soffoca le potenzialità e mina le fondamenta stesse della società, rappresentando un molteplice pericolo per tutti. Anche per quelli che la producono.

Stando a quanto si legge nel dossier di Oxfam Partire a pari merito. Eliminare la disuguaglianza estrema per eliminare la povertà estrema, se le ottantacinque persone più ricche del mondo posseggono tanto quanto la metà più povera dell’umanità e, in un anno, hanno riempito i loro portafogli di seicentosessantotto milioni di dollari al giorno, si fa presto a dire che il divario ha raggiunto livelli esasperati.

E tende ad aumentare: sette persone su dieci vivono in Paesi dove la distanza tra abbienti e non è maggiore di quanto non fosse trenta anni fa. Negli Stati di tutto il mondo le minoranze più ricche si appropriano di una quota sempre crescente del reddito nazionale e, dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008 ad oggi, la schiera dei miliardari è quasi raddoppiata. Con la conferma da parte degli economisti del Fondo Monetario Internazionale che la disuguaglianza economica sia tra le concause della crisi stessa.

Tanto per farsi un’idea delle proporzioni: se subito dopo l’esplosione della crisi finanziaria, si fosse imposta una tassazione dell’1,5 per cento sui patrimoni dei miliardari del mondo, l’introito avrebbe consentito di salvare ventitré milioni di vite nei quarantanove Paesi più poveri, fornendo loro il denaro da investire in cure sanitarie e avrebbe creato un gettito sufficiente a coprire i gap annuali nei finanziamenti necessari per permettere  a ogni bambino di andare a scuola e per erogare i servizi sanitari.

Purtroppo, gli interessi acquisiti dai ricchi si oppongono alle riforme del sistema fiscale, il quale risulta essere uno degli strumenti più utili che i governi hanno a disposizione per ridurre la disuguaglianza estrema, e, ove non vi fosse la piena corrispondenza, trovano alloggio nei paradisi fiscali, scappatoie idilliache opportunamente costruite per ovviare ai pagamenti. E così il mondo intero, nel 2013, ha perso centocinquantasei milioni di dollari di entrate erariali per risorse occultate off shore, permettendo ai ricchi clienti di non pagare il loro giusto contributo in patria.

Il quale invece sarebbe, oltre che giusto, utile a garantire i diritti fondamentali, tra cui sanità e istruzione, a ogni cittadino. Cento milioni di persone sulla Terra, ogni anno, cadono in povertà perché devono affrontare di tasca propria le spese sanitarie e l’istruzione.

Chi è più povero sembra destinato a rimanerci: la distribuzione di reddito influenza notevolmente le aspettative di vita. I ricercatori dicono infatti che nei ventuno Paesi nei quali è stato possibile reperire dati in merito, la disuguaglianza economica vada di pari in passo con la scarsa mobilità sociale.

Quindi, per quanto duramente lavori, la grande maggioranza della popolazione più povera non può sfuggire alla sua condizione e in troppi subiscono l’umiliazione di un salario di sussistenza versus le retribuzioni percepite dai ricchi, sempre elevate e crescenti, corredate da bonus e redditi derivanti dal patrimonio e dal capitale accumulato.

Non basta. Laddove la disuguaglianza è estrema si manifesta tutta una serie di problematiche sanitarie e sociali, fra cui patologie psichiche e criminalità: i tassi di omicidi sono quasi il quadruplo di quelli rilevati in nazioni più eque.

Ma anche la possibilità di ricorrere alla giustizia è spesso in vendita, poiché i costi dei procedimenti disciplinari e dell’accesso ai migliori avvocati garantiscono impunità ai ricchi.

L’esito di questi meccanismi è appunto visibile nelle politiche fiscali sbilanciate e nei regimi normativi permissivi, che incoraggiano la corruzione e indeboliscono la capacità dei governi di combattere la povertà. Anche perché gli interessi delle elites economiche orientano le scelte dei politici e consolidando sempre più le posizioni di iniquo vantaggio dei più facoltosi.

Il potere di lobbying delle ricche corporazioni plasma le regole a loro favore e le istituzioni finanziarie pagano oltre centoventi milioni di dollari all’anno a schiere di lobbisti che hanno l’obiettivo di indirizzare a loro vantaggio le politiche dell’Unione europea. Molti miliardari hanno fondato le loro fortune sulle esclusive concessioni e privatizzazioni governative derivanti dalla rapacità politica e dal fondamentalismo del mercato.

Stando al quale si può dare avvio a una crescita economica duratura soltanto riducendo gli interventi governativi e lasciando che i mercati seguano il proprio corso. Ma questo, se sta bene al capitalismo, è, invece incompatibile con le regole necessarie a tenere a bada la disuguaglianza, perché impone agli Stati europei indebitati di privatizzare, deregolamentare, tagliare gli strumenti di welfare favorevoli ai più vulnerabili e, contemporaneamente, di ridurre le tasse ai più ricchi.

Eppure è documentato che gli esseri umani avvertono, per la loro stessa natura, che negli alti livelli di disuguaglianza c’è qualcosa di sbagliato, contraddicendo l’opinione prevalente secondo la quale avrebbero una tendenza innata a perseguire l’interesse personale. No. Non è una condizione intrinseca e inevitabile: la storia ha dimostrato che le sue peggiori manifestazioni e forme sono nate da lucide scelte politiche, ma che la preferenza di fondo degli esseri umani per l’equità e l’uguaglianza è trasversale a tutte le culture e le società.

di Tania Careddu

“Gli immigrati subiscono ancora discriminazioni in diversi ambiti della loro vita, soprattutto in campo sociale e lavorativo, che incidono pesantemente sulle possibilità dell’integrazione, dal momento che la condizione fondamentale perché l’integrazione abbia credibili chance di realizzazione è proprio che, almeno nelle dimensioni più importanti della vita civile, si riscontri una effettiva e verificabile uguaglianza di trattamento e di diritti tra italiani e stranieri”. Così dicono al Centro Studi e Ricerche IDOS, in occasione della presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2014 Rapporto Unar ‘Dalle discriminazioni ai diritti’.

In effetti, facendo un confronto statistico fra la condizione degli immigrati e quella degli italiani in alcuni settori di inserimento sociale e occupazionale, balza una differenza a svantaggio dei primi. Il primo di questi ambiti di discriminazione è l’accesso al mercato della casa: in media, gli stranieri sostengono, pro capite, un costo per l’affitto della casa che è superiore di un quinto a quello che sostengono gli italiani. Se a questo si aggiunge che la retribuzione media pro capite dei lavoratori dipendenti immigrati è inferiore di oltre un quarto a quella degli italiani, si capisce come la casa resti un bene primario di welfare proibitivo per gli immigrati.

Senza contare le molteplici forme di preclusione verso gli stranieri da parte dei proprietari con il 5,1 per cento di discriminazioni segnalate all’Unar. Inoltre, secondo i dati riportati nel Dossier, le quattromila compravendite effettuate dagli stranieri nel 2013 sono meno della metà rispetto a quelle degli anni precedenti la crisi e anche il volume finanziario si è ridotto a sette milioni e rotti di euro: ne è conseguita una maggiore canalizzazione nel mercato degli affitti e nei bandi dell’edilizia residenziale pubblica.

Il superamento della discriminazione è stato possibile solo in seguito all’intervento dell’azione giudiziaria, del ricorso alla normativa comunitaria e alla Corte di Giustizia di Lussemburgo. Secondo ambito sociale di comparazione tra italiani e stranieri: la scuola. E riguarda la massiccia canalizzazione degli studenti stranieri di scuola superiore in percorsi che puntano a un immediato inserimento nel mondo del lavoro piuttosto che a un proseguimento degli studi a livello universitario: sono appena il 20,6 per cento quelli che scelgono un liceo invece di un istituto tecnico o professionale a differenza del 43,7 per cento tra gli italiani (una percentuale più che doppia).

Il che pregiudica, per le nuove generazioni di origine straniera, la possibilità di competere nel mercato del lavoro per posti di più alta qualifica, perpetuando quel modello di “inserimento subalterno” in cui gli immigrati vengono relegati agli impieghi più dequalificati, poco retribuiti e precari che caratterizza l’occupazione straniera in Italia, sin dalle prime generazioni. E che rischia di ingessare la mobilità sociale degli immigrati anche nel ricambio generazionale. A conferma di ciò, il terzo ambito indagato, l’inserimento occupazionale.

Si ottiene che ben la metà dei lavoratori immigrati che ha iniziato il proprio rapporto di lavoro prima del 2013, lo ha visto terminare nel corso dello stesso anno perché licenziati, dimissionati o per mancato rinnovo del contratto alla scadenza, viceversa tra gli italiani, la quota è di venti punti inferiore; l’impiego dei lavoratori stranieri è maggiormente discontinuo e a tempo parziale secondo un modello lavorativo “a singhiozzo” correlato da ore non dichiarate o da impieghi totalmente senza contratto, con tutto ciò che comporta sia in termini di tutela previdenziale e infortunistica sia sulla permanenza regolare in Italia.

Si fatica, a livello amministrativo, a recepire che i bandi per i concorsi pubblici non possono essere riservati ai soli cittadini italiani o comunitari, non mancano le resistenze inverse e mentre il ministero della Giustizia ha ritenuto superata la legge sulla stampa circa il requisito della cittadinanza italiana per diventare direttore di una testata giornalistica, qualche giudice di merito non è stato in sintonia con questa apertura; in campo sportivo, molto resta da fare per eliminare le “discriminazioni istituzionali” che impediscono agli stranieri - inclusi quelli di seconda generazione - l’accesso al calcio professionistico.

Eppure, nonostante tutte queste impari opportunità, loro continuano a svolgere un ruolo importante sul piano previdenziale, grazie alla giovane età che ne fa dei fruitori marginali del sistema pensionistico. Nel 2012 sono stati versati circa 9 miliardi di euro di contributi da lavoratori stranieri e, in futuro, secondo le stime di IDOS, l’incidenza degli stranieri fra quanti raggiungeranno l’età pensionabile sarà del 6 per cento nel 2025, quando tra i residenti stranieri pensionati saranno all’incirca uno ogni venticinque (tanto per avere la dimensione, oggi, tra gli italiani sono uno ogni tre).

E invece, la presenza degli immigrati è percepita come una concausa della congiuntura negativa: la ricerca di un capro espiatorio di fronte a non incoraggianti momenti di crisi economica, che sembra contribuire a una crescita della xenofobia, rende necessario un costante monitoraggio dei rischi di conflittualità sociale così come un’azione di promozione delle pari opportunità per i “nuovi” cittadini che non saranno la soluzione dei nostri mali ma non ne sono neppure la causa. Anzi, possono essere di aiuto sul piano demografico, culturale, occupazionale e commerciale. Basti pensare alle loro cinquecentomila imprese portate avanti in questa fase di crisi.

Alla base della convivenza ci deve essere il concetto di pari opportunità: cittadinanza e benessere non possono essere intesi e vissuti in una forma escludente nei confronti degli ‘altri diversi’. E’ tempo di pensare in grande, di passare “dalle discriminazioni ai diritti”.

di Rosa Ana De Santis

L’epilogo giudiziario della Corte d’Appello di Roma per la morte di Stefano Cucchi, avvenuta nel 2009 all’ospedale Sandro Pertini, sei giorni dopo l’arresto per detenzione di stupefacenti, lascia di sasso familiari, media e opinione pubblica. Ribaltata la sentenza di primo grado in virtù del secondo comma dell’articolo 530, che peraltro condannava soltanto i medici per omicidio colposo e lasciava immuni gli agenti di polizia penitenziaria.

“Per insufficienza di prove” - cosi recita la sentenza - vengono assolti tutti gli imputati, ma viene però lasciato irrisolto un omicidio, giacché Stefano non può essersi picchiato da solo e muore quando era sotto controllo medico, senza un colpevole che paghi.

La famiglia Cucchi, sin dagli inizi del procedimento legale, ben immaginando le difficoltà di individuare colpevoli e responsabilità, aveva mostrato le foto di Stefano sul tavolo dell’autopsia, contravvenendo a ogni naturale forma di protezione del proprio dolore. Il volto viola per le percosse, gli occhi gonfi, la schiena rotta, pelle e ossa di una morte per inedia. Così è accaduto ancora alla fine della lettura di quest’ultima sentenza. Gigantografie di uno scheletro pestato che rimangono con una spiegazione, ma senza colpevoli. Una conclusione grottesca.

L’impianto accusatorio per omicidio colposo e non preterintenzionale lasciava presagire questo epilogo. Cosi commenta l’avvocato Fabio Anselmo della famiglia Cucchi, che forse è il meno sorpreso di tutti. Tanto più vero in un paese di impunità garantita per chi indossa l’uniforme della legge. Lunga la lista di altri casi scandalosi, da Aldovrandi a Uva.

Per il pm Stefano fu picchiato nelle camere di sicurezza del tribunale, dove aspettava la convalida del suo arresto. Cosi lo vede anche suo padre quando entra in aula. In ospedale un concorso spietato di responsabilità lo condanna definitivamente a morte. Le sue richieste di vedere i familiari e di avere farmaci non vengono prese in alcuna considerazione e la protesta del giovane geometra per i suoi diritti negati si trasforma in una morte per inedia, sotto un lenzuolo in un ospedale pubblico italiano.

Per la III Corte d’Assise in ogni caso Cucchi morì per l’incompetenza e le gravi omissioni dei medici. Le percosse che pure furono immediatamente riscontrate già in una prima visita al Fatebenefratelli, cui fu sottoposto prima del processo, non erano tali - secondo la Corte - da indurlo a morire e la schiena spezzata, visibile anche in una delle foto dell’orrore, poteva risalire al passato e non a quei giorni. Oggi i legali dei tre agenti coinvolti parlano di percosse o avvenute prima dell’arrivo di Stefano in tribunale (quando era in mano dei carabinieri e quando già arrivò con tumefazioni e lividi e si disse al padre che era caduto nella stazione in cui si trovava) o successivamente. O forse prima e anche dopo, viene da pensare. O forse mai, come vuole lasciar credere quest’assoluzione plenaria della Corte D’Appello.

Si prepara il ricorso in Cassazione e un’azione legale contro il Ministero della Giustizia. Anche di un ricorso alla Corte Europea se sarà necessario. E’ la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, ad annunciarlo. La sentenza ultima è lo smacco finale di perizie contraddittorie da parte della Corte di Primo Grado. Ad oggi sappiamo che il pestaggio c’è stato, un pestaggio mirato e pesante, come mostrano le foto, che porta Stefano a dover esser definitivamente ricoverato al Sandro Pertini.

Sappiamo anche che sta male e chiede aiuto, ha bisogno di incontrare familiari e di ricevere farmaci. Sappiamo che si spegne senza che nessuno faccia qualcosa per farlo mangiare e bere. La protesta di un uomo con le ossa rotte e lasciato solo, colpevole di detenere 29 grammi di hashish.

Ad oggi non si capisce, aldilà di questo lungo processo colabrodo, il perché picchiare, perché questo furore, questa violenza contro un ragazzo magro e inoffensivo. Perché ridurlo così? Ad oggi la giustizia non sa dire il nome di chi lo ha picchiato né di quanti. Hanno riconosciuto le colpe dei medici in primo grado, ma con quest’ultimo atto li mandano a casa con una bonaria riprovazione morale. Forse nemmeno. E ricordiamo, perché vale la pena rammentarlo in questa farsa delle contraddizioni, che questo è il paese in cui la legge vuole far vivere a tutti i costi coloro che non vogliono più vivere.

Ad oggi sappiamo anche, ahinoi, che l’unica vera ragione di questo scandalo giudiziario e morale è perfettamente quella che espresse il senatore Giovanardi quando, in un suo delirio tra i tanti altri, parlò di Cucchi come di una vittima dell’anoressia e della droga. Stefano era un geometra, un ragazzo semplice, non un figlio di papà, un ragazzo che consumava hashish probabilmente e che aveva avuto un passato di dipendenza.

Uno che si può pensare di picchiare a sangue indisturbati, chissà perché, magari per noia o per general generico odio sociale (Genova docet), uno cui può essere negato il diritto di visita di un familiare anche quando lo chiede dando in pegno e come scambio la sua stessa sopravvivenza, perché non ha più altro per chiedere di essere ascoltato.

Uno che non è nessuno, quindi, e che è stato persino un tossicodipendente. Figurarsi. Uno il cui diritto non può valere sulle uniformi che lo Stato stipendia con i nostri soldi per assicurare alla giustizia i colpevoli. E cosi, nella confusione tra poliziotti e medici, tra cadute accidentali alla stazione dei carabinieri e lividi in faccia la mattina dell’udienza, tutti si salvano tranne lui.

Una giustizia che riconosce il misfatto ma non sa trovarne i responsabili è quasi una barzelletta. Soprattutto quando tutto questo avviene tra un tribunale e un ospedale, nelle mani dello Stato. Nel sogno di un paese normale chi commette un abuso nel nome dello Stato dovrebbe pagare doppiamente, ma così mai è stato.

Nel sogno di un paese normale non avremmo dovuto vedere i poster dell’orrore di un cadavere che sembra tornato da Auschwitz e che invece moriva cosi nella Capitale e in mano al braccio della giustizia. Una pena di morte studiata a tavolino. Questo è stato Stefano Cucchi. Chissà se su di lui avremo una parola dell’ultimo leader coraggioso rimasto, che si chiama Papa Francesco.

Non sapremo come andrà a finire la storia di Stefano. Ma sappiamo che l’ipoteca altissima che mette sull’irreprensibilità delle nostre forze dell’ordine e dell’amministrazione della giustizia è un prezzo che pagheremo tutti in termini di paura e di scoramento. E molti altri, dopo di lui, con la vita.


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