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di Tania Careddu
Nessuna equità, nei servizi sanitari, tra israeliani e palestinesi, manovrati come sono da meccanismi che impediscono al sistema sanitario palestinese di fornirli completi per i residenti dei Territori occupati. La debolezza dell’Autorità palestinese, stando a quanto si legge nel dossier redatto da Medici per i Diritti Umani (MEDU), Inequality in Health, nel gestirli e garantirli adeguati è vincolata dalle condizioni poste da Israele.
A partire dal controllo sul bilancio sanitario: l’incapacità di prevedere se e quando i fondi arriveranno rende ostico, per il ministro della Salute palestinese, pianificare il proprio budget annuale in merito. Per non parlare delle limitazioni alla libertà di circolazione di pazienti, medici, mezzi di soccorso, farmaci tra la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.
In cui, perché il personale medico possa accedere (quando non venga disconosciuta la laurea) ai sei principali ospedali palestinesi, è necessario un permesso. Che ha, oltretutto, un limite temporale - di solito da tre a sei mesi - generando così un impatto negativo sull’organizzazione e sulla stabilità del sistema sanitario palestinese.
Limitazioni sul genere anche per i medici in formazione: il 10 per cento di questi si vede negare il permesso dall’amministrazione civile israeliana, impedendo al sistema sanitario palestinese di svilupparsi come unico erogatore di servizi sanitari. Stesso trattamento per i pazienti che necessitano di trasferimento per cure mediche: è indispensabile richiedere il permesso previa compilazione di un modulo di autorizzazione al transito, procedura amministrativa non sempre trasparente e comprensibile.
E quando si esce dalla Striscia di Gaza, non tutto è risolto: numerosi pazienti palestinesi vengono sottoposti ad interrogazioni da parte dei servizi segreti israeliani per poter ottenere il nulla osta. Pure i farmaci sono soggetti a restringimenti: gli esportatori palestinesi non possono far uscire medicinali in grandi lotti ma solo in scatole di piccole dimensioni, modalità che accresce il prezzo del processo di esportazione. Le scatole vengono sottoposte a controlli, aprendone gli imballaggi e alterandone così l’integrità (soprattutto quando i farmaci devono essere refrigerati).Per tutte queste condizioni, la mortalità infantile è pari a 18,8 per mille nei nati nei Territori occupati in confronto al 3,7 per cento in Israele; il tasso di mortalità materna nei Territori è di ventotto per centomila nascite mentre in Israele è di sette; l’aspettativa media di vita dei palestinesi risiedenti nei Territori è di circa dieci anni inferiore rispetto a quella degli israeliani e, negli ultimi anni, il divario è andato aumentando. Anche l’incidenza di malattie infettive è più alta nei Territori occupati; molti vaccini sono disponibili per i cittadini israeliani ma non per quelli palestinesi.
Ovviamente il numero degli operatori sanitari disponibili per la popolazione palestinese dei Territori è nettamente più basso rispetto a quello che interviene sulla popolazione israeliana (si stima che il numero di medici per gli israeliani è di una volta e mezza più alto di quello per i palestinesi e che la distribuzione degli specialisti è notevolmente sbilanciata: 0,22 ogni mille residenti nei Territori contro 1,76 in Israele e 1,9 infermieri ogni mille residenti per i primi versus 4,8 per i secondi); la spesa sanitaria pro capite nei Territori è di circa un ottavo delle spese sostenute dagli israeliani.
Disuguaglianze che nemmeno gli accordi di Oslo sono riusciti a sanare e che certo non verranno sanate dal nuovo governo razzista di Bibi Netanyahu.
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di Tania Careddu
Nessuna misura politica nazionale per contrastarla. E poca roba nell’agenda del Governo italiano. Degli oltre trecentomila atti presentati nel corso della XVII legislatura, quelli relativi all’inclusione sociale e alla povertà sono duecentottantasei, cioè lo 0,8 per cento; fra i disegni di legge sono presenti nel 6 per cento dei casi, ossia duecentoquarantuno su circa quattromilaseicento, e su quei duecentoquarantuno solo quattro sono diventati leggi
Fra i disegni di legge approvati la percentuale scende al 2,8 per cento, cioè dieci su trecentocinquantuno; una mozione su tre è stata accolta, undici degli ordini del giorno presentati sono stati presi in considerazione e delle ventotto interrogazioni parlamentari sul tema solo la metà ha ricevuto risposta.
Quindi, su duecentottantasei atti parlamentari presentati solo il 10,5 per cento ha avuto successo. E i parlamentari “solidali”? Senza fare nomi e cognomi, benché meritevoli, quattro appartengono al Partito Democratico, due a Sinistra, Ecologia e Libertà, due alla Lega Nord, uno ad Area Popolare e uno al Movimento 5 Stelle. Fra i senatori, due sono di Sinistra, Ecologia e Libertà, due di Area Popolare, uno del Partito Democratico, uno di Scelta Civica, uno del Gruppo per le Autonomie, uno del Movimento 5 Stelle, uno di Forza Italia e uno del Gruppo Grandi Autonomie e Libertà. Tredici uomini e sette donne.
In base a quanto emerge da ’”Indice di rilevanza degli argomenti parlamentari”, realizzato da Openpolis e riportato dal dossier elaborato da Actionaid “Lotta alla povertà. Cosa ha fatto la politica italiana?”, l’inclusione sociale occupa il trentunesimo posto – primi in classifica Stato, Economia e Lavoro. Scende al quarantaquattresimo, con un valore di sei volte inferiore all’argomento più trattato, se l’analisi si concentra solo sull’attività del Parlamento a partire dall’era Renzi, iniziata a febbraio 2014.
E’ infatti nella Legge di Stabilità, definitivamente approvata a dicembre dello stesso anno, che ci si può fare un’idea delle scelte di orientamento governativo in relazione alla definizione e promozione delle misure per il contrasto alla povertà e verso l’inclusione sociale. Sono sei: stabilizzazione del Fondo 80 euro, Fondo famiglia 2015, Bonus bebè (che non può considerarsi una vera e propria misura contro la povertà infantile, date le basse soglie di accesso), Fondo servizi per la prima infanzia, Fondo social card, (sebbene sia aumentato, il finanziamento resta una misura provvisoria) e Fondo politiche sociali.Quest’ultimo presenta un’evoluzione storica: a fronte di un aumento del circa il doppio delle persone in condizioni di indigenza, dal 2008 al 2015, le risorse stanziate per questo fondo hanno subito una variazione percentuale di meno 80 per cento. Tutti molto dibattuti e modificati, anche solo nel posizionamento, ma sempre troppo pochi.
Conclusione: l’inclusione sociale e la lotta contro la povertà non sembrano essere una priorità per il Governo italiano e, a parte casi sporadici, i membri delle Camere non sembrerebbero tempestivi nell’assumere misure incisive per far fronte al disagio sociale degli abitanti del Belpaese.
Tanto che, anche nel confronto con i Paesi europei, fra i ventotto membri dell’Unione, l’Italia è l’unica, insieme alla Grecia, a non avere uno straccio di forma di reddito minimo garantito, da anni una delle proposte più discusse in Parlamento. Parole, parole, parole.
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di Tania Careddu
Oltre il 15 per cento di tutte le donne infortunate sul lavoro opera nella sanità. Che è uno dei pochissimi settori in cui l’incidenza degli incidenti femminili è superiore a quella maschile. Sebbene il fenomeno infortunistico abbia segnato una costante tendenza alla diminuzione, il calo nelle professioni sanitarie risulta più contenuto rispetto agli altri ambiti e per la componente femminile, nel periodo che va dal 2009 al 2013, gli infortuni sono scesi del 13,7 per cento.
Al pari degli infortuni, anche le malattie professionali colpiscono, nell’80 per cento dei casi, le donne, secondo quanto si legge nel dossier "Prendersi cura di chi ci cura", a cura dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi sul Lavoro (ANMIL).
Patologie dell’apparato muscolo-scheletrico, vedi tendiniti, affezioni dei dischi intervertebrali, sindrome del tunnel carpale: tutte causate, per lo più, da sovraccarico bio-meccanico, posture incongrue, movimenti ripetuti o scoordinati. I rischi degli infortuni sono legati all’utilizzo di agenti fisici, chimici e biologici, da fattori psicosociali, tipo lo stress lavoro-correlato e il burn out - forma di malessere di natura psicofisica tipica delle cosiddette helping professions - tra cui rientrano, appunto, le attività di medici, infermieri e operatori sanitari.
Infatti, la maggior parte degli infortuni nel lavoro sanitario si verifica nelle strutture ospedaliere e nelle case di cura, dove gli ambienti di lavoro, le mansioni e le competenze presentano un’ampia e potenziale varietà di rischi sul piano infortunistico. Le cause: cadute dovute a scivolamento, inciampamenti, urti, perdita d’equilibrio connesse, anche, alle numerose barriere architettoniche; perdita di controllo delle attrezzature o dei macchinari; movimenti scoordinati, rottura di macchinari e aggressioni o violenze da parte di pazienti psicolabili o da parenti dei pazienti. Ma, soprattutto, il “carico di lavoro che porta a stanchezza e inevitabile calo dell’attenzione”: turni di dodici ore e che si accavallano fra mattina e notte nell’arco delle stesse ventiquattro ore.
Gli altri si riscontrano tra le attività di assistenza sociale, fra coloro che si prendono cura di anziani e disabili. E, però, anche qui, come in molti altri settori lavorativi, gli incidenti si verificano ‘in itinere’, cioè nel percorso per raggiungere il luogo di lavoro o la propria abitazione e per la donna sono nettamente prevalenti che per gli uomini, la probabilità è superiore del 50 per cento.
Quasi la metà delle donne infortunate in sanità è di età media, tra i trentacinque e i quarantanove anni, e, a seguire, la fascia più anziana, dai cinquanta ai sessantaquattro anni. Su tre operatrici sanitarie infortunate una è infermiera (nel 2013 hanno subito diecimila incidenti): sforzi da sollevamento e spostamento di pazienti, esposizione a radiazioni, ad agenti biologici, a rifiuti speciali e a chemioterapici, utilizzo di apparecchiature elettromedicali.
Più frequenti nelle regioni settentrionali, precisamente in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Piemonte, seguite da Toscana e Lazio, fortunatamente, gli incidenti in sanità sono ad “alta frequenza” ma a “bassa gravità”. Per cui le conseguenze sono soprattutto di indennità per inabilità temporanea: lussazioni, distorsioni o distrazioni, contusioni, fratture, ferite, lesioni da sforzo e lesioni da agenti infettivi. Per questo, si fa a meno del loro prezioso lavoro per seicentomila giorni all’anno.
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di Tania Careddu
Che in Italia si nasca in relativa sicurezza, in termini di salute materna e infantile, è un dato di fatto. Ma che, nel percorso nascita, ci siano degli aspetti sociali in ombra, è più oscuro. A partire dall’accoglienza di una maternità nei contesti lavorativi, all’integrazione dei servizi di cura, dalle dilatazioni sociali della depressione puerperale fino al contradditorio rapporto tra una cultura sociale che esalta il valore della maternità e un’organizzazione del lavoro e dei servizi che ne carica la gestione quasi esclusivamente sulla coppia (o sul singolo genitore).
Da questo punto di vista, secondo quanto riporta il dossier redatto da Save the children, Mamme in arrivo, il Belpaese presenta delle criticità (tipicamente italiane): una grande frammentazione della rete dei punti nascita, spesso a danno della qualità dell’assistenza; un eccesso di ricorso al parto chirurgico; una preoccupazione spiccata delle donne italiane nei confronti della maternità; un’inadeguata preparazione a fronteggiare l’aumento di donne straniere, spesso incapaci di capire la lingua italiana.
Buona parte di queste problematiche, dagli anni settanta in poi, sono state affrontate dai consultori che, oggi però, si sono indeboliti: pochi, con pochi fondi, con una scarsità di servizi e con poco personale. Tanto quanto sono le ostetriche, eppure indispensabili per la qualificazione e l’umanizzazione del percorso nascita. Disturbato anche dalla contorta distribuzione sul territorio della rete di cura. Ossia, la trama dei luoghi dove si partorisce appare disomogenea e frammentata, con una forte dispersione di piccoli punti nascita, destinati alla chiusura perché non dotati dei necessari requisiti ma, talvolta, necessari perché unici punti di riferimento in aree isolate, e con un terzo dei punti nascita fragili in termini di sicurezza assistenziale.
Essendo alla mercé delle singole amministrazioni, anche le pratiche utilizzate variano da regione a regione. Quella dell’analgesia durante il travaglio e il parto, per esempio, risulta assai poco diffusa: al cento per cento in Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia e, con percentuali di poco inferiori, in Trentino e in Toscana, per niente applicata in Molise e ai minimi storici in Sicilia, Basilicata e Abruzzo.
Di contro, per ovviare al dolore, aumentano i tagli cesarei. La cui applicazione, in Italia, raggiunge percentuali molto elevate rispetto al resto d’Europa e con valori più che doppi rispetto a quanto continuamente raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Campania, Molise, Sicilia e Puglia, le regione più interessate, le strutture con meno di cinquecento parti l’anno e quelle private, con la quasi certezza che la scelta del parto cesareo è dettata sempre più da elementi di carattere organizzativo e sempre meno da considerazione di natura medica.Carenti anche la continuità e la qualità delle prestazioni assistenziali nei primi mesi di vita del neonato. Assente un protocollo consolidato di azioni integrate e di comunicazione tra ospedale e territorio.
Più frequente tra i piccoli punti nascita: sebbene dal punto di vista della sicurezza appaiano più critici, prestano una maggiore cura alla continuità assistenziale, grazie al radicamento nel territorio, appunto, con particolare riguardo all’allattamento e all’insorgere di forme depressive nelle mamme.
Deficitario il sostegno alla coppia nella genitorialità sia in relazione all’apprendimento di competenze legate alla cura del bambino sia rispetto alla corretta informazione degli interessati sulle opportunità di organizzazione della vita che le normative vigenti mettono a disposizione: dai congedi parentali ai servizi di supporto alla cura fino ai bonus economici per l’integrazione del debito delle famiglie più vulnerabili. Come dire chi fa da sé fa per tre.
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di Tania Careddu
Non sono un peso passivo di cui farsi carico ma soggetti protagonisti. Non sono recettori inattivi di risorse e servizi di welfare. Sono anzi portatori di un contributo concreto e sostanziale alla vita delle famiglie. I longevi sono tra i grandi protagonisti del sistema di cura: quattro milioni e mezzo circa si prendono cura di persone non autosufficienti, oltre sette milioni contribuiscono con i propri soldi all’economia domestica di figli e nipoti, quasi nove milioni si occupano dei piccoli.
Lo fanno abbinando il dovere al buon vivere: poco meno di quattro milioni svolgono attività di volontariato, tre milioni e mezzo circa fanno regolarmente attività fisica, quasi sei milioni frequentano spazi culturali, sei milioni e mezzo sono clienti di ristoranti, circa tre milioni vanno nelle scuole da ballo e nelle balere, più o meno tre milioni viaggiano verso l’estero, sette milioni guidano la macchina, due milioni e settecento mila svolgono un’attività lavorativa in nero, oltre quattrocentosettemila pensano, nel prossimo futuro, di avviare un’attività lavorativa autonoma, e duecentoventicinquemila si preparano, nell’anno che verrà, a cercare lavoro.
Anche in rete: sul portale Kijiji, nel 2013, sono aumentate del 21 per cento, rispetto all'anno precedente, le inserzioni di over sessantacinque in cerca di impiego, anche a tempo parziale. Tanto di cappello. Ma, spesso, fragilità e non autosufficienza hanno una relazione diretta con il tempo che passa. Ancora, le generazioni attuali dei dodici milioni di longevi beneficiano di percorsi previdenziali forti e patrimoni mediamente solidi, fatti di proprietà della prima casa, presidi economici che hanno consentito di affrontare le emergenze assistenziali ad alto costo legate alla non autosufficienza, appunto.
Tra gli ottantenni, però, sta crescendo in modo esponenziale la quota di persone che ha bisogno di supporto. Una situazione davanti alla quale il nostro sistema di stato sociale mostra tutte le sue lacune. Cosicché, oggi, a occuparsi dei longevi non autosufficienti sono le famiglie, attraverso l’assistenza domiciliare privata, magari con il ricorso a una badante. Un modello, questo, certamente funzionale ma che si va incrinando per le difficoltà che stanno coinvolgendo sempre più i budget familiari, tanto che cinquecentosessantuno famiglie, per pagare l’assistenza, hanno dovuto dare fondo a tutti i loro risparmi e, a volte, persino a vendere la propria casa.Si stima, secondo quanto si legge nel Rapporto "L'eccellenza sostenibile del nuovo welfare", elaborato dal Censis, che le risorse private mobilitate siano ingenti: oltre nove miliardi di euro destinati alle badanti, quasi cinque per il pagamento delle rette per gli oltre duecentocinquantanove mila longevi ospiti delle residenze.
Poi, le risorse pubbliche: sono pari all’1,28 per cento del PIL, circa venti milioni di euro, aumentato di più 0,21 per cento in sei anni. A volte, vivono in case non ottimali per la non autosufficienza. Cioè: due milioni e mezzo vivono in abitazioni non adeguate alle loro condizioni di ridotta mobilità, più di un milione in case addirittura inadeguabili.
E le residenze? Parcheggi per vecchi, per ben duecentomila anziani non autosufficienti. E se vecchio e non autosufficiente, invece, fosse il modello di stato sociale italiano?