di Tania Careddu

Che in Italia si nasca in relativa sicurezza, in termini di salute materna e infantile, è un dato di fatto. Ma che, nel percorso nascita, ci siano degli aspetti sociali in ombra, è più oscuro. A partire dall’accoglienza di una maternità nei contesti lavorativi, all’integrazione dei servizi di cura, dalle dilatazioni sociali della depressione puerperale fino al contradditorio rapporto tra una cultura sociale che esalta il valore della maternità e un’organizzazione del lavoro e dei servizi che ne carica la gestione quasi esclusivamente sulla coppia (o sul singolo genitore).

Da questo punto di vista, secondo quanto riporta il dossier redatto da Save the children, Mamme in arrivo, il Belpaese presenta delle criticità (tipicamente italiane): una grande frammentazione della rete dei punti nascita, spesso a danno della qualità dell’assistenza; un eccesso di ricorso al parto chirurgico; una preoccupazione spiccata delle donne italiane nei confronti della maternità; un’inadeguata preparazione a fronteggiare l’aumento di donne straniere, spesso incapaci di capire la lingua italiana.

Buona parte di queste problematiche, dagli anni settanta in poi, sono state affrontate dai consultori che, oggi però, si sono indeboliti: pochi, con pochi fondi, con una scarsità di servizi e con poco personale. Tanto quanto sono le ostetriche, eppure indispensabili per la qualificazione e l’umanizzazione del percorso nascita. Disturbato anche dalla contorta distribuzione sul territorio della rete di cura. Ossia, la trama dei luoghi dove si partorisce appare disomogenea e frammentata, con una forte dispersione di piccoli punti nascita, destinati alla chiusura perché non dotati dei necessari requisiti ma, talvolta, necessari perché unici punti di riferimento in aree isolate, e con un terzo dei punti nascita fragili in termini di sicurezza assistenziale.

Essendo alla mercé delle singole amministrazioni, anche le pratiche utilizzate variano da regione a regione. Quella dell’analgesia durante il travaglio e il parto, per esempio, risulta assai poco diffusa: al cento per cento in Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia e, con percentuali di poco inferiori, in Trentino e in Toscana, per niente applicata in Molise e ai minimi storici in Sicilia, Basilicata e Abruzzo.

Di contro, per ovviare al dolore, aumentano i tagli cesarei. La cui applicazione, in Italia, raggiunge percentuali molto elevate rispetto al resto d’Europa e con valori più che doppi rispetto a quanto continuamente raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Campania, Molise, Sicilia e Puglia, le regione più interessate, le strutture con meno di cinquecento parti l’anno e quelle private, con la quasi certezza che la scelta del parto cesareo è dettata sempre più da elementi di carattere organizzativo e sempre meno da considerazione di natura medica.

Carenti anche la continuità e la qualità delle prestazioni assistenziali nei primi mesi di vita del neonato. Assente un protocollo consolidato di azioni integrate e di comunicazione tra ospedale e territorio.

Più frequente tra i piccoli punti nascita: sebbene dal punto di vista della sicurezza appaiano più critici, prestano una maggiore cura alla continuità assistenziale, grazie al radicamento nel territorio, appunto, con particolare riguardo all’allattamento e all’insorgere di forme depressive nelle mamme.

Deficitario il sostegno alla coppia nella genitorialità sia in relazione all’apprendimento di competenze legate alla cura del bambino sia rispetto alla corretta informazione degli interessati sulle opportunità di organizzazione della vita che le normative vigenti mettono a disposizione: dai congedi parentali ai servizi di supporto alla cura fino ai bonus economici per l’integrazione del debito delle famiglie più vulnerabili. Come dire chi fa da sé fa per tre.

 

di Tania Careddu

Non sono un peso passivo di cui farsi carico ma soggetti protagonisti. Non sono recettori inattivi di risorse e servizi di welfare. Sono anzi portatori di un contributo concreto e sostanziale alla vita delle famiglie. I longevi sono tra i grandi protagonisti del sistema di cura: quattro milioni e mezzo circa si prendono cura di persone non autosufficienti, oltre sette milioni contribuiscono con i propri soldi all’economia domestica di figli e nipoti, quasi nove milioni si occupano dei piccoli.

Lo fanno abbinando il dovere al buon vivere: poco meno di quattro milioni svolgono attività di volontariato, tre milioni e mezzo circa fanno regolarmente attività fisica, quasi sei milioni frequentano spazi culturali, sei milioni e mezzo sono clienti di ristoranti, circa tre milioni vanno nelle scuole da ballo e nelle balere, più o meno tre milioni viaggiano verso l’estero, sette milioni guidano la macchina, due milioni e settecento mila svolgono un’attività lavorativa in nero, oltre quattrocentosettemila pensano, nel prossimo futuro, di avviare un’attività lavorativa autonoma, e duecentoventicinquemila si preparano, nell’anno che verrà, a cercare lavoro.

Anche in rete: sul portale Kijiji, nel 2013, sono aumentate del 21 per cento, rispetto all'anno precedente, le inserzioni di over sessantacinque in cerca di impiego, anche a tempo parziale. Tanto di cappello. Ma, spesso, fragilità e non autosufficienza hanno una relazione diretta con il tempo che passa. Ancora, le generazioni attuali dei dodici milioni di longevi beneficiano di percorsi previdenziali forti e patrimoni mediamente solidi, fatti di proprietà della prima casa, presidi economici che hanno consentito di affrontare le emergenze assistenziali ad alto costo legate alla non autosufficienza, appunto.

Tra gli ottantenni, però, sta crescendo in modo esponenziale la quota di persone che ha bisogno di supporto. Una situazione davanti alla quale il nostro sistema di stato sociale mostra tutte le sue lacune. Cosicché, oggi, a occuparsi dei longevi non autosufficienti sono le famiglie, attraverso l’assistenza domiciliare privata, magari con il ricorso a una badante. Un modello, questo, certamente funzionale ma che si va incrinando per le difficoltà che stanno coinvolgendo sempre più i budget familiari, tanto che cinquecentosessantuno famiglie, per pagare l’assistenza, hanno dovuto dare fondo a tutti i loro risparmi e, a volte, persino a vendere la propria casa.

Si stima, secondo quanto si legge nel Rapporto "L'eccellenza sostenibile del nuovo welfare", elaborato dal Censis, che le risorse private mobilitate siano ingenti: oltre nove miliardi di euro destinati alle badanti, quasi cinque per il pagamento delle rette per gli oltre duecentocinquantanove mila longevi ospiti delle residenze.

Poi, le risorse pubbliche: sono pari all’1,28 per cento del PIL, circa venti milioni di euro, aumentato di più 0,21 per cento in sei anni. A volte, vivono in case non ottimali per la non autosufficienza. Cioè: due milioni e mezzo vivono in abitazioni non adeguate alle loro condizioni di ridotta mobilità, più di un milione in case addirittura inadeguabili.

E le residenze? Parcheggi per vecchi, per ben duecentomila anziani non autosufficienti. E se vecchio e non autosufficiente, invece, fosse il modello di stato sociale italiano?

di Tania Careddu

Generano ricchezza e sviluppo. I due milioni e quattrocentomila lavoratori stranieri producono centoventitre miliardi di euro, rappresentando l’8,8 per cento della ricchezza complessiva prodotta in Italia. Che ne dicano i nostri connazionali, sostenuti dalla stampa ma smentiti dal dossier "Il valore dell’immigrazione", elaborato dalla Fondazione Leone Moressa, non è vero che gli immigrati non contribuiscano al sistema previdenziale italiano e rubino i lavori agli abitanti dello Stivale.

E non è nemmeno giusto quanto gli rimproverano, cioè l’uscita dei loro capitali dalla Penisola; la popolazione straniera produce, indubbiamente, meno reddito e ha quindi meno risorse da poter investire in strumenti finanziari (che risultano, spesso, inappropriati alle loro esigenze).

E’ vero che ogni contribuente immigrato ha percepito poco meno di tredicimila euro all’anno, quasi settemila e cinquecento euro in meno di un contribuente italiano, ma bisogna rintracciare la causa prima di cadere nei soliti pregiudizi: i diversi percorsi lavorativi e i differenti profili professionali tra italiani e immigrati. Sintomo della forte sperequazione esistente all’interno della società italiana, è anche indizio dei limiti e delle distorsioni del modello di integrazione degli immigrati.

E, nonostante fra il 2008 e il 2012 il numero dei contribuenti stranieri sia aumentato dell’1,9 per cento, con un incremento dei redditi dichiarati pari a quattro miliardi abbondanti di euro, la crisi colpisce anche loro. Di più: accentuandosi ulteriormente le disuguaglianze esistenti, rallentano significativamente i processi di inclusione economica e di mobilità sociale degli immigrati. Cosicché il potere d’acquisto reale in loro possesso è diminuito per un importo pari a settecentoquarantacinque euro, con un aggravio di quasi settecento euro nel confronto con gli italiani. E però loro reagiscono senza colpo ferire: l’imprenditoria straniera, infatti, rappresenta l’8,2 per cento del totale delle imprese in Italia.

Nel complesso, sebbene siano messe a dura prova da un basso potenziale di crescita a causa del settore in cui sono inserite, le imprese straniere producono il 6,1 per cento del totale del valore aggiunto prodotto dalle aziende nel Belpaese, per un importo pari a più di ottantacinque milioni di euro. Più di trentaquattro sono prodotti dalle imprese del settore dei servizi, quasi diciassette dalle attività commerciali e sedici da quelle del settore manifatturiero. Pazienza se vengono loro mosse delle critiche per l’uscita di denaro dalle casse nostrane; sta di fatto che, nel 2013, le rimesse che sono riusciti a inviare al Paese d’origine sono state pari a cinque miliardi e mezzo di euro.

E chi lo dice che rubano il lavoro? Sebbene a lavorare siano oltre due milioni, l’occupazione straniera si concentra in pochi settori e professioni scarsamente qualificati che raramente gli italiani prendono in considerazione. Che non occupino le stesse posizioni, lo si riscontra anche negli stipendi: gli immigrati dovrebbero lavorare ottanta giorni in più per averli uguali. Elementi, tutti sommati, che li portano a una situazione di maggiore precarietà rispetto a quella dei colleghi italiani.

Una discriminazione che conduce, inevitabilmente, all’immobilità sociale. Con ripercussioni probabili sulle nuove generazioni. E nonostante ciò, il valore economico da loro apportato è evidente anche in barba a quanti (tanti, troppi) pensano che l’immigrazione sia solo un costo. Ammesso che elaborare una stima puntuale del rapporto costi benefici della presenza della popolazione straniera risulti alquanto ostico, si può certamente affermare, per alcune caratteristiche della struttura della spesa pubblica italiana, che l’incidenza delle uscite a favore degli immigrati sia assai modesta.

Semplicisticamente, tenuto conto che la spesa pubblica italiana più alta è quella destinata alle pensioni, che è in linea con gli altri Paesi europei per la sanità ed è inferiore per l’istruzione, si può dedurre che sia principalmente orientata verso la popolazione anziana. E considerando che l’età media degli stranieri è, di sicuro, più bassa di quella degli italiani, va da se che gli stranieri usufruiscono proprio poco dei “nostri” soldi. Insomma, la spesa pubblica complessivamente rivolta agli stranieri può essere calcolata in dodici miliardi e mezzo di euro, l’1,57 per cento della spesa pubblica nazionale. E in milioni di pregiudizi.

di Tania Careddu

Ha un peso sociale ed economico. Ed è negli ambiti urbani che assume una connotazione preoccupante, intersecandosi con le problematiche relative all’allentamento dei vincoli di comunità e dei rapporti umani - ancora diffusi e rilevanti nei centri più piccoli - e alla difficile integrazione dei ragazzi stranieri, più numerosi, appunto, nelle grandi città. La dispersione scolastica si attesterebbe al 17 per cento (dati Eurostat) con un trend decisamente positivo di miglioramento - sei punti percentuali di riduzione nell’arco di dieci anni - che lascerebbe ben sperare per il raggiungimento dell’obiettivo italiano, stabilito dal Governo nel 2011, del 16 per cento (sebbene l’obiettivo europeo 2020 si attesterebbe intorno al 10 per cento).

Un buon traguardo se si considera che l’Italia è fanalino di coda fra i Paesi europei. Riguarda principalmente la componente maschile della popolazione studentesca, avendo quella femminile già raggiunto, da cinque anni, l’obiettivo suddetto, quella del Mezzogiorno con punte del 25,8 per cento in Sardegna, del 25 per cento in Sicilia e del 21,8 per cento in Campania. Nel contesto italiano, l’abbandono degli studi, visibile soprattutto fra il primo e il secondo anno della scuola superiore, è tipicamente preceduto da una bocciatura o da un trasferimento ad altra scuola. Il 23,8 per cento della popolazione di studenti nella fascia d’età fra i diciotto e i venti anni non raggiunge un titolo di scuola media secondaria.

Insomma, oggi quasi un terzo degli studenti ha abbandonato gli studi tout court oppure è inserito in percorsi che non permettono l’accesso all’istruzione terziaria (in soldoni, l’università). Ma quanto ci costa? Oltre che sullo sprecato investimento nel capitale umano, la perdita associata all’abbandono scolastico è l’effetto non sul reddito temporaneo ma su quello permanente, ossia su quello mediamente fruibile nel corso della vita; il divario del capitale umano tra uno che non ha conseguito un titolo di istruzione secondaria e uno che l’ha raggiunta si calcola in centosettantaquattromila euro: otttomila e settecento euro all’anno.

L’azzeramento dell’abbandono potrebbe avere un impatto sul PIL con una forbice che va da un minimo dell’1,4 per cento a un massimo del 6,8 per cento. Cause: multidimensionalità delle motivazioni che possono spaziare da disturbi specifici dell’apprendimento e da difficoltà dei minori diversamente abili agli effetti dell’ambiente socioeconomico di provenienza fino alle problematiche di ordine relazionale.

Chi abbandona la scuola lo fa per il cumularsi di una serie di disagi e incapacità, situazioni che difficilmente rendono un individuo altrettanto produttivo quanto colui in grado di continuare il percorso scolastico.

Spesso, i giovani che lasciano la scuola risiedono in contesti sviliti, imprigionati in microcosmi, dove la violenza, l’illegalità, l’individualismo sfrenato sono gli unici elementi a loro familiari. Crescono nell’abbrutimento e nel grigiore di edifici popolari, abbandonati a sé stessi. Spazi costruiti guardando al risparmio economico che a necessità di pensare luoghi capaci di tenere viva una solidarietà (naturalmente) collettiva.

Periferie illuminate solo dall’ombra dei televisori che rimandano a una realtà patinata e distante, contenitori senza contenuto. Privati della possibilità di confrontarsi e meravigliarsi davanti a un’immagine evocativa di emozioni. Chi non si forma non avrà strumenti per interpretare la realtà, per scegliere con maggiore consapevolezza, per apportare un contributo umano nel vivere sociale. Una bellezza che è, e dovrebbe essere, altro.

di Rosa Ana De Santis

Il caso viene dal S. Orsola Malpighi ed è un’ennesima picconata per quella legge 40 che, di fatto, non esiste più. Una coppia si era rivolta al centro di fecondazione assistita 19 anni fa. L’impianto non era andato a buon fine e gli embrioni sovrannumerari - 8 - erano stati crioconservati. Siamo nel 1996, prima della legge 40, che tra i suoi tanti precetti avrà quello di vietare la crioconservazione a meno che la donna, per ragioni di salute, non possa procedere a nuovi tentativi di impianto.

Nel 2011 il marito della donna muore e viene respinta dalla direzione dell’ospedale la richiesta di procedere con l’impianto, dal momento che sempre secondo la legge 40 i due genitori devono essere entrambi in vita.

Parte il ricorso del legale Boris Vitiello e la donna la spunta, anche perché avendo ormai 50 anni non può attendere il normale iter giudiziario per ragioni biologiche e sarebbe oltraggioso privarla per i tempi del tribunale di questo diritto, dal momento che gli embrioni in questione non sono stati mai abbandonati.

Disappunto di molti per degli embrioni che sostanzialmente saranno impiantati dopo il decesso del padre biologico eppure questa vicenda, resa surreale più dai dogmi della legge 40 che dalle intenzioni dei due genitori, suona come un vero e proprio inno alla vita. Due genitori che fanno di tutto per avere figli, che non abbandonano gli embrioni dopo gli insuccessi, che non ritentano a causa della malattia dell’uomo. Una progettualità di famiglia che non passa nemmeno con la scomparsa del marito e che dopo 4 anni trova finalmente la sua possibilità legale di essere concretizzata.

Lo stupore da titolo da giornale nasce soprattutto dal post mortem dell‘uomo. Eppure, se invece di embrioni in freezer avessimo avuto un embrione giù in utero materno e un padre morto all’improvviso durante la gestazione, nessuno avrebbe avuto moniti e preoccupazioni sul tema; anzi, tutti avrebbero lodato la scelta di far venire alla luce un figlio in una situazione tanto tragica.

Un po’ come quelle donne che hanno rifiutato terapie per non danneggiare il feto. Se alla regia c’è la natura e non la ragione degli uomini e delle donne tutto sembra essere intrinsecamente giusto e accettabile. Questo il sostrato italiano sulla materia bioetica.

Bisognerebbe decidere una volta e per tutte se il plauso vada alle scelte e alle intenzioni delle persone oppure all’accidentalità del caso che, a dirla tutta, poco ha a che vedere con la moralità ma piuttosto con la natura. Il coraggio come il valore, come le scelte e le intenzioni sono elementi della morale e non fatti di natura.

Doppiamente quindi andrebbe apprezzata la volontà di due genitori che non si sono mai dimenticati dei propri embrioni, che hanno scelto la vita e la progettualità di una famiglia nonostante gli impedimenti di natura e di una donna che, pur rimasta senza il proprio marito, non viene meno al patto di amore e alla scelta della genitorialità che li aveva  portati venti anni fa a rivolgersi alla scienza.

Se poi qualcuno volesse ammantare e nobilitare il pregiudizio contro la scienza parlando di quanto la condizione di orfani sia certamente invalidante e dolorosa per i figli, basterebbe provare a capire che differenza ci sarebbe tra questi figli e tanti altri orfani che hanno perso i genitori, anche prima di venire al mondo. Forse, per molti di questi,  solo quella di esser stati meno desiderati e meno attesi del figlio che, ci auguriamo, nascerà da questa donna e dal suo coraggio. 


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