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di Tania Careddu
Treni veloci e puntuali, nuovi e puliti: è l’alta velocità, bellezza. Immagine efficace dell’idea di modernità, quella della TAV, con uno standard di servizio di livello europeo, per niente corrispondente, invece, a quella del trasporto ferroviario regionale e delle città, dove si concentrano oltre i due terzi della domanda di mobilità. Profondamente cambiata, in seguito alla crisi economica e, in generale negli ultimi decenni, con spostamenti medi di circa venticinque o trenta chilometri, è maggiore dove è più alta la densità abitativa.
Cioè in meno del 9 per cento del territorio italiano dove vivono venticinque milioni di persone. Che si spostano quotidianamente per motivi di lavoro e di studio. In dieci anni, il dato è lievitato di circa due milioni.
Aumentati anche i tempi di percorrenza, oltre i quarantacinque minuti, e i chilometri complessivi di tutti gli spostamenti effettuati dai residenti in un giorno medio feriale: dai trenta chilometri giornalieri del 2000 ai trentacinque del 2013. Nelle città metropolitane, in un giorno medio feriale, sei spostamenti su dieci si compiono con il mezzo privato.
Risultato: il numero e la densità di automobili in circolazione è tale da avere pochi paragoni al mondo. Tanto per citarne una: Roma, con seicentosettanta macchine ogni mille abitanti, mostra valori tre volte superiori a quelli di Londra. In questi anni di recessione economica, pare sia aumentata la volontà di abbandonare l’auto a favore del trasporto pubblico. A oggi, solo due milioni e settecentosessantotto mila, sebbene si registri un aumento pari al 13,3 per cento nel giro di otto anni, sono i passeggeri del servizio ferroviario regionale e suburbano. Ma, giornalmente, decisamente superiore a quello delle linee ad alta velocità.
Numeri importanti anche relativamente ai passeggeri annui che si contano nelle città, sia nelle linee metropolitane sia in quelle di tram e autobus; i viaggi complessivi sono pari a ottocentocinquantaquattro milioni; la lunghezza delle linee metropolitane è pari a circa duecentoventisette chilometri mentre quella dei tram (linea ferroviaria suburbana) è pari a seicentotrentasette chilometri e mezzo; e sono nove le città dotate di almeno una linea tramviaria.
E poi c’è la lentezza, con una media di poco più di trentatre chilometri orari. E la vetustà: comprensibilmente più giovani i vagoni delle linee metropolitane, più vecchi - ma anche per la loro antica storia - quelli dei tram. E che dire dell’età media dei treni in circolazione nella rete regionale? Diciotto anni e mezzo. Con notevoli differenze tra le Regioni italiane.
Che, muovendosi in direzione della sostituzione del materiale rotabile, negli ultimi dieci anni hanno acquistato seicentocinqauntaquattro nuovi treni. Ma il tasso di rimpiazzo è ancora troppo lento, considerato che ha riguardato il 19,8 per cento della flotta totale. Virtuosa, in questo senso, la Lombardia, seguita da Emilia Romagna, Campania, Veneto, Toscana, Piemonte, Lazio.
Solo offrendo un’alternativa competitiva per gli spostamenti rispetto all’automobile, infatti, sarà possibile muovere una quota consistente della domanda di mobilità verso il trasporto pubblico. Che deve essere frequente, comodo, pulito, organizzato secondo criteri di intermodalità, per ridurre i tempi di attesa, e con le fermate in stazioni accessibili.
Per diminuire il traffico, gli incidenti, le emissioni sia di gas serra sia inquinanti. Parola di Legambiente, messa nero su bianco nel Rapporto ‘Nuovi treni per città più vivibili’. Ma, al momento, il treno è quello dei desideri di Adriano Celentano, del 1968: all’incontrario va.
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di Rosa Ana De Santis
Al Family Day di Roma, Kiko Arguello, fondatore del movimento dei neocatecumanali, in una miscellanea poco rigorosa di argomenti contro la teoria gender, ha infilato nell’arringa sulla famiglia tradizionale il dramma del femminicidio, adducendo la vera responsabilità di questa violenza. Che, ricordiamolo, è tutta merito di maschi eterosessuali, ed è diretta verso le donne che lasciano i propri mariti. Per Arguello starebbe in questa scelta di libertà la condanna a morte, giusta no, ma comprensibile si, delle mogli.
La sacralità del matrimonio diventerebbe quindi - nella filosofia di questo vate preconciliare - un principio al di sopra della medesima, che pure i cattolici dovrebbero riconoscere, alla vita dell’individuo, all’esercizio della sua libertà e magari alla sua stessa incolumità, come la cronaca documenta.
Se davvero lasciarsi fosse un’eresia di fede, perché mai sarebbe stato previsto per i cattolici un Tribunale della Sacra Rota che scioglie dal sacramento?
Possiamo dire che da un punto di vista laico e secolare la parola del leader neocatecumenale, oltre che inconciliabile con un codice morale universale di ragione, rappresenta un’istigazione pubblica alla misoginia, alla violenza verbale e fisica tanto più rischiosa in un paese come il nostro che ha visto morire per mano di uomini 179 donne nel 2013, esempio dell’anno nero dei femminicidi, con una pericolosa tendenza all’aumento, inversamente proporzionale agli omicidi, grazie anche a pene detentive del tutto sottostimate.
Impossibile aspettarsi che le donne militanti in quello che è un movimento cattolico integralista possano produrre un documento di protesta, come dovrebbero, per rispetto al loro genere e al loro ruolo di madri prima che di mogli, per i figli che cresceranno. E in che modo viene da chiedersi.
Ci aspetteremmo che il monito arrivasse dal papa, che a differenza di Wojtyla che i movimenti li amava e li ha nutriti, ha mostrato di volere una Chiesa diversa, unita e aperta alle sfide della storia. Un gesuita con la sapienza che serve per impedire che ancora una volta in nome del Vangelo qualcuno predichi discriminazioni e abusi.
Questa volta della più primitiva natura: il maschile sul femminile. Il marito smarrito e ferito nell’orgoglio che uccide perché disperato e solo, perché tradito. Il clichè della peggior specie: il cacciatore e la preda.
Qualcosa di più lontano dal cristianesimo non si era visto. Anche per questo, se i neocatecumenali volessero rimanere cattolici, dovrebbero chiedere scusa. Non tra due secoli e non (una strana nemesi riecheggia) dopo roghi di donne. Le chiamavano streghe.
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di Tania Careddu
Organoclorurati, organofosfati, carbammati, piretoidei, neonicotinoidi, glifosato. Persistenti, si degradano in tempi molto lunghi, ‘insaporiscono’ gli alimenti. E sono fortemente nocivi per la salute umana. Degli agricoltori, delle loro famiglie e di una vastissima fascia della popolazione, perché figlia di un modello di produzione industriale di cibo fortemente dipendente dalla chimica e dall’uso massiccio di pesticidi sintetici.
Dalla ‘rivoluzione verde’ degli anni Cinquanta fino ai giorni nostri, allo scopo di incrementare i raccolti e non deludere la domanda, l’agricoltura è costretta a proteggere le colture, sempre più industrializzate, da infestanti e malattie.
A farne le spese (oltre ai consumatori), frutta, vedi uva e mele (in un singolo campione di suolo raccolto in un meleto italiano sono state rilevate tredici sostanze chimiche diverse e dieci in un campione di acqua), verdure, soprattutto a foglia verde, e legumi.
E anche alcuni animali da allevamento, ‘avvelenati’ da mangimi contaminati, i loro derivati, tipo latte, prodotti caseari e uova. Irrorati su terreni agricoli o nelle aree verdi delle città, i pesticidi possono diffondersi a larghe distanze, dai dieci metri ai centocinquanta dai luoghi di applicazione.
Sebbene sia complesso certificare il diretto rapporto causa-effetto per la presenza di una serie di fattori che interviene nell’originarsi di una malattia, l’associazione statistica tra esposizione (e non solo, vista l’eredità epigenetica) e aumento del rischio di sviluppare malattie gravi non può essere ignorata. Per gli effetti neurotossici: agevolano l’insorgere di patologie neurodegenerative, vedi il morbo di Parkinson e quello di Alzheimer, e la sclerosi laterale amiotrofica. Per gli impatti significativi sul sistema immunitario: possono portare a un aumento dell’ipersensibilità a certe sostanze chimiche o a fenomeni di immunodepressione. Sono interferenti endocrini: disturbano il funzionamento della tiroide e arrecano un disequilibrio degli ormoni sessuali.
E se questa evidenza deve essere approfondita, gli effetti sul feto e sui bambini molto piccoli sono più riscontrabili. Molti di questi veleni sono noti per la capacità di attraversare la placenta. E raggiugere un sistema nervoso in fase di rapido sviluppo.
Alla nascita: peso e lunghezza ridotti, idem le capacità cognitive, alterazione del comportamento, vari tipi di leucemie infantili e tumori alle ossa e al cervello. Colpire i neonati nella misura in cui non possiedono enzimi in grado di ridurre la tossicità di queste sostanze. O i lattanti, con un metabolismo non sufficientemente sviluppato per eliminare tali agenti inquinanti.
A onor del vero, c’è da dire che la maggioranza delle persone è esposta quotidianamente a mix di composti chimici, di cui non si conoscono gli effetti, soprattutto nel lungo periodo, e particolarmente perché, interagendo fra loro, generano cocktail che presentano livelli di tossicità imprevedibili. E i pesticidi contribuiscono ad aumentarne il carico di tossicità.
In una combinazione non trascurabile di fattori ambientali e predisposizione genetica. Individuare la correlazione e “adottare politiche in grado di garantire a tutti alti standard di sicurezza è una sfida” del futuro, si legge nel Rapporto ‘Tossico come un pesticida’, elaborato da Greenpeace.
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di Tania Careddu
Facilitano l’esercizio dei diritti familiari e genitoriali delle famiglie italiane. E sono la miglior risposta alla nostra non autosufficienza. Eppure, le badanti sono vittime di un’irregolarità diffusa che le porta a condizioni di lavoro informali e a scarse tutele. Tipo: la forma di lavoro per la quale spesso non sono professionalmente qualificate, l’orario di lavoro eccessivo, l’alloggio - il più delle volte condiviso con la persona assistita - la dimensione familiare negata con i figli rimasti nel Paese d’origine.
Oppure, se ricongiunti, portatori di situazioni complicate da gestire per la lavoratrice, sotto il profilo della conciliazione dei tempi, del benessere psico-sociale dei figli e dell’integrazione della famiglia in generale.
L’irregolarità contrattuale, secondo quanto si legge nel report Lavoro domestico e di cura: pratiche e benchmarking per l’integrazione e la conciliazione della vita familiare e lavorativa, redatto da Soleterre e Irs, riguarda quasi i due terzi delle assistenti familiari.
Delle ottocentotrenta mila, duecentosedici mila risiedono irregolarmente in Italia, senza alcuna prospettiva di formazione, sviluppo professionale, connessione con i servizi pubblici, sono vittime di una segregazione anche sociale, costrette come sono a corisiedere con l’assistito, in un rapporto di dipendenza personale che impedisce di relazionarsi al contesto e di chiedere il ricongiungimento familiare.
Duecentocinquantatre mila, pur risiedendo regolarmente, lavorano senza contratto: condizione precaria ed aleatoria professionalmente ma che, se non altro, lascia maggiori spiragli di integrazione. Trecentosessantuno mila sono totalmente in regola: talvolta è una regolarizzazione ‘grigia’, le ore dichiarate sono inferiori a quelle effettuate, l’inquadramento è in una categoria inferiore e il riconoscimento dello stipendio è pari al minimo tabellare.
E però, la negazione dei diritti, le esigenze lavorative che impongono di corisiedere (pure per gli elevati costi del mercato immobiliare) con l’anziano assistito, condizione di sei badanti su dieci, sono fattori che incidono pesantemente sulle possibilità di conciliazione e di attuazione di scelte famigliari di ricongiungimento. Esposte ad alti livelli di stress, le badanti si cimentano, oltre che nella cura e nell’assistenza tout court, soprattutto nella gestione emotiva dei rapporti, che riguardano spesso persone sole e isolate, frequentemente in condizioni di totale non autosufficienza.
L’impatto di questo rapporto sulla loro vita è molto significativo dal punto di vista psichico. E, il ritorno a casa, peggiora la situazione. Fanno una crisi depressiva che spiegano così: la maternità a distanza, la continua prossimità con la malattia e la morte degli anziani, le pesanti condizioni di lavoro, la perdita della propria identità professionale e l’impossibilità di mettere a valore quanto appreso in Italia, l’erosione dei legami sociali con gli amici rimasti in patria.
L’Europa dell’Est e il Sud America. Da cui sono partite per arrivare in Italia, in forma massiccia, negli anni Novanta. Anche se negli ultimi anni il fenomeno ha rallentato la sua corsa ed è meno dinamico, il lavoro di queste ultraquarantenni, madri di figli rimasti ‘orfani bianchi”, è sempre consistente: assistono un milione di anziani, un numero pari a quasi cinque volte quello degli ultrasessantacinquenni ricoverati in strutture residenziali e a quasi sei volte di quelli seguiti a domicilio dai servizi di assistenza domiciliare comunali.
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di Tania Careddu
Semina, ripulitura dalle erbacce, concimazione e raccolta delle coltivazioni principali e di quelle secondarie. E’ il contributo fondamentale delle donne alla produzione di cibo e alla sicurezza alimentare. Nei Paesi in via di sviluppo e nelle aree rurali, dove vivono la maggior parte delle persone che soffrono la fame, le donne producono la maggior parte degli alimenti consumati sul posto. Con i loro orti domestici, molto produttivi, soddisfano il benessere nutrizionale ed economico.
Anche solo rappresentando, secondo quanto riportato nello studio della Fao Le donne, l’agricoltura e la sicurezza alimentare, il 2 per cento delle terre della loro famiglia, rendono la metà della produzione totale dell’intera fattoria, una su cinque delle quali è gestita da donne. E producono più del 20 per cento del reddito familiare e il 40 per cento del fabbisogno alimentare domestico.
Loro, le donne, al contrario di quanto fanno gli uomini che impiegano il 25 per cento delle proprie entrate per altri scopi, utilizzano quasi tutto il reddito derivante dalla produzione agricola per far fronte alle necessità famigliari. Eppure lavorano molte più ore degli uomini: in Asia e in Africa, per esempio, sono operative per tredici ore a settimana in più degli uomini.
Trasportano più di ottanta tonnellate di combustibile, acqua e prodotti agricoli per un chilometro; gli uomini solo un ottavo di queste quantità, con una media di dieci tonnellate per un chilometro all’anno. Ma questi, per il riconoscimento ufficiale di capi famiglia, sono considerati ‘capi del fondo agricolo’, anche quando le responsabili del lavoro giornaliero e della conduzione del fondo sono le donne. Le quali dedicano un’ora ogni giorno, o quattro quando è necessario, al rifornimento d’acqua indispensabile per cucinare.
Eppure tutto questo non basta per sovvertire la tradizione e le leggi che impediscono loro di possedere la terra. Che, servendo da garanzia, le esclude anche dall’accesso al credito. Senza questo, non possono acquistare materiali essenziali per il lavoro, vedi le sementi, i fertilizzanti e gli attrezzi, o investire nell’irrigazione e nel miglioramento delle terre. Tagliate fuori, se non per un esiguo 5 per cento, pure dai servizi di divulgazione e formazione per imparare a conoscere le nuove varietà delle coltivazioni e le nuove tecnologie: il loro ruolo, nella produzione alimentare, è raramente riconosciuto.
Ma è d’obbligo sapere che l’informazione riveste un potere critico. Per ottenere maggiori e più complete informazioni statistiche sui ruoli e sulle necessità delle donne, dovrebbero essere intraprese azioni per riesaminare i dati esistenti. Sarebbe opportuno utilizzare tecniche come la valutazione rurale partecipata (PRA).
Che si basa sulla conoscenza e l’esperienza delle donne, usando strumenti quali il calendario stagionale, i profili di attività giornaliera e le mappe delle risorse familiari e dei villaggi. Così si renderebbe determinante il loro apporto e si eliminerebbero gli ostacoli che le bloccano. Per raggiungere l’obiettivo del Vertice mondiale sull’alimentazione.
Nell’attesa, in occasione di EXPO 2015, WE-Women for Expo International ha creato un documento-manifesto Women for Expo Alliance, contro lo spreco alimentare per il rafforzamento del ruolo femminile nell’agricoltura nel mondo. Come? Abbattendo quelle barriere culturali e sociali, prima che politiche, che ancora impediscono alle donne - che sono il 40 per cento della forza lavoro agricola nel mondo - di produrre di più e meglio.
Con una conclusione: se le donne avessero sufficiente accesso al credito agricolo, se potessero avere un’istruzione adeguata, se fossero in grado di possedere le terre che coltivano, la produzione agricola aumenterebbe sensibilmente, portando fuori dalla malnutrizione e dalla denutrizione centocinquanta milioni di persone. Per questo la battaglia per i diritti e gli strumenti delle donne che lavorano i campi equivale alla lotta contro la fame nel mondo.