di Tania Careddu

Dall’Africa occidentale o da quella orientale, passando per la Libia. In viaggio per sedici o ventidue mesi. Su imbarcazioni gestite da trafficanti che ‘garantiscono i servizi’, dal trasporto alla corruzione dei funzionari di frontiera. Una rete a maglie larghe in cui ogni singolo individuo può inserirsi e sfruttare i migranti durante “la strada per l’inferno”, fatta di sequestri, estorsioni di denaro, denutrizione, disidratazione, aggressioni.

Legati, bendati, rinchiusi, percossi, privati di cure mediche, torturati e bruciati. Costretti in posizioni stressanti, in piedi per un tempo prolungato o ammanettati, minacciati di violenza, oltraggiati sessualmente, obbligati ad assistere a maltrattamenti dei compagni di viaggio. Fino a vederli morire.

Quelli di loro che sopravvivono, sono tenuti in condizioni degradanti dai carcerieri: quaranta persone in trenta metri quadrati, senza spazio per potersi distendere, privi di servizi igienici e obbligati a lavori forzati, presi a calci dai soldati con gli stivali dalla punta metallica.

Che, insieme agli agenti di polizia militari, ai banditi e ai ribelli, sono gli autori delle violenze. Non solo: bande armate come gli Asma Boys che gestiscono luoghi speciali dove i migranti vengono quotidianamente seviziati in cambio di denaro, gruppi armati di trafficanti professionisti, tipo autisti e intermediari, civili libici e uomini d’affari che li sfruttano, trattandoli come schiavi. Gestiscono i foyer (dormitori) dove usano violenza nei confronti di quelli che non riescono a pagare la rata mensile.

Non vorrebbero affrontare il viaggio ma sono stati costretti a fuggire dal paese d’origine a causa di persecuzioni politiche, religiose e sessuali, dittature, guerre civili, situazioni violente all’interno di comunità familiari, dispute territoriali, conflitto con la legge, coscrizione militare obbligatoria. Scappano per salvare i propri diritti fondamentali. Sono migranti forzati. A pagare, oltretutto, dai mille agli oltre tremila euro per arrivare negli Stati di un’Europa ostile che ancora fa il punto sulla differenza tra rifugiati politici e migranti economici.

Dicotomia astratta e sterile, quando ad approdare in Italia sono le vittime di traumi ripetuti. Dai quali tentano di difendersi in cerca di un futuro. Insicuro e vulnerabile, segnato dalla paura della morte. Dall’angoscia di essere costantemente bersagli mobili o di essere odiati in quanto “diversi”. “Ero terribilmente spaventato - ha raccontato J.U., diciottenne nigeriano, agli operatori di Medici senza frontiere (MEDU), che lo hanno riportato nel Rapporto Fuggire o morire - perché la barca era così piccola, così leggera, e il mare era così grande e agitato. Il viaggio è durato quattro notti".

In che condizioni? Queste: "Dopo averci imbarcato, l’arabo che era nella barca è saltato fuori e ha lasciato l’imbarcazione nelle mani di un ragazzo del Gambia che era tra gli ostaggi durante la traversata. Lo hanno lasciato con una bussola e un telefono, ma entrambi erano guasti. Le centoquindici persone a bordo erano disperate. Si poteva sentire la nostra pura di morire. Mi sentivo solo di fronte al mare e non ho fatto altro che piangere per tutta la traversata. La quinta notte abbiamo visto una nave che dopo tre ore è riuscita a trarci in salvo”. Ammesso che l’Europa li porti in salvo.

di Tania Careddu

“Ho perso mio padre quando avevo sette anni e da quel momento la mia vita è diventata molto dura per la mia famiglia. Ho lasciato la scuola a dieci anni per poter lavorare e aiutare mia madre e le mie sorelle. Ho lavorato per un falegname pitturando mobili per sei anni. Guadagnavo l’equivalente di neanche cinque euro al giorno. Un sacco di gente del mio villaggio era tornata dall’Italia e aveva costruito grandi case e aveva belle macchine, così con mio fratello sono andato a incontrare un mediatore e abbiamo concordato il pagamento per essere portato da Alessandria in Italia via mare.

Sono stato in mare per dodici giorni. Avevo solo qualche panino che ho fatto durare più a lungo possibile e non ho mangiato per quattro giorni interi. Sono stato in cinque barche differenti, alla fine. Durante il viaggio quelli che ci portavano continuavano a far salire sempre più persone in piccole imbarcazioni per poi stiparci tutti in una più grande che si è diretta verso l’Italia. I trafficanti sanno che possono essere catturati e che la barca può essere confiscata dalla autorità italiane, per questo non vogliono rischiare che cinque barche siano sequestrate (…)

Quando sono partito pensavo che stavo per guadagnare un sacco di soldi, che stavo arrivando in paradiso. Ma ho lasciato l’Egitto per un altro Egitto. Avevo così tante speranze e progetti quando sono venuto qui, ma ora sono solo deluso”. A parlare, agli operatori di Save the children nel dossier 2015 Piccoli schiavi invisibili, è Ahmad, uno dei tanti minori egiziani arrivati in un’Italia che ha deluso le loro aspettative.

Si sentono depressi, costretti a rimanerci pur volendo tornare a casa. E con un grande fardello: il debito contratto, dalla famiglia, per il viaggio. Che varia dai duemila ai cinquemila euro. Troppo alto per essere estinto immediatamente. Ricorrono alla sottoscrizione di un falso contratto con gli intermediari, ipotecando le proprie abitazioni. E aspettando la chiamata dei figli sbarcati nel Belpaese, perché è da quel momento che si comincia a pagare.

Con i soldi che i minori riescono a racimolare lavorando. Incastrati nelle maglie dello sfruttamento lavorativo: nei mercati generali di frutta e verdura, negli autolavaggi, nelle pizzerie. Caricare (e scaricare) un camion da dodici pancali: dieci euro. Riempire una cassetta di frutta: cinquanta centesimi. Un euro e mezzo all’ora - dalle nove all’una di notte, sette giorni su sette - per prestare servizio nei ristoranti gestiti da cittadini cinesi. Due o tre euro all’ora - per dodici ore consecutive - per un’occupazione negli autolavaggi. Cinquanta centesimi all’ora per lavorare nelle kebaberie.

Ma il calcolo dei soldi guadagnati è in ghinee egiziane e sembra equo. Così come egiziani (sembra equo?) sono gli sfruttatori, che, talvolta, sono gli stessi affidatari, alle dipendenze dei quali è alto il rischio di finire in attività illegali quali spaccio di droghe leggere, furti e rapine.

Per i minori afghani, invece, il pagamento del viaggio inizia già in mare. Chi non ha i soldi in tasca, può sdebitarsi guidando i gommoni dalla Turchia alla Grecia (tappa per arrivare in Italia). Previa giornata di prova per imparare a navigare. Viaggi lunghi, di violenza e abusi. Con la promessa che saranno sicuri: basta pagare anticipatamente i trafficanti, i quali poi spariscono con l’intero ammontare del viaggio. E così, dopo la violenza, il vuoto assoluto.

A suon di stupri, comincia il viaggio delle minori nigeriane. Chiuse in guest house, cominciano a ripagare i trafficanti del debito contratto per il viaggio. Verso un futuro migliore, a detta dello ‘sponsor’ o del ‘trolley’. Che le indottrina anche sulla storia da raccontare alle forze dell’ordine, una volta arrivate a destinazione. Non rivelare a nessuno la situazione è una promessa, sancita anche da un rito vodoo già prima della partenza e che sono obbligate a ripetere in altre circostanze, diventando uno strumento di controllo e di consolidamento del rapporto di sottomissione. Sia con gli sfruttatori sia con la mamam, che decide luoghi, tempi e modi delle attività di prostituzione.

Controllandole a vista: o personalmente o tramite una minimamam o con il passaggio in auto di uomini nigeriani, oppure tramite i social network per opera di altre minori. Fino all’estinzione del debito, che va dai trentamila ai sessantamila euro, la mamam ha il pieno controllo materiale delle ragazze. Sulle quali, oltre al saldo del debito che deve avvenire nel più breve tempo possibile, obbligandole a concedere prestazioni sessuali a bassissimo costo, specula anche sulle spese per le utenze e sull’affitto. Non solo per la stanza che occupano - divisa con molte altre coetanee - ma pure per il marciapiede in cui si prostituiscono. Da cento a duecentocinquanta euro, periodicamente. Fino a quando?

di Tania Careddu

Una moderna schiavitù. Non relegata alle aree marginali del mondo. Presente, piuttosto, in ogni angolo dell’occidente civilizzato. Anche nel Belpaese. Dalle zone agricole dell’avanzato settentrione a quelle delle regioni più sviluppate del centro, dalle pianure pontine del Lazio alle campagne abruzzesi vicine alla costa, e in tutte le regioni meridionali. Fondato sulla sistematica violazione dei diritti dell’essere umano, è “nella qualità del rapporto di lavoro tra datore di lavoro e lavoratore l’elemento fondamentale per la definizione” dello sfruttamento lavorativo.

Che avvenga nelle imprese con più dipendenti o in quelle unipersonali, in un quarto dei casi, o nelle famiglie, nel 10 per cento delle situazioni. Che accada nel settore industriale, anche nella produzione metallurgica e meccanica, in quello edile, in quello agroalimentare - raccolta dei prodotti della terra, pesca d’alto mare, macellazioni delle carni di allevamento e pastorizia -, o in quello alberghiero e del turismo, soprattutto stagionale, e nel badandato a carattere servile.

Succede quando il mercato del lavoro assume un carattere deregolativo. Funzionando più o meno così: flessibilizzando in maniera esponenziale le modalità di ingaggio occupazionale e negoziando con terze persone le condizioni di lavoro si creano maggiori posti di lavoro. Ma il risultato, in filigrana, è la penalizzazione della componente umana, investita da pessime condizioni di lavoro dove è massima la presenza di categorie altamente vulnerabili. Per la condizione giuridica, sovente legata all’assenza di documenti di soggiorno, per la necessità di acquisire reddito in maniera impellente e per il disorientamento culturale. Spesso talmente ignara della sua condizione, qualora ne prenda consapevolezza, la vittima tende a giustificarla con lo status di straniero. Irregolare.

Ma anche quando vi fosse la possibilità di ‘regolarizzarsi’, la denuncia sarebbe fortemente destabilizzante. Paura di perdere quell’entrata minima indispensabile alla sopravvivenza che le fa vedere il datore di lavoro come un benefattore, perdita del senso di appartenenza a un sistema reticolare che lo ha sostenuto nonostante la sua condizione di irregolarità e tradimento del caporale che, finora, le ha garantito il lavoro.

E anche quando riescono a sbloccare l’aspetto giuridico, questi lavoratori, sovente e involontariamente, riproducono gli stessi contesti occupazionali di sfruttamento. L’incapacità di immaginare un contesto diverso, anche per la mancata integrazione con il territorio, e l’idea di un destino immodificabile, non li fa sentire in grado di negoziare condizioni migliori da quelle che vengono offerte loro dal caporale.

Figura ambigua, sempre al servizio di un imprenditore, ha la principale funzione di intermediatore illegale di manodopera. Servile e accondiscendente con il datore di lavoro, direttivo e inflessibile con i lavoratori, se ne contano cinque tipologie: caporale-lavoratore, il quale, oltre a trasportare i braccianti, è a capo della squadra ma lavora con loro; caporale-tassista, che li trasporta e riscuote il denaro; caporale-venditore, il quale, oltre al servizio trasporto, vende ai braccianti, mellifluamente, beni di prima necessità (pensare a una forma di ricatto viene spontaneo); caporale-aguzzino che, per guadagnare di più, impone salari più bassi del dovuto e costi del viaggio a sua discrezione; caporale-amministratore delegato che gestisce tutte le fasi, spesso in combutta con l’imprenditore e con la malavita locale.

E, secondo quanto riporta il Rapporto Presidio 2015 della Caritas ‘Nella terra di nessuno’, il fatto che goda della fiducia degli imprenditori italiani, per i lavoratori sfruttati è segno di benevolenza e stima. Una visione distorta che legge il caporale come una persona che ha fatto strada, guadagnando questa posizione investendo in relazioni e denaro in mezzi di trasporto. Con tanti sacrifici. Perciò i lavoratori provano rispetto per il successo che è riuscito a conquistare. Ad maiora.

di Jacopo Risdonne

13 Agosto 2015: la Terra è ufficialmente in rosso. In meno di otto mesi abbiamo già esaurito le risorse naturali dell’intero anno. E andremo a saccheggiare quelle del futuro. In pratica, secondo il Global Footprint Network, siamo in debito ecologico e ci sarebbe bisogno di una Terra e mezzo per sostenerci a questi ritmi. Ben fatto. L’Earth Overshoot Day - questo il nome della ricorrenza - segna il giorno in cui la domanda annuale di risorse dell’umanità eccede ciò che la Terra è in grado di rigenerare nello stesso anno.

Proprio come le banche tracciano le uscite e le entrate, il Global Footprint Network (GFN) misura la differenza tra la nostra domanda di risorse naturali e servizi ecologici e quanto il Pianeta possa metterci a disposizione.

Secondo il bollettino emesso dagli esperti, consumiamo più legna di quanto ne producano le foreste, mangiamo più animali di quanto il loro ciclo riproduttivo riesca a farne nascere, emettiamo anidride carbonica nell’atmosfera ad un ritmo tale da ostacolare il suo naturale assorbimento. In soldoni, stiamo vivendo oltre il limite.

E se nulla cambia - avvertono gli scienziati - nell’arco di qualche lustro non avremo più la possibilità di ritornare sui nostri passi, ma solo di voltarci e contemplare ciò che è stato. Pertanto, “non è solo una data simbolo, ma un allarme importante”, sentenzia il climatologo Luca Mercalli. Tuttavia, pochi sembrano preoccuparsene.

Siamo giunti al primo overshoot nel 1970 (il 23 Dicembre), e da allora abbiamo macinato giorni su giorni sul calendario. Negli ultimi 15 anni la data dell’Earth Overshoot Day è avanzata a marce forzate: nel 2000 consumavamo il capitale naturale i primi di Ottobre, mentre l’anno scorso il 19 Agosto eravamo già in debito ecologico. Per soddisfare la domanda umana servirebbero 1.6 Terre. Nel 2030 potremmo arrivare a consumarne due: missione tutt’altro che impossibile, proseguendo alla stessa stregua degli ultimi decenni.

L’Italia, nel suo piccolo, ha fatto peggio della tendenza globale, conquistando un primato invidiabile: mentre l’allarme mondiale è scattato il 13 Agosto, quello per l’Italia non si è lasciato desiderare. Abbiamo esaurito il capitale naturale dello Stivale in soli 4 mesi, il 5 Aprile scorso.

In termini concreti, per soddisfare questi ritmi avremmo bisogno di 3.8 Italie. In Europa non abbiamo rivali in questo campo: anche se Svizzera e Regno Unito sono temibili (con una necessità rispettivamente di 3.5 e 3.0 volte le risorse disponibili entro i propri confini territoriali). Tuttavia, se può consolare, nel resto del mondo spiccano i dati del Giappone, che necessiterebbe di 5.5 Giapponi per supportare i suoi bisogni.

Un altro Giovedì nero, dunque - dopo quello del crollo della borsa di Wall Street - si insedia e si fa spazio tra le folte pagine della storia. Forse la notizia non attrae tanta attenzione quanto quella dei noti fatti del ’29 o di uno stato precipitato in un deficit finanziario, ma il resoconto pubblicato dal Global Footprint Network potrebbe avere effetti ben più duraturi e difficili da rovesciare. “In alcune aree del pianeta - secondo gli scienziati del GFN - le implicazioni dei deficit ecologici possono essere devastanti, condurre alla perdita delle risorse, al collasso degli ecosistemi, all’indebitamento, alla povertà, alla carestia ed alla guerra”.

I governi ignorano che le ripercussioni di decisioni politiche che mettono ai margini l’assioma ‘le risorse naturali sulla Terra sono limitate’ possono riverberarsi sulla performance economica a lungo termine; i governi palesano acute forme di miopia non considerando che la riduzione della loro dipendenza dalle risorse coincide con i loro interessi.

A fronte di tutto ciò, comunque, non mancano casi di stati che, in vari modi, si stanno attivando per rimediare alle scelleratezze del passato. A tal proposito, è calzante il caso delle Filippine, degli Emirati Arabi e del Marocco. Ammirevoli, inoltre, sono i risultati della Danimarca, la quale ha tagliato le proprie emissioni di CO2 del 33% dagli anni ‘90.

Se fosse stata imitata dal resto degli stati questo articolo avrebbe avuto un’altro taglio ed un altro spirito; si sarebbe parlato di overshoot solo il 3 di Ottobre (secondo i calcoli del GFN). Ma questa è un’altra storia; la realtà dei fatti, ad oggi, é un’altra. La morale, al di là di tutto, è tanto chiara e limpida da sembrar degna di una delle favole di Esopo: ridurre il calco della nostra impronta ecologica sulla Terra non è un miraggio od un’utopia.

Come un geco che perde la sua coda, dunque, la Terra è in grado di auto-risanarsi e rigenerarsi. Tuttavia, questo processo richiede tempo. E noi, come è noto, non sappiamo attendere. Come in preda ad istinti dionisiaci sembriamo marionette sotto il controllo di impulsi irrazionali. Ci stiamo spingendo oltre i confini della ragione, rinnegando ogni legge non scritta che vede l'uomo come l'essere vivente razionale per antonomasia. Ci ostiniamo a schiacciare con indomabile forza e sordida avarizia il piede sull'acceleratore.

Con insaziabile voracità estraiamo capitale naturale da una miniera dalle ricchezze finite, da un pozzo dalle risorse limitate. Da oggi stiamo chiedendo al nostro Pianeta ciò che non può darci. Non stiamo dando alla coda il tempo di ricrescere.

di Tania Careddu

Finalmente diminuiscono. Non sono, certamente, quanti quelli del 1991, in seguito al provvedimento di amnistia - l’ultimo del dopoguerra - ma nemmeno più di sessantotto mila come nel 2010. Sarà stata la paura per la condanna da parte della Corte europea che sul punto era intervenuta nel 2013, sta di fatto che il trend crescente del numero dei detenuti presenti negli istituti penitenziari italiani ha subìto una battuta d’arresto.

Dal 2012 le riforme messe in campo e consolidate di recente sono state latrici di una situazione di minore affollamento. Che, invece, i riordini legislativi precedenti non hanno per niente agevolato. La riforma dell’Ordinamento penitenziario , nel 1994, e la preclusione all’accesso alle misure alternative, la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, nel 2003, le leggi sulle droghe e sulla recidiva, nel 2009, hanno fatto lievitare la popolazione detenuta.

Anche se va meglio, a oggi, comunque, sono tremila e duecentotrentadue i detenuti oltre capienza massima. Vuoi perché l’area delle misure alternative al carcere, sebbene sia maggiormente applicata, non ha sostituito quella di reclusione, vuoi per la particolare condizione di tanti detenuti stranieri, i quali, nonostante ricevano un provvedimento di espulsione continuano a rimanere in carcere perché non viene eseguito (e la condizione di espulsi non consente loro di accedere ai permessi e agli altri benefici fruibili dai detenuti non extracomunitari).

Sono in calo gli stranieri: dopo l’introduzione da parte della Corte di giustizia dell’Aja della disapplicazione del reato di inottemperanza all’obbligo di espulsione del questore, sono calati al 32,6 per cento, quattro punti in meno rispetto al 2010. E però, forse perché l’Ordinamento penitenziario è stato approvato quando la loro presenza non era percentualmente significativa da giustificare un trattamento particolare, si notano ancora situazioni di grande criticità.

E non solo per loro. Visitando quaranta istituti penitenziari, gli operatori dell’Associazione Antigone hanno segnalato gravi carenze. In tema di dignità, per esempio. Mancano i beni essenziali: dall’acqua corrente potabile a Tempio Pausania al vitto insufficiente di Frosinone. Al Pagliarelli di Palermo sono obbligati a portare le maniche lunghe fino all’arrivo dell’estate, stabilito secondo l’arbitrio della direzione.

Le otto ore fuori dalla cella, previste dal ministero della Giustizia in nome della dignità, non sempre trascorrono in occupazioni dotate di senso: a Isernia le attività sono del tutto convenzionali e poco utili ai fini del reiserimento sociale. O in tema di diritto al lavoro: a parte due realtà d’eccellenza, Massa Carrara e Lodè Mamone in Sardegna, in cui lavorano all’aperto praticamente tutti i centoquaranta detenuti, al Bancale di Sassari lavorano per pochi soldi, poche ore a settimana o per pochi giorni al mese; a Enna e a Brindisi, a lavorare sono meno del 15 per cento.

Così, alla resa dei conti, a fine 2014, lavorava in carcere poco più di un quarto dei reclusi. Non va meglio sul fronte del diritto all’istruzione, fattore di emancipazione da scelte di criminalità: a Sassari Bancali non sono presenti convenzioni con istituti di istruzione superiore cosicché quelli interessati sono obbligati a chiedere il trasferimento alla casa circondariale di Alghero. A parte il caso specifico, la politica dei trasferimenti non tiene conto dei bisogni di continuità, evadendo il diritto alla territorialità della pena. Che tutelerebbe anche i legami affettivi. Il cui mantenimento è un diritto, lontanissimo dall’essere garantito per l’assenza di una modifica normativa.

Dunque, gli istituti attrezzati con aree colloquio per famiglie sono ancora in minoranza, dando luogo a file chilometriche di parenti. Una carenza che altera i (già complessi) rapporti. Di persone già vulnerabili socialmente e in condizioni psichiche molto precarie. Disagio molto diffuso tra la popolazione carceraria che richiederebbe la presa in carico (latitante) da parte dei Dipartimenti di salute mentale, per non lasciare soli gli operatori penitenziari.

Tanto per dirne una, a Tempio Pausania, lo psichiatra è presente in istituto solo per quattro ore a settimana per moltissimi detenuti. E dire che sarebbe necessario, considerato che i suicidi, in tutte le case circondariali della Penisola, sono stati ventiquattro nei primi sei mesi del 2015 su un totale di cinquantasette detenuti morti in carcere.

E poi, ritardi nelle visite specialistiche o nei ricoveri ospedalieri, mancato rispetto della privacy o della terzietà del ruolo del medico. Troppi ancora gli ergastolani, e in crescita rispetto al passato, e troppo pochi i permessi premio: in sei mesi, tre soli permessi ogni dieci detenuti. La durezza delle pene non ha nessuna efficacia deterrente. Serve una cura, per i cinquantaduemila e settecentocinquanta detenuti. E non solo per loro.


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