di Tania Careddu

Ne sono passati di bambini nelle classi dal 1971, anno in cui la legge 1044 istituiva il servizio di asilo nido comunale. Pensato come un’adeguata assistenza alla famiglia e per facilitare l’accesso della donna al mondo del lavoro, “temporanea custodia dei bambini”, la finalità educativa, che oggi gli viene attribuita, prende sostanza dagli anni duemila. Non solo sostegno agli adulti di riferimento ma, soprattutto, luogo con scopo formativo, rivolto a “favorire l’espressione delle potenzialità cognitive, affettive e relazionali del bambino”.

Dal 2011, anche un modo per liberare i minori disagiati da condizioni di povertà e da famiglie disfunzionali e per eradicare la loro esclusione sociale. Ma proprio ora, che la crisi mette in difficoltà le famiglie, nell’ultimo rapporto sul ‘monitoraggio del Piano di sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia’, si legge che il privato, come ente gestore, ha avuto una tendenziale crescita.

Sembra lontano da venire, dunque, il raggiungimento dell’obiettivo che il Consiglio Europeo di Barcellona aveva fissato nel 2002: garantire, entro il 2010, l’accesso a strutture educative a tempo pieno ad almeno il 90 per cento dei bambini tra i tre e i cinque anni e ad almeno il 33 per cento dei piccoli fino ai due anni d’età. In Italia: primo step raggiunto; quanto al secondo, ferma all’11,9 per cento.

Alla fine del 2013, secondo quanto riportato nella rilevazione annuale sui costi e numero degli asili nido in Italia ‘C’è un nido?’, gli asili nido pubblici sono quasi quattromila con poco meno di centosessantatre mila posti. La regione più virtuosa, in tal senso, è l’Emilia Romagna con seicentodiciannove strutture e più di ventotto mila posti disponibili, seguita dalla Lombardia che conta poco meno di seicento nidi e circa venticinquemila ‘banchi’. Commutando i numeri in percentuale, il 56 per cento dei nidi comunali è concentrato nelle regioni settentrionali, il 25 per cento in quelle centrali e il 19 per cento in quelle meridionali.

Stessa distribuzione anche relativamente ai capoluoghi di provincia: il 61 per cento è situato nelle regioni del Nord, il 27 per cento in quelle del Centro e il 11 per cento in quelle del Sud.

Premesso che, mediamente, una famiglia italiana spende trecentoundici euro al mese per mandare il proprio figlio all’asilo nido comunale, cifra corrispondente al 12 per cento della spesa media mensile del nucleo famigliare, la regione con gli asili più costosi è la Valle d’Aosta, dove si sborsano quattrocentoquaranta euro, e quella più economica è la Calabria, con centosessantaquattro euro a bambino.

Le città più care: Lecco, Sondrio, Belluno, Cuneo, Alessandria, Imperia, Cremona, Trento e Aosta. Quelle meno care: Catanzaro, Vibo Valentia, Roma, Trapani, Chieti, Campobasso, Venezia, Napoli, Salerno e Macerata. Stessa tendenza per i nidi adatti ai minori di tre anni: 24,8 per cento delle strutture che li hanno accolti nell’anno scolastico 2013/2014 si trovano in Emilia Romagna e il 2 per cento in Campania. Percentuali davvero piccole.


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