di Tania Careddu

Sessantacinque con poco più di milleottocento membri. Nati, benché presenti già negli anni cinquanta, fra il 2000 e il 2009, i think tank sono strutture politiche in cui trovano dimora le principali funzioni (un tempo) appartenenti ai partiti politici. Condividendo idee sulla cosa pubblica, i pensatoi si dividono in due categorie: per l’organizzazione di eventi e seminari e per la promozione di attività editoriali. Con due forme giuridiche: quarantotto fondazioni e diciassette associazioni.

Sebbene svolgano attività di stampo culturale, non si può ignorare la forte componente politica: la presenza di alcune figure ricorrenti e la palese interconnessione fra svariate strutture, il tipo di attività svolta e la composizione del management, oltreché la collocazione geografica (essendo ubicate le sedi principalmente a Roma, città dei palazzi del potere), rendono agevole la ricostruzione di un orientamento politico.

Premettendo, secondo quanto si legge nel minidossier di Openpolis ‘Cogito ergo sum’, che il 13,85 per cento dei pensatoi è di natura bipartisan che giustifica le buone intenzioni di condividere non tanto un’ideologia ma una comune battaglia su temi specifici, vedi di medicina o di difesa nazionale, per il resto, centrodestra e centrosinistra se li spartiscono. Giustificandoli con l’intento di fare ricerca, non sono, però, gli esponenti del mondo accademico a costituire la fetta più grossa: sono solo cinquecentocinquantaquattro versus cinquecentocinquantassette politici. Fra i restanti, imprenditori e manager, dirigenti pubblici, giornalisti, avvocati e pochi scrittori.

Con un’interconnessione fra le diverse strutture ‘parapolitiche’: il 66 per cento dei think tank ha almeno un membro in un altro pensatoio e venti persone compaiono in almeno tre. Quindi: duecentoquarantadue i collegamenti fra le organizzazioni, trecentosettantaquattro i membri condivisi. A destare attenzione, però, non è solo il dato numerico: esistono collegamenti rilevanti a livello qualitativo. Ossia, chi ha un incarico apicale in una struttura è molto probabile che ne avrà uno simile in altre.

Un vero e proprio network, con radici molto profonde: ogni pensatoio ha, in media, nove membri in altre strutture, collegandosi così, sempre in media, ad altre sei realtà. Tanto per avere un’idea: Italianieuropei è il think tank con più rappresentanti in altri pensatoi e la Fondazione Italia Usa è quella con più collegamenti con altre organizzazioni. Come mai? Perché le persone (con posizioni apicali in numerose realtà) che creano questi legami hanno incarichi di vario tipo: di management, di rappresentanza e di ricerca.

I collegamenti fra incarichi pubblici e think tank e il crescente ruolo politico di queste realtà - è innegabile che la principale forza propulsiva per la nascita della struttura e il più solido punto di riferimento sia, nella stragrande maggioranza dei casi, un politico -, è d’obbligo cercare di capire quale sia il loro peso economico.

Con tutto il rispetto per la non trasparenza, considerato che non sono soggetti pubblici, i pochi elementi di bilancio rintracciabili sui siti internet, rendono complessa l’operazione. Si è comunque potuto scoprire che solo cinque organizzazioni hanno pubblicato una forma più o meno aggiornata del proprio bilancio. I più solerti e precisi, Symbola e Human Foundation, con i dati del 2014 del proprio budget. E Fondazione Open, l’unica ad aver reso noto, seppure con delle limitazioni, l’elenco dei suoi finanziatori con l’importo esatto donato. Urge una riflessione.

di Tania Careddu

Che produca effetti negativi o positivi, la televisione, sui minori, ha un ruolo di ‘rinforzo’: accentua inclinazioni dei piccoli in misura simmetrica e proporzionale. E cioè: i bambini più attivi la utilizzano a scopo informativo, quelli meno reattivi come fonte di intrattenimento. Sebbene veicolata dalla famiglia, dalla scuola e dagli amici, dicono che la tv incida, in qualche modo, sulla costruzione della realtà, alimentando attraverso la rappresentazione, alcuni stereotipi.

Per esempio, di genere. Oppure condiziona l’idea che si possiede di certi sentimenti. O l’immagine della sessualità. Spesso è violenta: una prolungata esposizione dei minori a questi contenuti causa “la diminuzione di stati empatici verso le vittime della violenza con evidenti conseguenze anche a livello comportamentale”.

Seppure non si voglia attribuire la verità a ciò che la letteratura specializzata statunitense chiama ‘effetto spettatore’, è, comunque, pacifico che nella ricerca di catturare l’attenzione del pubblico fruitore e il primato nello share e negli ascolti, si presti poca attenzione alle esigenze dei minori.

Per tutelarli, il Movimento italiano genitori (Moige), per l’ottavo anno, ha stilato una guida critica alla programmazione televisiva italiana, ‘Un anno di zapping’. Trecento i programmi in onda nella fascia protetta, 07.00-22.30, passati in rassegna: ventidue programmi e sei spot si sono distinti per “aver offerto buone potenzialità educative conciliando con gli obiettivi di share, la qualità, la necessità di intrattenimento, i toni e i contenuti adatti”.

E diciassette prodotti televisivi decisamente trash: “irrispettosi dell’intelligenza, del buon gusto e della sensibilità degli spettatori, soprattutto dei minori”. Propongono modelli e immagini diseducativi: quattro trasmissioni di Italia Uno, tipo 2broke girls, About love, Adam Kadmon-Rivelazioni e XLove, tre di Canale 5, cioè l’Isola dei Famosi, Pomeriggio cinque, Uomini e Donne, e tre di Mtv, ossia Diario di una nerd, Superstar 4, Faking it-più che amiche, Catfish-false identità, due su Real Time, vedi Alta infedeltà e Nudi a prima vista, Announo su La7, Il banco dei pugni su Dmax, Il contadino cerca moglie su FoxLife e Shezow su Freesbe. Bocciato anche lo spot dello sgrassatore KH-7.

Al contrario di alcune pubblicità che si sono contraddistinte per saper coniugare finalità commerciali a rappresentazioni positive dell’ambiente familiare. Senza citare nel dettaglio, la lista è di fiction, soap opera, docufiction, reality dispensatrici di buoni sentimenti è lunga. Ma occorre guardare a quella relativa alla televisione dei ragazzi e dei più piccoli.

Assoluta validità per i prodotti di Rai Gulp, specificamente ne Le straordinarie avventure di Jules Verne, dove coesistono avventura e divertimento in una riproduzione moderna di alcune storie fantascientifiche, in Ricette a colori e in Versus-Generazione di campioni che ha promosso valori formativi dello sport avvalendosi di atleti esperti, i quali hanno svolto il ruolo di maestri ed esempi per i giovani telespettatori. Buona anche Rai YoYo per le Storie di Gipo che hanno accompagnato i bambini nel mondo della fantasia, aiutandoli a riscoprire i giochi di un tempo.

Stimolando i ragazzi a fare le cose servendosi della loro creatività e a riconoscere la forza del gruppo, pollice su anche per XMakers: esperimento interessante per suggerire come trasformare oggetti della vita quotidiana in marchingegni all’avanguardia. Morale: è necessaria una dieta mediale, più ricca di contenuti costruttivi che stimolino il loro apprendimento, che li catturi senza impressionarli.

Non solo divertimento e informazione dunque, ma anche valori positivi. Senza cadute di stile o sensazionalismi, una televisione di qualità è ancora possibile.

di Liliana Adamo

Per la conservazione e la protezione dell'ecosistema e delle biodiversità, un’organizzazione internazionale senza obiettivi di lucro, istituita nel 1977 con il nome di Sea Shepherd Conservation Society, si è posta un mandato: impedire la distruzione dell'habitat naturale e il massacro delle specie selvatiche negli oceani del mondo. Le sue tattiche sono l’azione diretta, quindi rintracciare, indagare, documentare e agire (se e quando è necessario), rendere pubblico e impedire le attività illegali in alto mare.

Ma per capire fino in fondo la vera anima di Sea Shepherd, bisogna “raccontarli” e allora introduciamo due passaggi, cronaca diretta di una contesa sui mari, dal sud fino all’Oceano Atlantico, cabotando l’Antartide, cui gli equipaggi (tutti volontari) di Sea Shepherd, si rendono fieri protagonisti.

Diario di bordo, 6 aprile, 2015: mentre si sta inabissando, la Thunder, nave bracconiera battente bandiera nigeriana, lancia un SOS. Le coordinate, 0’ 20’, a nord, 05’ 24’ a est, indicano il punto localizzato nella zona d’esclusione economica (ZEE), di Sao Tome, nel golfo di Guinea, presso l’omonima isola africana, a circa 250 km dalla costa nord – occidentale del Gabon.

Il capitano della Thunder entra in contatto, via radio, con la nave di Sea Shepherd, “Bob Barker” che gli sta alle costole nell’operazione denominata Icefish, la quale risponde immediatamente al segnale d’emergenza. Peter Hammarstedt, capo della nave ambientalista tra le più famose al mondo, coordina le operazioni di soccorso, intanto che quaranta membri d’equipaggio, capitano, ufficiali e personale di coperta, tutti cacciatori di frodo, si predispongono sulle scialuppe di salvataggio. La situazione si fa via via più grave con la Thunder che comincia a imbarcare acqua. Peter Hammaestedt comunica con l’altro natante, Sam Simon, il “coadiutore”, chiedendo d’intervenire per prestare soccorso al personale della nave bracconiera che intanto si è inclinata su un fianco.

La Thunder è stata intenzionalmente “affondata” e i segnali sono apparsi subito chiari. Per quattro mesi difilati (un vero record per queste operazioni), la Bob Barker ha inseguito e contrastato la sua attività illegale e ora si procede al recupero di settantadue chilometri fra reti e altro materiale per la pesca di frodo che saranno consegnati, personale compreso, alle autorità portuali competenti di Port Luis, a Mauritius.

Diario di bordo, 13 febbraio 2015: mentre Interpol, guardia costiera di Nuova Zelanda e Australia sembrano prendersela comoda, la nave conservazionista Sam Simon ha intercettato a sud delle acque australiane, i due battelli Yongding e Kunlun, dediti alle attività di frodo, ambedue nel mirino dell’operazione Icefish, per la campagna di Sea Shepherd in Difesa dell’Oceano del Sud.

E’ la prima volta che ci si pone l’obiettivo d’entrare direttamente “in campo”, contrastando chi, con attività fuorilegge, saccheggia gli oceani, depaupera i fondali, cattura quintali di pesci causando danni incalcolabili all’ecosistema marino e al mondo intero. La pesca intensiva (e illegale) ai danni del merluzzo dell’Antartide (Dissosthicus Eleginoides Norman), per esempio, è fra gli obiettivi.

Durante un inseguimento serrato, la Sam Simon è costretta a difendersi dalle azioni aggressive della bracconiera Kunlun, che tenta una possibile fuga attraverso banchi di ghiaccio alla deriva, approcciando azzardate condotte intimidatorie da breve distanza (10 metri). Nonostante ciò, la nave di Sea Shepherd riesce ad allontanare i contrabbandieri dai “territori di caccia”, vale a dire la Zona Economica Esclusiva dell’Australia, pressappoco a 2500 miglia nautiche a sud ovest, in pieno Oceano Antartico; ma gli attacchi intenzionali della Kunlun creano una situazione al limite della collisione. Le due navi sembrano destreggiarsi in piena guerra di nervi, con gli ufficiali della bracconiera nascosti dietro spessi tendoni. Perché, come dice Sid Chakravarty, capitano della Sam Simon, sono spesso i prepotenti i più grandi codardi, e anche la Kunlun non fa eccezione a questa regola.

In questo parapiglia, la seconda nave bracconiera Yongding, è riuscita a defilarsi ed è stata avvistata dalla Sam Simon, l’ultima volta, virare a est. La bandiera nera di Sea Shepherd che riporta l’antica suggestione piratesca, il Jolly Roger e lo stemma di Nettuno, quando appare all’orizzonte, fa certo più paura dell’inerzia del governo australiano, che resta nel suo imbarazzante silenzio, mentre navi bracconiere segnalate sulla black list della Commissione della Conservazione per le risorse biologiche dell’Antartico (CCAMLR), scorrazzano liberamente in acque territoriali.

“Non sono quello che viene definito un uomo civile, professore. Ho rotto con la società per ragioni che mi sembravano buone” - Capitan Nemo (di Jules Verne).

Scrive il Capitano Paul Watson, leader di Sea Shepherd: “Dannazione, miei cari, siamo pirati! Ci vuole un pirata per fermare un altro pirata, ed è per questo motivo che la bandiera di Sea Shepherd Conservation Society ha il Jolly Roger…E’ per il fatto di essere stati chiamati pirati che ho utilizzato il Jolly Roger come simbolo, adattandolo per riflettere su ciò che rappresentiamo, con il bastone del pastore incrociato al tridente del Nettuno che simboleggia la protezione degli esseri viventi negli oceani e la nostra determinazione a lottare per il loro diritto di sopravvivere, di essere liberi e restare in mare.

Il teschio riflette la morte che l’umanità porta all’oceano, mentre la balena e il delfino che formano lo yin e lo yang, il desiderio di ristabilire un equilibrio nei nostri mari, ripristinare la grazia del delfino e la saggezza della balena…”.

Doveroso, a questo punto, presentare la flotta di Nettuno: la Steve Irwin si distinse in difesa dei cetacei nell’operazione Migaloo (2007/2008), osteggiando efficacemente l’annosa caccia alle balene nel Santuario dell’Antartico. Il suo nome è in onore al naturalista australiano prematuramente scomparso nel 2006, Stephen Robert Irwin, un personaggio televisivo, divulgatore scientifico e documentarista (chi non ricorda The Crocodile Hunter?). La Steve Irwin può contare su un elicottero, altre piccole imbarcazioni e su un equipaggio di oltre sessanta volontari, provenienti da ogni parte del mondo.

Grazie a un cospicuo lascito dell’icona televisiva statunitense, Bob Barker, un’ex baleniera è acquistata, rimessa a nuovo con un sofisticato sistema antighiaccio e, quasi in sordina, il 18 dicembre 2009, parte alla volta dell’arcipelago Mauritius per unirsi alla Steve Irwin, all’Ady Gil ed entrare nella flotta Sea Shepherd che staziona in Oceano Indiano. Questa ex baleniera è la Bob Barker, il terrore dei cacciatori di frodo, una nave eccezionale come gli equipaggi che si sono susseguiti. Nelle sue irruzioni, la Bob Barker è spesso assistita dalla Sam Simon, altra storica “griffe”, che, in origine, era una nave meteorologica di proprietà del governo giapponese.

Le imprese dell’intercettore Brigitte Bardot, ex Gojira (Godzilla), sono legate a uno spassoso aneddoto: tra gennaio e febbraio, questa inesorabile imbarcazione di supporto è riuscita, da sola, “a far fuori” l’intera flotta di baleniere giapponesi, distogliendole dal Santuario nel Pacifico. Sentire i media nipponici asserire che un’intera flotta è stata battuta da Godzilla, è stato a dir poco esilarante…tant’è che una schiera di avvocati ha intimato Sea Shepherd di cambiargli nome. Presto fatto, il capitano Paul Watson, allora, decide d’intitolare lo spietato intercettatore a un’indimenticabile sex symbol, l’attrice francese Brigitte Bardot, lei che da anni, sostiene Sea Shepherd Conservatory Society, nella campagna che si oppone al massacro dei globicefali, nelle Isole Danesi delle Fær Øer.

Nella flotta di Nettuno, la Steve Irwin, la Bob Barker, la Sim Simon e la Brigitte Bardot, fanno la parte del leone, pronte in qualsiasi momento, anche in condizioni meteorologiche avverse, a far rotta verso gli oceani e intervenire per ogni crimine che si perpetua contro di esso. In questa speciale “armata”, alla salvezza delle creature marine, molte gloriose navi hanno partecipato e altre ne faranno parte.
Coordinate fra loro, equipaggiate di tutto punto, guidate da personale di bordo che non ha soltanto professionalità da vendere ma coraggio e passione nell’assolvere un compito che sente profondamente, i volontari, provenienti da esperienze e contesti spesso diversissimi, si elevano a veri eroi contemporanei, pur non abusando impropriamente di questa retorica.

In linea con una visione di geostrategia globale, le ultime azioni Sea Shepherd sono attive nei luoghi più disparati del pianeta. Si va dalle nuove reclute donate alla locale gendarmeria ambientale dell’Ecuador (designate come unità K9), ovvero i cani – fauna dell’operazione Galapagos, che riconoscono ogni traccia d’animale selvatico (pinne di quali, per quell’agghiacciante pratica di shark finning, oppure iguane, tartarughe, le preziose oloturie o “cetrioli di mare”) e tutto ciò che concerne il traffico illegale fuori dalle isole più eco protette delle Americhe, ma non esenti da criminalità ambientale. Tale criminalità sembra non voler escludere nessuna area terrestre, soprattutto le più povere e vulnerabili; un problema, quest’ultimo, di gravità crescente.

L’operazione Milagro prevede, invece, uno staff di consulenti che lavora insieme alla comunità australiana per porre fine allo scriteriato abbattimento dei grandi squali oceanici, tentativo maldestro che non servirà a tutelare i bagnanti sulle spiagge (esistono misure non letali atte a proteggerli), ma solo a impoverire la biodiversità e l’eco-sistema marino.

E ancora, l’operazione Pacuare, per recuperare la nidificazione delle tartarughe verdi, embricate e liuto, in via d’estinzione. Pacuare è un’isola al largo del Costa Rica e conta circa duecento residenti. Una fonte alternativa di reddito è rappresentata dall’eco-turismo. Tuttavia, la disperazione economica spinge la gente del luogo a distruggere invece che proteggere, esportando illegalmente le uova di tartaruga verso i mercati esteri. Anche in questo caso, si agisce a livello culturale, far capire che una tartaruga  marina rappresenta l’emblema della bellezza naturale e della fauna, come pure una grande opportunità di reddito, un bene - rifugio per le specie umana, che queste creature gentili valgono molto più da vive che da morte.

Sulla spiaggia di Moìn, epicentro nel traffico di stupefacenti, sosta perentoriamente una nave Sea Shepherd, la Jairo Mora Sandoval, nome dell’ambientalista assassinato nel maggio scorso dai bracconieri, qui, in Costa Rica. Il modo migliore per onorare la sua memoria è, appunto, portare avanti ad ogni costo, il suo mandato. Se nella salvaguardia dell’ambiente non esiste una priorità, poiché tutto è prioritario, le operazioni Grindstop, Relentless e Infinite Patience sono fra le più ostiche e clamorose degli ultimi anni.

L’operazione Grindstop si muove in difesa dei globicefali insensatamente massacrati nelle isole Fær Øer, baluardo artico della Danimarca, immerse nell'Oceano Atlantico, note come le “Taiji del Nord”. Dal lontano 1980 Sea Shepherd Conservation Society si oppone con ogni mezzo, alla ferocia di questa pleonastica mattanza perpetrata nell’evoluta, emancipata Europa. E quest’anno, centinaia di volontari sono sbarcati sulle isole feroci, con un pattugliamento che si allarga ad ampio raggio, in terra, mare e aria; arrivano perfino a un corpo a corpo, entrano in acqua disponendosi direttamente tra branchi di cetacei e i loro massacratori. E finiscono malmenati e ammanettati…mentre si levano urla strazianti e l’oceano si tinge di sangue.

L’operazione Relentless, cinclusa il 5 gennaio scorso, impone un trattato di pace per le balene, finalmente libere dalla caccia e di sopravvivere nei loro Santuari. Grazie a Sea Shepherd, la nave bracconiera giapponese Nisshin Maru torna indietro a mani vuote, degno finale di una stagione disastrosa. I cetacei dell’Antartide (circa 4.500), sono salvi! Prima d’iniziare questa campagna, “abbiamo fatto una promessa ai nostri clienti, le balene e a tutti i nostri sostenitori nel mondo, sputare fuori questi bracconieri dalle acque protette. Abbiamo mantenuto la promessa. Noi siamo implacabili.”

Per l’incredibile numero di sei mesi, ogni anno, dal primo settembre fino a marzo, in una baia nascosta e poco profonda, un luogo divenuto tristemente famoso, un gruppo di cacciatori assedia e cattura intere famiglie di delfini selvatici, fra cui anche il raro delfino albino (come non ricordare la sorte del piccolo Angel?).

Il fine è soddisfare la richiesta internazionale di delfini, destinati in cattività ai delfinari e acquari dislocati in varie parti del mondo. Alcuni sono presi prigionieri, il restante è massacrato con una tecnica di caccia nota come “enervazione”, che lascia i delfini agonizzanti e ancora coscienti, praticamente paralizzati, annegare nel sangue dei propri familiari.

“Segui il ritmo della natura: il suo segreto è la pazienza…” (Ralph Waldo Emerson) e l’operazione Infinite Patience richiede tempo.

Nella baia di Taiji, “The Cove” (come titola l’eco film diretto da Louie Psihoyos, che ha mostrato al mondo intero l’orrore delle stragi, la sofferenza di questi meravigliosi animali e nondimeno, la stupidità umana), nessuno si fermerà finché non si fermerà il massacro. Eppure l’infinita pazienza comincia a dare i suoi frutti: è notizia di poche settimane fa, che l’Associazione Giapponese di zoo e acquari - JAZA - non acquisterà più i delfini sopravvissuti alle stragi di Taiji, seguendo la scelta dell’Associazione Mondiale – WAZA - che già aveva deciso una delibera in questo senso.

Grazie a Sea Shepherd che spinge verso un’imponente sensibilizzazione, JAZA si ritira e prende una decisione “storica”. Non sappiamo ancora se le intenzioni sono tali da porre fine al massacro, è certo che il mercato dei delfini subirà un duro colpo e le catture esistono perché muovono soldi. Se s’interrompe questo circolo vizioso (la domanda), cessa anche l’offerta (la cattura).
Taiji resterà sotto i riflettori internazionali finché non sarà risparmiato anche l’ultimo delfino.



di Tania Careddu

Esiste una legge, il DPR 396/2000, che permette di mettere al mondo un figlio in completo anonimato. Senza nessun obbligo di riconoscerlo. Che rappresenta una garanzia per la salute di tutti e due. E che regolamenta un fenomeno ancora frequente ma sommerso. Per quanto se ne sa, secondo quanto si legge nel progetto "Ninna ho".

Dati sul fenomeno dei bambini non riconosciuti alla nascita, a tutela dell’infanzia abbandonata, in un anno di osservazione, fra luglio del 2013 e giugno del 2014, i neonati non riconosciuti sono stati cinquantasei su un totale di poco più di ottantamila bambini, con un’incidenza, quindi, dell’0,07 per cento sul totale di neonati nati vivi.

Ventisei nell’Italia centrale, venticinque in quella settentrionale e cinque al Sud. Sono giovani con un’età che varia dai diciotto ai trent’anni, disoccupate, con una scolarità medio-bassa e nubili - sporadiche le informazioni sui padri che nel 3,6 per dei casi sono in carcere o hanno lasciato la donna durante la gravidanza oppure sono disoccupati. E’ l’identikit delle donne coinvolte nel non riconoscimento materno che riguarda soprattutto le immigrate, nel 62,5 per cento delle situazioni: dell’Est Europa, africane, del continente asiatico, del centro Europa, sudamericane e nordamericane.

Nella maggior parte dei casi hanno fissa dimora ma hanno partorito in una città diversa da quella di origine. Arrivate, quasi sempre, in ospedale da sole o, alla meglio, con un’altra donna o un parente, sono soprattutto donne primipare. Fa pensare, piuttosto, che il 7,1 per cento abbia altri figli in affido o in adozione. Perché?

Le donne intervistate nei settanta centri nascita italiani si trovano in uno stato di disagio economico e sociale, hanno paura di perdere il lavoro, di essere espulse, di dover crescere un figlio in solitudine in un Paese straniero. Mettici la coercizione, la violenza, la giovane età, di fondo, in tutti i casi, c’è una carenza psichica. Ma evitare gli abbandoni in condizioni di rischio si può. In primis, attraverso la divulgazione di informazioni più capillari sulla contraccezione. E poi, con un supporto alla genitorialità, un’assistenza materiale, sociale, morale ma soprattutto psicologica (con adeguate psicoterapie, ndr).

Con la creazione di strutture di accoglienza madre-bambino che possano mettere le donne in condizioni di prendersi cura del neonato e di reti di sostegno più resistenti, capaci di indirizzare le donne verso enti pubblici e privati che forniscano consulenza. E si prendano in carico “la madre per cercare di risolvere tutti i problemi che la costringono a non riconoscere il figlio, evitando intoppi burocratici, conflitti di competenze, perdite di tempo”. Parola dei neonatologi della Società Italiana di Neonatologia, che ha patrocinato il progetto, insieme al ministero della Salute.

Serve, però, un cambiamento culturale. Un atteggiamento più accogliente e meno giudicante. Che favorirebbe una maggiore libertà di chiedere aiuto senza paura. Quella di doversi rapportare a una nascita che non riescono a sostenere.

di Tania Careddu

Orgoglio nazionale. Identità. Cultura. Passione. E’ l’enogastronomia per gli italiani. Fatta di quotidianità, minuzia, preparazione. Tipicità come garanzia di qualità e sicurezza. Certezza delle radici unita alla voglia di sperimentare, che smussa l’autarchia gastronomica localistica. Così gli italiani si rapportano al cibo: trentotto milioni e mezzo preparano pietanze e ricette innovative apprese da programmi televisivi, ventinove milioni mangiano piatti tipici di altri Paesi europei, vedi paella, crepes e gazpacho, e oltre venticinque milioni assaporano piatti etnici, tipo guacamole e cous cous.

Bandita l’ortodossia alimentare, via libera alla combinazione soggettiva di stili alimentari diversi. Nel Paese della dieta mediterranea, vince l’estrema articolazione delle idee e la praticità in una logica combinatoria all’insegna del ‘politeismo alimentare’.

Oltre venti milioni di connazionali mangiano anche nei fast food e quasi tre milioni lo fanno regolarmente; prodotti congelati convivono con quelli locali e di sicura provenienza: circa trentacinque milioni di noi comprano cibi surgelati e quasi venticinque mettono in freezer pietanze preparate prima. Inutile dire che la trasparenza e la certificazione siano al cuore delle scelte alimentari degli abitanti del Belpaese.

Qualità, sicurezza e salubrità del cibo non possono essere boicottate dalla ricerca di prezzi convenienti. Cosicché nella scelta di un prodotto, l’87,6 per cento guarda il radicamento territoriale dell’alimento, l’86,3 per cento la certificazione DOC, DOP e DOCG, il 59 per cento la marca. Anche perché, secondo quanto si legge nella ricerca del Censis Gli italiani e il cibo. Rapporto su un’eccellenza da condividere, per il 27,9 per cento il rapporto con il cibo deve essere salutare, rappresentando un modo di prendersi cura della propria persona, per il 17,9 per cento è un motivo di orgoglio oltreché un fattore identitario, per il 26,7 per cento è divertente per la caratteristica di convivialità.

Che sia dentro o fuori le mura domestiche. Per il 39,4 per cento degli italiani, la scelta di un locale in cui mangiare non può prescindere dalla ricerca di un luogo tranquillo in cui stare bene con i propri commensali: sono trentasei e rotti milioni quelli a cui capita di mangiare fuori casa, poco più di dieci milioni lo fanno per svagarsi e non cucinare, quasi sette milioni per sperimentare pietanze nuove, di cucine etniche e di tradizioni diverse. Per il fatto che quasi venticinque milioni si definiscono appassionati di cibo, dodici milioni e più intenditori, quattro milioni addirittura esperti.

E però anche l’enogastronomia ha risentito della crisi: due milioni e quattrocento mila famiglie, pari al 9,2 per cento del totale, non hanno avuto i soldi sufficienti per comprare il cibo necessario. Un milione in più rispetto al 2007, con l’84,8 per cento in più.

E se in famiglia ci sono dei figli, il disagio alimentare si amplia: il 12,2 per cento delle famiglie con bambini non ha potuto acquistare, nell’ultimo anno, gli alimenti necessari. Soprattutto in Puglia, Campania e Sicilia.

Unione e relazione si, ma il cibo è anche disuguaglianza sociale. Tant’è che le famiglie con capofamiglia operaio hanno registrato una riduzione della spesa alimentare del 17 per cento circa mentre quelle di dirigenti e impiegati del 9,7 per cento. Una dinamica di erosione della coesione sociale che non ha risparmiato neppure il rapporto con il cibo.


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