di Sara Michelucci

Una rinascita attraverso la fotografia. Un viaggio dall’Italia a Capo Nord quello che il fotografo italiano, Matteo Di Giovanni, racchiude nel progetto ‘Reaching the Cape’. Nell’estate 2011, Matteo è in Bosnia Erzegovina per lavorare a un progetto fotografico che gli permetterà di concludere il Master in Fotogiornalismo presso la University of Westminster di Londra. È vittima, però, di un grave incidente che si conclude con l’amputazione transfemorale di una gamba. Ma ricomincia a vivere.

La fotografia è la sua vera vocazione e si rimette in gioco proiettandosi verso questa avventura on the road, per dimostrare come le nuove biotecnologie possano cambiare le prospettive di una persona con una disabilità. Che non impedisce però di far nascere progetti.

“Viene fuori da un momento particolare - racconta Matteo - quando a novembre dello scorso anno ho avuto un problema ‘tecnico’ alla protesi, unito a una problematica burocratica con la Asl che mi ha costretto a stare un mese a casa senza potermi muovere”.

Che non appena in grado di ripartire lo fa per terre lontane e affascinanti, benché fredde.
“A parte il fatto che odio il caldo - continua il fotografo - e sono attratto dai Paesi del nord anche per gli aspetti ‘mitologici e mitici’ che aleggiano in questi territori, c’è anche una ‘questione tecnica’ in tale scelta. La mia protesi, altamente performante dal punto di vista tecnico, grazie all’elettronica consente la stabilità, ma allo stesso tempo resiste a temperature di diverso tipo e all'acqua. Questo mi permette di affrontare un viaggio così complesso anche dal punto di vista climatico”.

Il progetto è sostenuto da una campagna di Crowdfunding su Kickstarter, che durerà fino al 30 settembre. “Essendo un viaggio fotografico, ma anche una storia di vita, la volontà è quella di creare intorno a questo progetto una comunità di persone che direttamente o indirettamente lo appoggiano e lo vedono svilupparsi dall'inizio alla fine. Chiunque ha sostenuto il progetto potrà assistere alla sua creazione e trasformazione. Inoltre, il sistema del Crowdfunding è una sorta di annuncio al mondo in cui ti prendi la responsabilità di fare qualcosa. Non è un caso che tutti i partner che hanno preso parte al progetto hanno sostenuto soprattutto un’idea che poi si svilupperà in qualcosa di concreto”.

Un "on the road" che durerà due mesi, tra paesaggi estremamente differenti, dove si mischia l’evoluzione nel campo delle protesi, che permettono a Matteo di muoversi al meglio, con quella fotografia analogica con cui il fotografo lavora principalmente, fatta di pellicole, chimica e attesa. “Caratteristiche che forzano a rallentare il ritmo e a concentrarsi maggiormente su ciò che si vuole. Proprio come il processo di creazione e di adattamento del corpo a una protesi. La fotografia analogica è un linguaggio che uso con piacere, perché ha delle fasi ben definite. Questo ti permette di controllare al meglio tutti i passaggi, dallo scatto alla stampa. Ovviamente il digitale verrà utilizzato nella fase di backstage dalla persona che condividerà con me questa avventura”, racconta ancora Matteo, che sarà accompagnato dall’amico fotografo e videomaker Lucas Pernin, il quale documenterà il viaggio in tutti i suoi aspetti.

Verranno utilizzate macchine fotografiche modulabili, protesi realizzate ad hoc, pellicole, stampa artigianale, comunicazione digitale per la diffusione globale. Insomma elementi diversi che si mixeranno in un unico contesto, dove l’elemento preponderante è quello della rinascita e della riappropriazione di se stessi, della propria vita, ma soprattutto delle proprie passioni.

C’è tanto di personale, quindi, in questo lavoro. Una sorta di metafora anche dello stato di coma che Matteo ha vissuto dopo l’incidente, dove ci si addentra in territori sconosciuti, per poi tornare a luoghi familiari e, quindi, alla vita. Il tutto fatto da una serie di ritratti, paesaggi e interni.

“Questo viaggio - racconta ancora Matteo - è la metafora di un percorso che ho fatto su di me. Un percorso in cui tante sono state le incertezze e i punti interrogativi. Andare in questi luoghi rappresenta una riconquista dello spazio e del movimento, che sono le cose fondamentali. Anche a livello fotografico saranno molto presenti. Quello che mi è successo mi ha portato a rivalutare una serie di cose e a vivere con prospettive differenti. L’obiettivo è quello di realizzare un viaggio fotografico, per dimostrare come passione e motivazione possono cambiare lo sguardo e aprire nuovi scenari e possibilità”.



di Tania Careddu

“Persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti dell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio Paese o oltrepassando i confini nazionali”. Definizione dell’Organismo Internazionale per le Migrazioni, per indicare i cosiddetti profughi climatici. Sempre più numerosi.

Solo nel 2014, secondo quanto si legge nel Rapporto sulla protezione internazionale 2015, stilato da Migrantes, sono stati ventidue milioni e quattrocento mila. Tre volte i profughi di guerra. Di pari passo con l’aumento del numero dei disastri ambientali: da vent’anni a questa parte, è raddoppiato, passando da circa duecento a oltre quattrocento. Scappano, soprattutto, dall’Asia, in particolare dalle Filippine, dalla Cina, dall’India, dall’Indonesia, e dagli Stati Uniti.

La difficoltà di accogliere i rifugiati di guerra è arcinota ma si aggrava nel caso dei profughi ambientali. Giacché, a livello normativo, sia in ambito internazionale sia in quello nazionale, non esiste una definizione univoca. L’OIM ne individua tre: coloro che migrano temporaneamente a causa di un disastro ambientale come tsunami, terremoto, uragano; quelli costretti a partire a causa del deterioramento delle condizioni ambientali, quali deforestazione o salinizzazione delle acque dolci; chi sceglie di migrare in risposta a problemi che si vanno intensificando, ovvero in conseguenza, per esempio, della diminuzione della produttività agricola causata dalla desertificazione.

Il Parlamento europeo, invece, ne riconosce due, per tenere distinte le forme legate ad eventi improvvisi e quelle permanenti, dovute a catastrofi di lunga durata, ritenendo necessari interventi di protezione diversi. Per cui, il diritto di rifugiati climatici a una protezione internazionale rischia di non essere (sempre e chiaramente) riconosciuto: appare complicato determinare il nesso di causalità esistente tra il cambiamento climatico e le migrazioni.

Perché? Per l’ottusità di pensare che la mobilità geografica rappresenti solo una delle possibili strategie di adattamento. O perché, secondo quanto si ritrova nel Manuale sulle procedure e i criteri per la determinazione dello status di rifugiati, redatto dall’UNHCR nel 1992, il nesso tra fuga e persecuzione è giustificato solo dall’incapacità dello Stato di intervenire a tutelare o garantire un ambiente dignitoso nel quale poter vivere.

Eppure, sebbene molte evidenze empiriche porterebbero a favorire il riconoscimento della categoria dei rifugiati per ragioni ambientali, la messa a punto di una struttura normativa di riferimento stenta a decollare. Se ne trova traccia (embrionale) nell’ordinamento degli Usa, di Svezia e di Finlandia.

Nel nostro, all’articolo 20 del Testo unico sull’immigrazione, è presente una disposizione. Titolo: Misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali. Da applicarsi in occasione di “conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione europea”. Nonostante il riferimento sia esplicito, la protezione di questa tipologia di rifugiati è discutibile sul piano della solidità e della ripetitività delle procedure.

Ci piace pensare che il vuoto legislativo sia da attribuirsi alla relativa novità del problema e alla sua sostanzialità. Troppo ampia e articolata per essere ristretta dentro un quadro giuridico esistente.

di Tania Careddu

Nel 2008, all’epoca della Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, erano millecinquecento. Al 31 marzo 2015, data di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, erano seicentottantanove. A oggi sono duecentoventisei i pazienti ricoverati negli OPG, dei quali il 60 per cento circa sarebbe dimissibile dal punto di vista clinico, quindi affidabile immediatamente a strutture territoriali di novero psichiatrico diverse dalle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Nelle quali, invece, risiedono quattrocentotre persone in cura psichiatrica.

Gestite dai Dipartimenti di salute mentale, le REMS, che hanno il duplice scopo di garantire le misure di sicurezza per i pazienti e l’attivazione di percorsi terapeutici riabilitativi, sono sedici.

Ma la loro recettività, secondo quanto si legge nell’ultima audizione al Senato per l’acquisizione di elementi informativi in merito all’attuazione della normativa per il superamento degli OPG, è alquanto carente. Sia per la tardiva implementazione del dettato normativo da parte di alcune regioni, sia, allo scopo di evitare spostamenti massivi per evitare effetti deleteri sui pazienti, per la modalità graduale e prudente, attuata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, della traduzione dei pazienti dagli ospedali psichiatrici alle residenze.

Vuoi perché la mancanza di un’adeguata rete territoriale di strutture non rende agevole il rispetto delle disposizioni legislative, soprattutto quelle relative al principio di territorialità - ossia, privilegiando REMS ubicate nelle zone in cui ogni paziente ha le sue radici - che agevolerebbe il percorso terapeutico e la definitiva dimissione. Vuoi per il limite di venti posti in ogni singola residenza che, va da sé, porta a una rapida saturazione dei letti disponibili.

Eppure, si potrebbe ipotizzare anche per le REMS, la dimissibilità di circa un terzo dei ricoverati. E se i problemi di accoglienza fossero, pure, legati alla numerosità di nuovi ingressi di soggetti sottoposti a misure di sicurezza provvisoria? Oppure: le problematiche riscontrate in sede attuativa discendono dalla mancata erogazione dei necessari finanziamenti e dalle difficoltà di relazione con la magistratura?

Dal Comitato stopOPG colgono l’occasione per ribadire l’insensatezza delle residenze come risposta alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il vero superamento, dicono, sarebbe destinare le risorse finanziarie, economiche, strutturali e di personale a favore di servizi socio-sanitari di salute mentale per misure di sicurezza non detentive.

In effetti, l’internamento non dovrebbe essere l’extrema ratio? Non sarebbe, piuttosto, auspicabile mettere mano a un progetto organico di prevenzione così da contribuire alla diminuzione degli ingressi nelle residenze?

Che, invece, a quanto se ne sa, potrebbero essere potenziate a breve con l’apertura di altre cinque strutture nel Lazio, in Piemonte, in Puglia, in Campania e in Toscana. Una speranza: che non si corra il rischio di una strumentalizzazione del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari da parte delle organizzazioni di stampo criminale.

di Tania Careddu

Che cosa succede quando i migranti sbarcano sulle coste italiane è cronaca nota: è emergenza. Che cosa accada a loro, invece, quando si inseriscono nel tessuto sociale è meno conosciuto. E’ frutto dell’incapacità di mettere in atto politiche che vadano oltre la prima fase di gestione e assistenza. A prova del fatto che l’emergenza sbarchi sia solo un aspetto della questione immigrazione, basta contare i permessi di soggiorno, considerato che la sfida più grande, in termini di integrazione, sono i cittadini non comunitari.

Dal 2002 a oggi, la percentuale di stranieri residenti in Italia è quadruplicata. Stando ai dati riportati nel Rapporto Immigrazione, il giorno dopo, redatto da Openpolis, il 56,25 per cento dei permessi attivi nel 2014 erano di lungo periodo, 43,75 per cento con scadenza; quelli rilasciati per motivi umanitari sono stati, nel 2013, meno del 10 per cento, a fronte del 33 per cento per motivi lavorativi e del 41 per cento per ricongiungimenti familiari o matrimonio. In calo: dal 2008 al 2012, i matrimoni misti (con almeno uno straniero) sono diminuiti del 15 per cento.

Marocchini, albanesi e cinesi, i maggiori beneficiari, tanto che i tre Paesi messi insieme totalizzano il 34,79 per cento dei permessi attivi nell’anno scorso. Un permesso di soggiorno su quattro è stato rilasciato dalla Lombardia, seguita dall’Emilia Romagna, dal Veneto e dal Lazio, collezionando unitamente il 50 per cento dei permessi erogati nel 2014. E così, dodici residenti su cento sono stranieri in Emilia Romagna, circa undici in Lombardia e Umbria.

In coda, le regioni del sud Italia, con percentuali a una cifra di residenti stranieri. E pesano. Non come zavorra ma come forza lavoro, il cui tasso percentuale, in un decennio, è aumentato del 146 per cento; quello occupazionale, pari al 57,6 per cento e superiore a quello dei locali, è in linea con la media dei Paesi dell’Europa, in cui, dal 2006 a oggi, è però diminuito dell’8,21 per cento.

Ma per definirli realmente integrati a livello professionale non basta valutare il tasso di occupazione. Bisogna, piuttosto, considerare il livello retributivo: solo lo 0,06 per cento dei cittadini extra-Ue guadagna più di duemila euro al mese contro l’8,3 per cento degli italiani, e l’80 per cento un massimo di milleduecento euro.

Ed è per questo, e non solo, che il rischio povertà è molto più alto tra di loro che tra i locali: in Italia, c’è una differenza di diciassette punti percentuali, in linea con la media europea, eccezion fatta per la Slovacchia e la Polonia, dove la situazione è inversa. Di più: per il 35 per cento dei Paesi Ue-28, il tasso percentuale di stranieri esposti al rischio di esclusione sociale è diminuito. Non dicasi lo stesso per il Belpaese, dove il peggioramento è calcolato doppio rispetto alla media continentale.

Questo anche perché si nota un divario di competenze: la percentuale di stranieri con laurea in Italia è la più bassa in Europa (la media Ue è quasi tre volte superiore al dato italiano). A conferma del ruolo chiave dell’educazione scolastica, soprattutto universitaria, nel processo di integrazione.

di Tania Careddu

Educativa ed economica: due povertà che si alimentano reciprocamente. Carenza di risorse economiche, uguale a disuguaglianze di opportunità educative. Va da sé (o quasi) che bambini nati in contesti socio-economici disagiati possano essere vittime di povertà cognitiva. E così un terzo dei minori di quindici anni che vive in famiglie con un basso livello socio-economico non raggiunge le competenze minime in matematica e lettura, rispetto a meno del 10 per cento dei coetanei cresciuti in contesti famigliari con uno status socio-economico più elevato.

Che, odioso a dirsi, fa la differenza anche sulle possibilità di fruire di diversi stimoli ricreativi e culturali. Perché, essere poveri in Italia significa, anche, non avere l’opportunità di diventare grandi attraverso lo sport, il contatto con la bellezza e la cultura: il 64 per cento dei bambini è in condizioni di deprivazione ricreativo-culturale.

Più al Sud e nelle Isole, le regioni d’Europa con le più alte percentuali in termini di abbandono di chicchessia percorso formativo. Il 15 per cento dei ragazzi italiani tra i diciotto e i ventiquattro anni non consegue il diploma di scuola superiore. E, le differenze a livello territoriale, a parità di reddito dei genitori, testimoniano come la scuola e altri interventi educativi compensino gli effetti negativi sulle competenze cognitive.

Così un minore che vive in Calabria, Sicilia, Campania, Sardegna, Basilicata e Molise ha il triplo di probabilità di non raggiungere le competenze di base in matematica rispetto, per esempio, a un coetaneo della Provincia Autonoma di Trento. Che, insieme al Veneto, al Friuli Venezia Giulia, al Piemonte e alla Valle d’Aosta, misura valori percentuali sotto il 15 per cento relativamente agli adolescenti che non raggiungono le conoscenze minime. A testimonianza del fatto che l’offerta educativa (che sopperisce alla penuria originaria) deve essere di qualità. Già dai servizi educativi per la prima infanzia: possono contribuire a dare uguali opportunità a bambini nati in contesti svantaggiati.

Perché “la povertà educativa non può essere un destino ineluttabile e non è accettabile che il futuro dei ragazzi sia determinato dalla loro provenienza sociale, geografica o di genere”, sottolinea Raffaela Milano, direttore Programmi Italia-Europa Save the Children, in occasione della presentazione del Rapporto "Illuminiamo il futuro".

Cosa fare per ridurre le distanze? La Milano sostiene che “le enormi diseguaglianze che oggi colpiscono i bambini e i ragazzi in Italia vanno superate attivando subito un piano di contrasto alla povertà minorile e potenziando l’offerta di servizi educativi di qualità: i dati ci dimostrano che i servizi per la prima infanzia, le scuole attrezzate, le attività ricreative e culturali possono spezzare le catene intergenerazionali della povertà”.

“I dati che emergono dalle nostre elaborazioni rivelano un fenomeno allarmante: in Italia, una parte troppo ampia degli adolescenti è priva di quelle competenze necessarie per crescere e farsi strada nella vita”, sottolinea Valerio Neri, direttore generale di Save the Children. Che aggiunge: “La povertà educativa risulta più intensa nelle fasce di popolazione più disagiate - non dimentichiamo che in Italia più di un minore su dieci vive in condizioni di povertà estrema - e aggrava e consolida, come in un circolo vizioso, le condizioni di svantaggio e di impoverimento già presenti nel nucleo familiare”. Perché essere poveri da piccoli ha conseguenze più negative (e di lungo periodo) che diventarci da grandi.



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