di Tania Careddu

Che cosa succede quando i migranti sbarcano sulle coste italiane è cronaca nota: è emergenza. Che cosa accada a loro, invece, quando si inseriscono nel tessuto sociale è meno conosciuto. E’ frutto dell’incapacità di mettere in atto politiche che vadano oltre la prima fase di gestione e assistenza. A prova del fatto che l’emergenza sbarchi sia solo un aspetto della questione immigrazione, basta contare i permessi di soggiorno, considerato che la sfida più grande, in termini di integrazione, sono i cittadini non comunitari.

Dal 2002 a oggi, la percentuale di stranieri residenti in Italia è quadruplicata. Stando ai dati riportati nel Rapporto Immigrazione, il giorno dopo, redatto da Openpolis, il 56,25 per cento dei permessi attivi nel 2014 erano di lungo periodo, 43,75 per cento con scadenza; quelli rilasciati per motivi umanitari sono stati, nel 2013, meno del 10 per cento, a fronte del 33 per cento per motivi lavorativi e del 41 per cento per ricongiungimenti familiari o matrimonio. In calo: dal 2008 al 2012, i matrimoni misti (con almeno uno straniero) sono diminuiti del 15 per cento.

Marocchini, albanesi e cinesi, i maggiori beneficiari, tanto che i tre Paesi messi insieme totalizzano il 34,79 per cento dei permessi attivi nell’anno scorso. Un permesso di soggiorno su quattro è stato rilasciato dalla Lombardia, seguita dall’Emilia Romagna, dal Veneto e dal Lazio, collezionando unitamente il 50 per cento dei permessi erogati nel 2014. E così, dodici residenti su cento sono stranieri in Emilia Romagna, circa undici in Lombardia e Umbria.

In coda, le regioni del sud Italia, con percentuali a una cifra di residenti stranieri. E pesano. Non come zavorra ma come forza lavoro, il cui tasso percentuale, in un decennio, è aumentato del 146 per cento; quello occupazionale, pari al 57,6 per cento e superiore a quello dei locali, è in linea con la media dei Paesi dell’Europa, in cui, dal 2006 a oggi, è però diminuito dell’8,21 per cento.

Ma per definirli realmente integrati a livello professionale non basta valutare il tasso di occupazione. Bisogna, piuttosto, considerare il livello retributivo: solo lo 0,06 per cento dei cittadini extra-Ue guadagna più di duemila euro al mese contro l’8,3 per cento degli italiani, e l’80 per cento un massimo di milleduecento euro.

Ed è per questo, e non solo, che il rischio povertà è molto più alto tra di loro che tra i locali: in Italia, c’è una differenza di diciassette punti percentuali, in linea con la media europea, eccezion fatta per la Slovacchia e la Polonia, dove la situazione è inversa. Di più: per il 35 per cento dei Paesi Ue-28, il tasso percentuale di stranieri esposti al rischio di esclusione sociale è diminuito. Non dicasi lo stesso per il Belpaese, dove il peggioramento è calcolato doppio rispetto alla media continentale.

Questo anche perché si nota un divario di competenze: la percentuale di stranieri con laurea in Italia è la più bassa in Europa (la media Ue è quasi tre volte superiore al dato italiano). A conferma del ruolo chiave dell’educazione scolastica, soprattutto universitaria, nel processo di integrazione.

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