di Tania Careddu

“Le vostre trasmissioni televisive dove mescolate odio e boria a curcuma e latticello, e guadagnate milioni uccidendo la poesia della cucina, fatele voi”. A Nina, nomade ai fornelli, dalla fantasia circense, questa “sublimazione di qualche olimpiade del primeggiare” non le appartiene. Quel delirio di gente che vuole emergere “tra i fornelli a discapito dei sapori”. Il loro “non vedere le espressioni delle persone mentre mangiano. Il non poter scambiare con loro delle sensazioni”.

Usciti dalle “costosissime scuole per diventare chef depersonalizzati (…), in cui si insegnano cose antipatiche e fredde, prive di sentimenti: la besciamella si fa così; il roux si fa cosà; questo è un mazzetto guarnito; secondo l’Haccp siamo tutti sudici e inadeguati; in cucina vige una gerarchia; i baffi non li puoi portare, se sei uomo e a maggior ragione se sei donna; non puoi fischiare mentre cucini, tanto meno parlare”.

Ma figuriamoci se a Nina puoi dire di non avere uno stato d’animo mentre è “carnalmente assorbita da ogni esalazione, colore, intrigo gustativo”. La cucina deve essere “libera, non una galera”. Ma “vallo a spiegare all’Artusi, o all’Ada Boni”.

Se non fosse per l’aspetto grafico-editoriale, il libro d’esordio di Elena Chiattelli, Affocolento. Dissertazioni agrodolci di una cuoca ribelle (Ed. Ultra Novel), potrebbe essere un pamplhet. Pungente e ironico. Critico e irriverente. Polemico. Ma squisitamente umano. In barba a tutti quei rigidi “manuali di scuola di cucina, ai tomi di dotti gastronomi e ai ricettari di terzo millennio”.

Ma, soprattutto, contro quei cuochi, “brigata di uomini presuntuosi, covi di testosterone frustrato, massacratori di sapori e di linguaggi” che hanno perso “il senso del rapporto nell’arte del cucinare”.

Invece, la cucina è “scambio”, ci si trova “il luogo e il tempo per riconoscersi”, suggerisce “un pensiero di uguaglianza e di diversità al tempo stesso”. E’ un luogo, un tempo, appunto. Mai uguale. Mai fermo.

Piano piano. “Piano è il segreto, è il trucco, è il fuoco” sotto i fornelli. E nel cuore. A uno “stupido manipolo di maschi frustrati” che impiattano, frenetici, senza trasporto, Nina contrappone “secoli di emancipazione femminile in una lingua che è ormai un esperanto, che è quella del rifiuto e dell’ingiustizia”. La sua brigata è fatta di cuochi sentimentali. Di gente di cuore e di pancia. “Persone imperfette e capaci di emozionarsi”. Una brigata bilanciata, “dove gli uomini non sono maschi in un pollaio e nemmeno invidiosi e le donne non sono castratrici o isteriche”.

Irrazionale e appassionato, il libro di Elena Chiattelli, in arte Ninotcka, è un viaggio di formazione. Storie di: resistenza e ribellione, fra involtini di verza e di melanzane con pesce spada alla menta per signore borghesi; di condivisione e di accoglienza, fra i dolma borbottanti e il riso bruciacchiato che viene dall’Africa; di amore e di ricordi, solleticati dall’aroma delle erbe “che rimette al mondo”, dal profumo del ragù della nonna, cotto affocolento, e da quello del mare.

Che fa immaginare. Giacché ci sono “più ricordi in un tegame che in un diario di famiglia”. Perché in cucina, “l’ingrediente principale è la vita”. E dunque la fantasia. Istruzioni per l’uso: non leggere tutto d’un fiato. Da gustarsi con calma.

di Liliana Adamo

Per Sogin, azienda che si occupa di “decommissioning” per gli impianti atomici, la campagna on air (tv, web, radio e stampa), è partita da un pezzo, ma il processo entrerà nel vivo dell’interesse generale quando sarà pubblicata la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee ad accogliere il Deposito Nazionale per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi italiani. Il documento definitivo sarà divulgato attraverso il sito web www.depositonazionale.it, insieme a un Progetto Preliminare, una volta ottenuto il placet dai due Ministeri direttamente interessati, Sviluppo Economico e Ambiente.

Sulle reti televisive fino a novembre prossimo, incentrato su azioni quotidiane girate in slow motion, mentre una voce di fondo, recita “Sul problema dello smaltimento definitivo dei rifiuti radioattivi il nostro Paese non è andato lontano…”, lo spot è stato realizzato da Saatchi & Saatchi, con un “battage” che “veicolerà attraverso testi, materiale multimediale e altri canali d’interazione, lo sviluppo di questo percorso”. Costo? Ben 3,2 milioni di euro.

Il percorso integrato al Deposito Nazionale, sembra concentrarsi in un solo leitmotiv, la trasparenza. Di trasparenza la Sogin pare averne bisogno, e non per una mera questione di marketing. Per esempio, ad evitare uno Scanzano bis, quando, nel 2003, il comune lucano fu indicato come sito unico per la sistemazione di scorie nucleari a media e alta intensità. Salvo poi, sconfessare lo stesso decreto dell’allora Consiglio dei Ministri con un emendamento che sanciva, di fatto, come l’alta sismicità della zona, ponesse a rischio l’intero complesso.
Anche adesso, il progetto presenta le prime insidie: intanto, i ministeri interessati hanno smentito la scelta delle aree preposte che, secondo i media, sarebbe stata fissata per quest’agosto, facendo slittare l’approvazione della “mappa”, nel giugno 2016.

Va chiarito un dato imprescindibile: l’Italia, grazie a un referendum popolare, ha definitivamente chiuso col nucleare, ma le scorie prodotte da attività industriali e sanitarie, vale a dire, quelle di bassa e media radioattività, ci sono e vanno gestite in modo adeguato, “trasparente” per usare un sinonimico caro alla campagna Sogin. Non è lo stesso per i rifiuti nucleari ad alta radioattività, messi al bando sull’intero territorio del nostro Paese, neanche in situazioni “emergenziali” o “temporanee”. Da rimarcare, inoltre, che da allora, nulla è stato fatto, mentre il Deposito nucleare avrebbe dovuto esserci per legge, da almeno sette anni.

Strategicamente, il passo saliente di uno spot multimilionario pone l’accento su “un’ampia e approfondita consultazione pubblica” per “ripartire insieme, attraverso un percorso condiviso e partecipato”, chissà, con l’attesa di una qualche regione che si candidi, autonomamente a sede del Deposito, in virtù di possibili ricadute economiche e occupazionali.

Eppure, da qualche mese in Sardegna, regione ormai sconquassata da alcuni “interventi” fallimentari, si sono formati comitati cittadini sul piede di guerra annunciando le giornate “No Nuclear day”, e, in prospettiva, il fatto già la dice lunga.

Lo smaltimento del nucleare è una patata bollente, anzi, bollentissima, che si vorrebbe passare di mano in mano. Il gruppo Sogin insiste sull’esposizione di una presunta normalità delle radiazioni, citando un’enormità d’oggetti d’uso comune, ponendo l’accento su tutto ciò che è naturalmente radioattivo, asserendo che questa radioattività, una volta accertata, può essere isolata.

Ma nel corso degli anni, qualche volta, abbiamo visto come la radioattività sfugga al controllo, con esiti che neanche stiamo qui a ribadire. Sia si tratti di grandi centrali nucleari o dei più defilati centri di ricerca, in tutta questa sorta di rassicurazione generale, ci sono dati che non tornano.

Per quantità, i nostri rifiuti ammontano a 75 mila metri cubi di scorie a bassa e media radioattività e 15 mila ad alta radioattività; è comprensibile, quindi, una soluzione accettabile dal punto di vista sia ambientale sia economico. Ma non basta progettazione, realizzazione e gestione affidabili, parliamo di strutture che devono essere durevoli per centinaia di anni. Dunque, l’impegno diretto di un’entità nazionale con l’incarico di supervisore e un’autorità anticorruzione non sarebbero solo graditi ma fondamentali durante l’intero iter del processo.

Durante una conferenza stampa tenuta dai vertici della società, non si è parlato, ad esempio, delle oggettive difficoltà tecniche che ruotano intorno allo smantellamento risolutivo del reattore gas - grafite di Borgo Sabotino (nei pressi di Latina, prima centrale nucleare italiana, costruita dall’Eni), dove sono immagazzinate oltre duemila tonnellate di materiale ad alta radioattività. Sono questi, fra gli altri, che attendono la realizzazione di un sito unico, ma non quel Deposito cui si parla, bensì di un dock geologico definitivo, come appunto, indica, un recentissimo documento curato dal Governo Britannico sul tema, pubblicato su La Nuova Ecologia.

Attenzione: tale documento cita anche lo smantellamento di undici reattori gas - grafite inglesi - che sarà terminato nel 2115. No, non è un errore di stampa, si parla di cento anni, poiché bisogna attenderne la riduzione naturale di radioattività per poi passare al nucleo del reattore. La dimostrazione, per quel che concerne la corretta, esaustiva informazione energetica in Italia, che astenersi da inibizioni e riserbi potrebbe sì garantire quella “trasparenza” tanto auspicata sul piano marketing.

Sogin non creerà un Deposito geologico ma, secondo i loro parametri, una “struttura a rischio zero”, con barriere ingegneristiche e naturali costruite in serie, seguendo i più recenti standard posti dall’International Atomic Energy Agency per la definitiva sistemazione dei 75 mila metri cubi di bassa e media radioattività e lo stoccaggio limitato dei restanti 15 mila metri cubi ad alta radioattività.

In toto, il materiale proverrà dalle operazioni di smontaggio degli impianti dismessi sparsi sul nostro territorio e dalle attività nucleari, in campo medico, industriale, di ricerca, i quali, però, continueranno a produrne in futuro.

In più, come detto in precedenza, è stata indetta una gara rivolta ai vari Professionisti, per la realizzazione di un concept congiunto, un Parco Tecnologico che si troverà all’interno del Deposito Nazionale di scorie radioattive. Il costo parziale dell’opera, escluso il Polo Tecnologico, si aggirerebbe intorno ai 1,5 miliardi di euro.

di Sara Michelucci

Una rinascita attraverso la fotografia. Un viaggio dall’Italia a Capo Nord quello che il fotografo italiano, Matteo Di Giovanni, racchiude nel progetto ‘Reaching the Cape’. Nell’estate 2011, Matteo è in Bosnia Erzegovina per lavorare a un progetto fotografico che gli permetterà di concludere il Master in Fotogiornalismo presso la University of Westminster di Londra. È vittima, però, di un grave incidente che si conclude con l’amputazione transfemorale di una gamba. Ma ricomincia a vivere.

La fotografia è la sua vera vocazione e si rimette in gioco proiettandosi verso questa avventura on the road, per dimostrare come le nuove biotecnologie possano cambiare le prospettive di una persona con una disabilità. Che non impedisce però di far nascere progetti.

“Viene fuori da un momento particolare - racconta Matteo - quando a novembre dello scorso anno ho avuto un problema ‘tecnico’ alla protesi, unito a una problematica burocratica con la Asl che mi ha costretto a stare un mese a casa senza potermi muovere”.

Che non appena in grado di ripartire lo fa per terre lontane e affascinanti, benché fredde.
“A parte il fatto che odio il caldo - continua il fotografo - e sono attratto dai Paesi del nord anche per gli aspetti ‘mitologici e mitici’ che aleggiano in questi territori, c’è anche una ‘questione tecnica’ in tale scelta. La mia protesi, altamente performante dal punto di vista tecnico, grazie all’elettronica consente la stabilità, ma allo stesso tempo resiste a temperature di diverso tipo e all'acqua. Questo mi permette di affrontare un viaggio così complesso anche dal punto di vista climatico”.

Il progetto è sostenuto da una campagna di Crowdfunding su Kickstarter, che durerà fino al 30 settembre. “Essendo un viaggio fotografico, ma anche una storia di vita, la volontà è quella di creare intorno a questo progetto una comunità di persone che direttamente o indirettamente lo appoggiano e lo vedono svilupparsi dall'inizio alla fine. Chiunque ha sostenuto il progetto potrà assistere alla sua creazione e trasformazione. Inoltre, il sistema del Crowdfunding è una sorta di annuncio al mondo in cui ti prendi la responsabilità di fare qualcosa. Non è un caso che tutti i partner che hanno preso parte al progetto hanno sostenuto soprattutto un’idea che poi si svilupperà in qualcosa di concreto”.

Un "on the road" che durerà due mesi, tra paesaggi estremamente differenti, dove si mischia l’evoluzione nel campo delle protesi, che permettono a Matteo di muoversi al meglio, con quella fotografia analogica con cui il fotografo lavora principalmente, fatta di pellicole, chimica e attesa. “Caratteristiche che forzano a rallentare il ritmo e a concentrarsi maggiormente su ciò che si vuole. Proprio come il processo di creazione e di adattamento del corpo a una protesi. La fotografia analogica è un linguaggio che uso con piacere, perché ha delle fasi ben definite. Questo ti permette di controllare al meglio tutti i passaggi, dallo scatto alla stampa. Ovviamente il digitale verrà utilizzato nella fase di backstage dalla persona che condividerà con me questa avventura”, racconta ancora Matteo, che sarà accompagnato dall’amico fotografo e videomaker Lucas Pernin, il quale documenterà il viaggio in tutti i suoi aspetti.

Verranno utilizzate macchine fotografiche modulabili, protesi realizzate ad hoc, pellicole, stampa artigianale, comunicazione digitale per la diffusione globale. Insomma elementi diversi che si mixeranno in un unico contesto, dove l’elemento preponderante è quello della rinascita e della riappropriazione di se stessi, della propria vita, ma soprattutto delle proprie passioni.

C’è tanto di personale, quindi, in questo lavoro. Una sorta di metafora anche dello stato di coma che Matteo ha vissuto dopo l’incidente, dove ci si addentra in territori sconosciuti, per poi tornare a luoghi familiari e, quindi, alla vita. Il tutto fatto da una serie di ritratti, paesaggi e interni.

“Questo viaggio - racconta ancora Matteo - è la metafora di un percorso che ho fatto su di me. Un percorso in cui tante sono state le incertezze e i punti interrogativi. Andare in questi luoghi rappresenta una riconquista dello spazio e del movimento, che sono le cose fondamentali. Anche a livello fotografico saranno molto presenti. Quello che mi è successo mi ha portato a rivalutare una serie di cose e a vivere con prospettive differenti. L’obiettivo è quello di realizzare un viaggio fotografico, per dimostrare come passione e motivazione possono cambiare lo sguardo e aprire nuovi scenari e possibilità”.



di Tania Careddu

“Persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti dell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio Paese o oltrepassando i confini nazionali”. Definizione dell’Organismo Internazionale per le Migrazioni, per indicare i cosiddetti profughi climatici. Sempre più numerosi.

Solo nel 2014, secondo quanto si legge nel Rapporto sulla protezione internazionale 2015, stilato da Migrantes, sono stati ventidue milioni e quattrocento mila. Tre volte i profughi di guerra. Di pari passo con l’aumento del numero dei disastri ambientali: da vent’anni a questa parte, è raddoppiato, passando da circa duecento a oltre quattrocento. Scappano, soprattutto, dall’Asia, in particolare dalle Filippine, dalla Cina, dall’India, dall’Indonesia, e dagli Stati Uniti.

La difficoltà di accogliere i rifugiati di guerra è arcinota ma si aggrava nel caso dei profughi ambientali. Giacché, a livello normativo, sia in ambito internazionale sia in quello nazionale, non esiste una definizione univoca. L’OIM ne individua tre: coloro che migrano temporaneamente a causa di un disastro ambientale come tsunami, terremoto, uragano; quelli costretti a partire a causa del deterioramento delle condizioni ambientali, quali deforestazione o salinizzazione delle acque dolci; chi sceglie di migrare in risposta a problemi che si vanno intensificando, ovvero in conseguenza, per esempio, della diminuzione della produttività agricola causata dalla desertificazione.

Il Parlamento europeo, invece, ne riconosce due, per tenere distinte le forme legate ad eventi improvvisi e quelle permanenti, dovute a catastrofi di lunga durata, ritenendo necessari interventi di protezione diversi. Per cui, il diritto di rifugiati climatici a una protezione internazionale rischia di non essere (sempre e chiaramente) riconosciuto: appare complicato determinare il nesso di causalità esistente tra il cambiamento climatico e le migrazioni.

Perché? Per l’ottusità di pensare che la mobilità geografica rappresenti solo una delle possibili strategie di adattamento. O perché, secondo quanto si ritrova nel Manuale sulle procedure e i criteri per la determinazione dello status di rifugiati, redatto dall’UNHCR nel 1992, il nesso tra fuga e persecuzione è giustificato solo dall’incapacità dello Stato di intervenire a tutelare o garantire un ambiente dignitoso nel quale poter vivere.

Eppure, sebbene molte evidenze empiriche porterebbero a favorire il riconoscimento della categoria dei rifugiati per ragioni ambientali, la messa a punto di una struttura normativa di riferimento stenta a decollare. Se ne trova traccia (embrionale) nell’ordinamento degli Usa, di Svezia e di Finlandia.

Nel nostro, all’articolo 20 del Testo unico sull’immigrazione, è presente una disposizione. Titolo: Misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali. Da applicarsi in occasione di “conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione europea”. Nonostante il riferimento sia esplicito, la protezione di questa tipologia di rifugiati è discutibile sul piano della solidità e della ripetitività delle procedure.

Ci piace pensare che il vuoto legislativo sia da attribuirsi alla relativa novità del problema e alla sua sostanzialità. Troppo ampia e articolata per essere ristretta dentro un quadro giuridico esistente.

di Tania Careddu

Nel 2008, all’epoca della Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, erano millecinquecento. Al 31 marzo 2015, data di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, erano seicentottantanove. A oggi sono duecentoventisei i pazienti ricoverati negli OPG, dei quali il 60 per cento circa sarebbe dimissibile dal punto di vista clinico, quindi affidabile immediatamente a strutture territoriali di novero psichiatrico diverse dalle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Nelle quali, invece, risiedono quattrocentotre persone in cura psichiatrica.

Gestite dai Dipartimenti di salute mentale, le REMS, che hanno il duplice scopo di garantire le misure di sicurezza per i pazienti e l’attivazione di percorsi terapeutici riabilitativi, sono sedici.

Ma la loro recettività, secondo quanto si legge nell’ultima audizione al Senato per l’acquisizione di elementi informativi in merito all’attuazione della normativa per il superamento degli OPG, è alquanto carente. Sia per la tardiva implementazione del dettato normativo da parte di alcune regioni, sia, allo scopo di evitare spostamenti massivi per evitare effetti deleteri sui pazienti, per la modalità graduale e prudente, attuata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, della traduzione dei pazienti dagli ospedali psichiatrici alle residenze.

Vuoi perché la mancanza di un’adeguata rete territoriale di strutture non rende agevole il rispetto delle disposizioni legislative, soprattutto quelle relative al principio di territorialità - ossia, privilegiando REMS ubicate nelle zone in cui ogni paziente ha le sue radici - che agevolerebbe il percorso terapeutico e la definitiva dimissione. Vuoi per il limite di venti posti in ogni singola residenza che, va da sé, porta a una rapida saturazione dei letti disponibili.

Eppure, si potrebbe ipotizzare anche per le REMS, la dimissibilità di circa un terzo dei ricoverati. E se i problemi di accoglienza fossero, pure, legati alla numerosità di nuovi ingressi di soggetti sottoposti a misure di sicurezza provvisoria? Oppure: le problematiche riscontrate in sede attuativa discendono dalla mancata erogazione dei necessari finanziamenti e dalle difficoltà di relazione con la magistratura?

Dal Comitato stopOPG colgono l’occasione per ribadire l’insensatezza delle residenze come risposta alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il vero superamento, dicono, sarebbe destinare le risorse finanziarie, economiche, strutturali e di personale a favore di servizi socio-sanitari di salute mentale per misure di sicurezza non detentive.

In effetti, l’internamento non dovrebbe essere l’extrema ratio? Non sarebbe, piuttosto, auspicabile mettere mano a un progetto organico di prevenzione così da contribuire alla diminuzione degli ingressi nelle residenze?

Che, invece, a quanto se ne sa, potrebbero essere potenziate a breve con l’apertura di altre cinque strutture nel Lazio, in Piemonte, in Puglia, in Campania e in Toscana. Una speranza: che non si corra il rischio di una strumentalizzazione del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari da parte delle organizzazioni di stampo criminale.


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