di Tania Careddu

L’anagrafe scolastica (peraltro, ancora incompleta) e lo stanziamento di fondi (quattro miliardi di euro dal 2014 a oggi) per la messa in sicurezza degli edifici, non sono bastati. In media, una scuola su due, nei capoluoghi del meridione e delle isole, necessita ancora di interventi urgenti di manutenzione. Nel sud e nelle isole non esiste nemmeno una scuola costruita secondo i criteri della bioedilizia (sebbene sia significativa la percentuale di quelle dotate, invece, di impianti per la produzione di energie rinnovabili) e solo il 7 per cento al Sud e l’1,1 per cento nelle isole utilizza fonti di illuminazione a basso consumo, a fronte di una media nazionale del 31,7 per cento.

Negli ultimi cinque anni, solo il 17 per cento degli istituti è stato interessato dagli interventi di manutenzione ordinaria: le strutture bisognose passano dal 32,5 per cento dello scorso anno al 39,1 per cento di questo; il 73 per cento è sprovvisto di certificazioni (a parte quella igienico-sanitaria) e il 20 per cento non ha ancora provveduto a dotarsi di impianti elettrici a norma.

Un dato, però, accomuna le scuole di tutta Italia: la vetustà degli edifici, per cui su seimila e trecentodieci scuole, circa il 65 per cento è stato costruito prima dell’entrata in vigore della normativa antisismica del 1974, mentre solo il 9,3 per cento tra il 1991 e il 2014. Flette, rispetto allo scorso anno e dopo anni di trend di crescita, il dato relativo agli edifici a norma, accompagnato a un calo rilevante degli interventi previsti per l’eliminazione delle barriere architettoniche.

Peggiorano gradualmente, in termini di qualità e sostenibilità, anche i due servizi principali: mensa e trasporto. Se nel 2014, erano l’8,5 per cento i pasti interamente bio, oggi sono il 5,3 per cento; se le mense scolastiche che servivano acqua dal rubinetto erano il 70,8 per cento nel 2010, attualmente sono diminuite al 56 per cento. Se la disponibilità di scuolabus, nel 2010 era del 32,6 per cento, oggi è del 25,8 per cento, con una flessione nelle scuole del Nord, del Sud e delle Isole.

Ancora carenti pure le condizioni strutturali che danno autonomia di mobilità ai ragazzi, dalle piste ciclabili nei pressi delle scuole, presenti in meno del 10 per cento dei plessi scolastici, alle transenne parapedonali presenti in poco più del 7 per cento. Diminuiscono le scuole con spazi verdi e giardini e quelle con aree per lo sport. Aumentano le strutture con biblioteche. Prosegue il trend positivo delle azioni di bonifica dall’amianto: Trieste capofila, Vercelli il capoluogo dove sono più presenti le scuole a rischio.

E, sebbene nessun dato scientifico evidenzi in modo assoluto il rischio associato all’esposizione alle onde ad alta frequenza, i dati riportati dal Rapporto di Legambiente Ecosistema Scuola, evidenzia un’altra criticità: una crescente percentuale di scuole a rischio elettromagnetico, dato che il 34,6 per cento di scuole ospita impianti wi-fi, il 15 per cento si trova in prossimità di stazioni radio base per la telefonia mobile e il 3,7 per cento vicine a elettrodotti.

Regioni - Abruzzo e Sardegna in testa - e Comuni dove l’esigenza di intervenire è altamente rilevante, mostrano, di contro, un forte disinteresse a stanziare fondi. Trento, Bolzano e Reggio Emilia, sono le città più virtuose. Como e Verona, i comuni che riescono a coprire il 100 per cento dei consumi con le energie rinnovabili. Brindisi, L’Aquila e Pisa, le mense più bio. Lucca, Macerata, Siena, le città che garantiscono lo scuolabus a tutte le strutture scolastiche. Buone scuole dalle quali non si finisce mai di imparare.

di Tania Careddu

D'inquinamento ne produce meno di tutti ma è quella più danneggiata: la metà più povera della popolazione mondiale, tre miliardi e mezzo di persone, che vivono nei paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici, è responsabile solo del 10 per cento a livello globale del consumo che provoca le emissioni di carbonio. Attribuibili, per il 50 per cento invece, al 10 per cento che vive nell’emisfero ricco del pianeta.

Che, con i propri modelli di consumo (climalteranti), è responsabile del 64 per cento delle emissioni globali di gas serra, insieme al 36 per cento derivanti dai modelli di consumo e di investimento, tipo le infrastrutture, dei governi e dal trasporto internazionale.

Comunità rurali, gruppi marginalizzati per l’etnia e donne, i soggetti più esposti ai rischi legati al surriscaldamento globale. Perché tendono a essere più dipendenti da attività economiche influenzabili dalle condizioni climatiche, vedi l’agricoltura pluviale o la raccolta di acqua per uso domestico, e hanno pochissime possibilità di uscire dai periodi di crisi o di aumentare la produttività a causa di un minore accesso alla terra, alla formazione e al capitale.

Poco preparati anche ad affrontarli. Per esempio: se negli Stati Uniti, il 91 per cento degli agricoltori ha stipulato un’assicurazione a copertura delle perdite per eventi climatici estremi, in India lo ha fatto solo il 15 per cento degli agricoltori, in Cina il 10 per cento e in Malawi poco meno dell’1 per cento.

La stragrande maggioranza di quel ricco 10 per cento di cui sopra vive nei Paesi OCSE, le cui emissioni associate a modelli di consumo sono ancora nettamente superiori a quelle dei cittadini dei Paesi emergenti del G20. E sebbene la densità di popolazione di questi ultimi - Cina, India, Brasile e Sud Africa - contribuisca al totale delle emissioni globali, gli stili di consumo del 10 per cento dei loro abitanti ricchi è ancora notevolmente inferiore rispetto alla controparte dei Paesi per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

E sarà certamente vero che i più abbienti siano gli artefici dei mali del mondo, ma la colpa reale dell’inquinamento del pianeta è imputabile ai potenti: le multinazionali dei combustibili fossili (dietro a marchi famosi si cela un club di miliardari del carbone, come spiega Oxfam, che ha curato il rapporto Disuguaglianza climatica).

Lobby vere e proprie, che dichiarano di spendere per attività di lobbysmo sui governi, a livello europeo, circa quarantaquattro milioni di euro all’anno, cercando così di condizionare l’operato verso una regolamentazione che sia il meno stringente possibile. Lo scopo è ottenere sussidi e agevolazioni fiscali di gran lunga più consistenti e vantaggiose rispetto a quelle destinate al settore delle energie rinnovabili.

E così la lista Forbes, nel 2015, si arricchisce di ottantotto miliardari con interessi connessi ai combustibili fossili. Talmente potenti che nemmeno l’accordo di Parigi è riuscito a scongiurare l’impatto dei cambiamenti climatici sui paesi più poveri: oltre a non aver stanziato risorse finanziarie sufficienti per l’adattamento al cambiamento climatico, esclude la possibilità di individuare responsabilità dirette e non contempla nessun riferimento esplicito ai diritti umani. La guerra dei ricchi contro i poveri.

di Liliana Adamo

E’ auspicabile che i risultati prodotti dalla Conferenza sul Clima (COP21) in questi giorni a Parigi, siano direttamente proporzionali alla portata “storica” del summit, cancellando, di fatto, lo scomodo “souvenir” di Copenaghen 2009. Al cospetto di 190 Paesi rappresentati, 147 fra premier e capi di Stato, sarebbe d’obbligo tirare fuori quell’esito (plausibile), da molti invocato, nonostante la “Conference of the Parties”, scossa dagli atti terroristici dello scorso novembre, si svolga in una città in lutto, trincerata dietro misure di sicurezza senza precedenti. 

Il vertice organizzato dall'Onu ha un obiettivo: limitare l'escalation delle emissioni CO2 nell’atmosfera terrestre e gli effetti che ne conseguono, tali da incombere (e non eufemisticamente), sulla longevità della specie umana e sullo stesso concetto d’evoluzione. Questi, in primis, includono fattori antropici, ambientali, economici. Proprio dalle Nazioni Unite si rende ufficiale lo “status di rifugiato ambientale” stimando nel 2050, 250 milioni di eco-profughi, costretti a fuggire - letteralmente - dai propri paesi non più vivibili per problemi legati al clima.

Nel suo Quinto Rapporto di Valutazione - The Physical Science Basis - il gruppo Intergovernativo IPCC, ha fornito una versione sul trend dei cambiamenti climatici: “Il riscaldamento del clima terrestre si aggrava in gran parte per colpa dell’uomo. La temperatura della terra aumenterà da 0,3 a 4,8 gradi centigradi, entro il 2100. I primi dieci anni del nostro secolo sono stati i più caldi dal 1850…”. Un incremento di tale portata significa che dalla terra, dal letto dei fiumi, dai ghiacci e dal mare, dalle estinzioni delle specie animali, in sostanza, dall’intero regno della natura, si registrerebbe un collasso imminente. In pratica, è il cambiamento climatico, il migliore alleato nella minaccia al terrore globale.

Per finire, resta il fattore economico: le perdite indicano una fenomenologia in evoluzione determinata dalle cosiddette “calamità naturali”. Indicativa è la linea d’orientamento che riguarda il numero d’eventi distruttivi e della loro composizione.

Si passa dai circa venti episodi nel 1980 (tutti riconducibili a tempeste tropicali), ai cento dell’ultimo triennio, con una ripartizione pressoché omogenea fra tempeste e altri eventi climatici, fomentati da alte temperature, siccità, incendi. Negli ultimi anni si è registrata un’impennata di passivo, dovuta a un’incredibile frequenza d’uragani, seguiti da un elevatissimo numero di vittime e danni.

Paralizzato dallo scontro ideologico fra superpotenze, da una parte Stati Uniti, Cina, India, dall’altra e l’Europa (come spesso accade), a far da spettatrice sulla battaglia dei veti, qualcosa è cambiato dall’onta di quel summit siglato nel dicembre 2009 a Copenaghen? Probabilmente sì, da più parti e nella coscienza civile, si è accettato che i cambiamenti climatici rappresentino la scacchiera su cui si gioca la stessa sopravvivenza del genere umano.

Basta con l’espressione rituale del “salviamo il pianeta” e decantate buone intenzioni (cui è lastricato l’inferno), il pianeta non ha bisogno di noi, né del nostro antropocentrismo. L’equilibrio degli ecosistemi perdura in perfetto stato di conservazione se le condizioni ambientali restano costanti, cioè, qualora elementi come temperature, salinità, esposizione ai raggi solari, rientrassero in parametri conformi.

Semmai verrà alterato soltanto uno di questi fattori (come la temperatura media annua che continua ad aumentare), l’intero biosistema intraprenderà un nuovo percorso evolutivo verso altri status. L’estinzione (accelerata) delle specie, il depauperamento delle biodiversità, produrranno nuovi equilibri in cui l’unica specie a non adattarsi, a scomparire per sempre, sarà quella umana.

Lo staff della politica mondiale riunito a Parigi, è assolutamente consapevole di dover mettere in campo scelte precise, politiche, economiche, sociali, a contenere un declino che, di fatto, si considererebbe irreversibile. Le risorse ambientali sono allo stremo, i cambiamenti climatici sollecitano una crisi in atto già nell’era pre-industriale.

Per evitare il peggio (un ennesimo fallimento), le delegazioni hanno consegnato nelle mani di Laurent Fabius (ministro degli Esteri francese e presidente della CPO21), la bozza di un accordo. Sui punti nevralgici il testo è ancora incompleto, le principali opzioni sono incluse nelle famose “parentesi quadre”: in termini diplomatici, vale a dire che non ci sono intese certe, né conferme.

Indugiano caute le interpretazioni delle varie associazioni ambientaliste, come Greenpeace e WWF; ma se vogliamo dirla tutta, secondo una generica stima di un’ONG francese, facente capo all’ecologista Nicolas Hulot, la stesura del documento conta ben 1.400 “parentesi quadre” che spianano la strada a un difficile iter di 250 disparate opzioni.

Esempio: scrivere “trasformazione a basso tasso d’emissioni” non ricalca il concetto tout court a ciò che s’intende come “piena de carbonizzazione” estesa alle economie globali. Tuttavia, i giorni di confronto si susseguono, così il lavoro sul protocollo e si riterrebbe dall’oggi al domani, che i “bracket” si accorcino, come pure le opzioni. Staremo a vedere.


di Tania Careddu

La Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità, all'articolo 24 riconosce “il diritto all’istruzione delle persone con disabilità (...) senza discriminazioni e su base di pari opportunità”, garantendo “un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli ed un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita, finalizzati: al pieno sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità e dell’autostima e al rafforzamento del rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della diversità umana; allo sviluppo, da parte delle persone con disabilità, della propria personalità, dei talenti e della creatività, come pure delle proprie abilità fisiche e mentali, sino alle loro massime potenzialità; a porre le persone con disabilità in condizione di partecipare effettivamente a una società libera”.

Princìi recepiti dal sistema scolastico italiano, che attua il ‘sistema di inclusione’ degli alunni con disabilità con la una politica di massima integrazione. Diverso é l’agire di altri paesi europei, quali Germania e Paesi Bassi che, invece, utilizzano un ‘sistema con distinzione’, che prevede due sistemi separati, nei quali gli alunni disabili vengono inseriti in classi speciali, avendo scarsi o nulli rapporti con l’ambiente ‘nomale’).

Perché, secondo quanto si legge nel Preambolo della succitata Convenzione, “la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazione e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società sulla base dell’uguaglianza con gli altri”.

In Italia non accade. L’Italia ha una (vera) buona scuola. Gli alunni con disabilità, fra i banchi delle scuole del Belpaese, sono sempre più numerosi e pari al 2,7 per cento del numero complessivo degli studenti frequentanti. E quelli stranieri sono in maggioranza. Quasi il 96 per cento ha disabilità psicofisiche - intellettive e motorie - e il 27 per cento altri tipi di disabilità quali problemi psichici precoci o disturbi specifici dell’apprendimento (gli ultramenzionati DSA, che disturbano centottantaseimila bambini), disabilità uditiva o visiva.

Frequentano principalmente la scuola primaria e secondaria di secondo grado, con una distribuzione regionale molto variabile: le regioni dell’Italia centrale presentano la percentuale più elevata di bambini ‘speciali’ sul totale degli alunni e quelle del Nord Est, la più bassa; Lazio e Abruzzo, quelle con la più alta concentrazione di certificazioni di disabilità; Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Trentino, quelle dove si contano più alunni stranieri disabili ma dove esiste anche una maggiore scolarizzazione degli stessi.

E il sistema scolastico italiano, secondo quanto riportato nel documento biennale redatto dal MIUR, ‘L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità’, è preparato: il rapporto tra numero di docenti per il sostegno e quello complessivo è in crescita.

Più consistente nel Meridione e nelle Isole, la presenza degli insegnanti di sostegno, con il fondamentale compito di coordinare la rete delle attività previste per l’effettivo raggiungimento dell’integrazione degli alunni con disabilità, è salita dell’81,9 per cento, con un incremento del 6,4 per cento nell’ultimo anno. Per non svuotare la scuola, del suo senso pedagogico, culturale e sociale.

di Rosa Ana De Santis

Il 2015 si chiude di solito alla vigilia del brindisi con il ricordo dei nomi noti che ci hanno lasciato. Divi del palcoscenico e della tv. E’ canonico l’album dei ricordi dei vip sulle prime pagine. Quest’anno si unirà la triste conta delle vittime del terrorismo cadute nei confini d’Europa. Senza dubbio andrà cosi. Ma proviamo a contare l’anno da altri numeri che di “famoso” e di noto non hanno proprio nulla e che pure raccontano di un’ecatombe silenziosa.

Il 2015 è un anno di morti soprattutto anonimi. Nomi che se abbiamo sentito per sbaglio da un telegiornale, non ricorderemo mai. Sono cresciuti questi morti, vertiginosamente, nelle acque del mare. Quello delle vacanze predilette al Sud. Quello delle coste mozzafiato. Da quando Mare Nostrum si è trasformato in Triton le persone muoiono come mosche. A fornire i dati l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e le infografiche dell’Organizzazione internazionale dei Migranti.

Sono ad oggi 893.970 le persone venute dal mare verso l’Europa nel solo anno 2015. Di queste, 3.600 sono i morti e i dispersi nelle acque del Mediterraneo, 627 nel Mar Egeo, 2.889 nel Mediterraneo, 85 ad un passo dalle coste della Spagna. Un resoconto mondiale parla di ben 5.014 persone morte di migrazione e la maggior parte di queste ha perso la vita in mezzo al Mare Nostrum.

Una stima che rischia di essere al “ribasso” facendo riferimento a quel poco di documentabile che c’è nell’esodo di queste persone. Di poche ore fa la cronaca di altri due naufragi nelle acque dell’Egeo. Dei 27 migranti morti, 17 erano bambini. E veniamo a loro.

Nel 2015 le fonti dicono che più di 700 bambini sono morti nel viaggio in mare. Non a caso definita da Monsignor Perego, direttore della Fondazione Migrantes, una “strage silenziosa”, perché di essa si occupano i media e i parlamenti rivendicando l’agonismo politico del migliore accordo, ma nessun serio e profondo moto di dolore per queste vite perdute perché, semplicemente, non appartengono a nessuno.

E’ la cittadinanza che da corpo al dolore pubblico. Pensiamo alle vittime di Parigi. Senza questo status si perde visibilità, corporeità persino e le morti diventano leggere. Impalpabili. Torna attuale il pensiero di Hannah Arendt sulla cittadinanza, sulla privazione esistenziale dell’essere apolidi, in questo caso per necessità e costrizione.

Diventa chiaro perché di questi morti rimangono solo croci tutte in fila a Lampedusa. Sembrano le brutte copie delle sepolture dei caduti in guerra. Tutte uguali, ma di legno e senza eleganza. Non ci sono uniformi alla memoria, ma ciabatte, scarpe galleggianti lungo la riva, coperte e stracci.

Secondo le analisi della Fondazione Migrantes i morti del 2015 hanno raddoppiato le stime del 2014. Questo conferma che l’esodo è in crescita e inarrestabile e soprattutto che sono rimaste al loro posto le ragioni di questa disperata fuga. La Libia in prima battuta. Dimenticata dalla politica estera dell’Occidente all’improvviso e ormai fucina di partenze continue in mano ai criminali.

Fu criticata Nilufer Demi quando catturò il corpicino senza vita di Aylan, il bambino siriano di tre anni rimasto ucciso dal naufragio del suo barcone e ripescato da un militare sulle coste di Bodrum. Faceva impressione quella foto. Quel piccolo morto nelle braccia del suo soccorritore che fino a un secondo prima di avvicinarsi pregava affinché quel bimbetto fosse ancora vivo. Si è iniziato a parlare di rispetto, di pudore, di tutela dell’infanzia. Tutto questo davanti ad un bambino ucciso per niente.

E’ invece quella la foto che manca sul cimitero degli anonimi. Molti dei quali ancora sott’acqua insieme ai pesci. E’ l’epitaffio atteso. Ed e’ la foto di quest’anno, che racconta ciò che è stato e forse anche ciò che non faranno per impedire che succeda ancora.


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