di Tania Careddu

La Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità, all'articolo 24 riconosce “il diritto all’istruzione delle persone con disabilità (...) senza discriminazioni e su base di pari opportunità”, garantendo “un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli ed un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita, finalizzati: al pieno sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità e dell’autostima e al rafforzamento del rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della diversità umana; allo sviluppo, da parte delle persone con disabilità, della propria personalità, dei talenti e della creatività, come pure delle proprie abilità fisiche e mentali, sino alle loro massime potenzialità; a porre le persone con disabilità in condizione di partecipare effettivamente a una società libera”.

Princìi recepiti dal sistema scolastico italiano, che attua il ‘sistema di inclusione’ degli alunni con disabilità con la una politica di massima integrazione. Diverso é l’agire di altri paesi europei, quali Germania e Paesi Bassi che, invece, utilizzano un ‘sistema con distinzione’, che prevede due sistemi separati, nei quali gli alunni disabili vengono inseriti in classi speciali, avendo scarsi o nulli rapporti con l’ambiente ‘nomale’).

Perché, secondo quanto si legge nel Preambolo della succitata Convenzione, “la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazione e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società sulla base dell’uguaglianza con gli altri”.

In Italia non accade. L’Italia ha una (vera) buona scuola. Gli alunni con disabilità, fra i banchi delle scuole del Belpaese, sono sempre più numerosi e pari al 2,7 per cento del numero complessivo degli studenti frequentanti. E quelli stranieri sono in maggioranza. Quasi il 96 per cento ha disabilità psicofisiche - intellettive e motorie - e il 27 per cento altri tipi di disabilità quali problemi psichici precoci o disturbi specifici dell’apprendimento (gli ultramenzionati DSA, che disturbano centottantaseimila bambini), disabilità uditiva o visiva.

Frequentano principalmente la scuola primaria e secondaria di secondo grado, con una distribuzione regionale molto variabile: le regioni dell’Italia centrale presentano la percentuale più elevata di bambini ‘speciali’ sul totale degli alunni e quelle del Nord Est, la più bassa; Lazio e Abruzzo, quelle con la più alta concentrazione di certificazioni di disabilità; Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Trentino, quelle dove si contano più alunni stranieri disabili ma dove esiste anche una maggiore scolarizzazione degli stessi.

E il sistema scolastico italiano, secondo quanto riportato nel documento biennale redatto dal MIUR, ‘L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità’, è preparato: il rapporto tra numero di docenti per il sostegno e quello complessivo è in crescita.

Più consistente nel Meridione e nelle Isole, la presenza degli insegnanti di sostegno, con il fondamentale compito di coordinare la rete delle attività previste per l’effettivo raggiungimento dell’integrazione degli alunni con disabilità, è salita dell’81,9 per cento, con un incremento del 6,4 per cento nell’ultimo anno. Per non svuotare la scuola, del suo senso pedagogico, culturale e sociale.

di Rosa Ana De Santis

Il 2015 si chiude di solito alla vigilia del brindisi con il ricordo dei nomi noti che ci hanno lasciato. Divi del palcoscenico e della tv. E’ canonico l’album dei ricordi dei vip sulle prime pagine. Quest’anno si unirà la triste conta delle vittime del terrorismo cadute nei confini d’Europa. Senza dubbio andrà cosi. Ma proviamo a contare l’anno da altri numeri che di “famoso” e di noto non hanno proprio nulla e che pure raccontano di un’ecatombe silenziosa.

Il 2015 è un anno di morti soprattutto anonimi. Nomi che se abbiamo sentito per sbaglio da un telegiornale, non ricorderemo mai. Sono cresciuti questi morti, vertiginosamente, nelle acque del mare. Quello delle vacanze predilette al Sud. Quello delle coste mozzafiato. Da quando Mare Nostrum si è trasformato in Triton le persone muoiono come mosche. A fornire i dati l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e le infografiche dell’Organizzazione internazionale dei Migranti.

Sono ad oggi 893.970 le persone venute dal mare verso l’Europa nel solo anno 2015. Di queste, 3.600 sono i morti e i dispersi nelle acque del Mediterraneo, 627 nel Mar Egeo, 2.889 nel Mediterraneo, 85 ad un passo dalle coste della Spagna. Un resoconto mondiale parla di ben 5.014 persone morte di migrazione e la maggior parte di queste ha perso la vita in mezzo al Mare Nostrum.

Una stima che rischia di essere al “ribasso” facendo riferimento a quel poco di documentabile che c’è nell’esodo di queste persone. Di poche ore fa la cronaca di altri due naufragi nelle acque dell’Egeo. Dei 27 migranti morti, 17 erano bambini. E veniamo a loro.

Nel 2015 le fonti dicono che più di 700 bambini sono morti nel viaggio in mare. Non a caso definita da Monsignor Perego, direttore della Fondazione Migrantes, una “strage silenziosa”, perché di essa si occupano i media e i parlamenti rivendicando l’agonismo politico del migliore accordo, ma nessun serio e profondo moto di dolore per queste vite perdute perché, semplicemente, non appartengono a nessuno.

E’ la cittadinanza che da corpo al dolore pubblico. Pensiamo alle vittime di Parigi. Senza questo status si perde visibilità, corporeità persino e le morti diventano leggere. Impalpabili. Torna attuale il pensiero di Hannah Arendt sulla cittadinanza, sulla privazione esistenziale dell’essere apolidi, in questo caso per necessità e costrizione.

Diventa chiaro perché di questi morti rimangono solo croci tutte in fila a Lampedusa. Sembrano le brutte copie delle sepolture dei caduti in guerra. Tutte uguali, ma di legno e senza eleganza. Non ci sono uniformi alla memoria, ma ciabatte, scarpe galleggianti lungo la riva, coperte e stracci.

Secondo le analisi della Fondazione Migrantes i morti del 2015 hanno raddoppiato le stime del 2014. Questo conferma che l’esodo è in crescita e inarrestabile e soprattutto che sono rimaste al loro posto le ragioni di questa disperata fuga. La Libia in prima battuta. Dimenticata dalla politica estera dell’Occidente all’improvviso e ormai fucina di partenze continue in mano ai criminali.

Fu criticata Nilufer Demi quando catturò il corpicino senza vita di Aylan, il bambino siriano di tre anni rimasto ucciso dal naufragio del suo barcone e ripescato da un militare sulle coste di Bodrum. Faceva impressione quella foto. Quel piccolo morto nelle braccia del suo soccorritore che fino a un secondo prima di avvicinarsi pregava affinché quel bimbetto fosse ancora vivo. Si è iniziato a parlare di rispetto, di pudore, di tutela dell’infanzia. Tutto questo davanti ad un bambino ucciso per niente.

E’ invece quella la foto che manca sul cimitero degli anonimi. Molti dei quali ancora sott’acqua insieme ai pesci. E’ l’epitaffio atteso. Ed e’ la foto di quest’anno, che racconta ciò che è stato e forse anche ciò che non faranno per impedire che succeda ancora.

di Liliana Adamo

Sea Shepherd, la più accreditata (e agguerrita) associazione ambientalista su scala mondiale ha un suo leader per la sezione italiana: si chiama Andrea Morello, trentanove anni, vicentino, artefice di “Operazione Siracusa”. E’ lui che, nel 2012, insieme al capitano Peter Hammarstedt, inaugura a Venezia, la prima imbarcazione devoluta a SSI, una vela di sette metri. Sulle coste siciliane, durante l’ormeggio della M/Y Steve Irwin, ammiraglia della flotta di Sea Shepherd, c’è un secondo incontro “fatale” con la famiglia Maiorca, da qui scaturisce la prima Campagna italiana d’azione diretta del Plemmirio.

L’obiettivo è proteggere il delicato e straordinario ecosistema dall’azione dei bracconieri. Con un programma di tutela ambientale complesso quanto necessario, si arriva a una visione che punta alla difesa del Mediterraneo e degli Oceani, delle risorse naturali, della biodiversità.

Come sta la Riserva siciliana del Plemmirio?
Il Plemmirio è classificato come Area Specialmente Protetta di Interesse Mediterraneo (ASPIM), denominazione assegnata ai siti d’importanza per la conservazione della biodiversità nel Mediterraneo, e come Area Marina di Reperimento, ovvero zona la cui conservazione attraverso le aree protette è considerata in modo prioritario.

Si suddivide in tre Zone, con livelli differenti di protezione dell'ecosistema marino: dalla Zona A, più restrittiva, alla Zona C più “permissiva”. La Zona A è a protezione integrale (no pesca, ancoraggio d’imbarcazioni, né immersioni), mentre la pesca subacquea, in bombole o apnea è vietata in tutte e tre le zone.
Alla mia prima visita, insieme a Patrizia Maiorca, la maestosità dei palazzi e dei templi dell'Ortigia si mescolava alle cattedrali subacquee abitate da moltissime specie marine, in un tratto di mare ricco di biodiversità. La situazione però celava una terribile realtà: alcune specie erano vittime di bracconieri, sebbene questa ricchezza vada custodita per la nostra stessa sopravvivenza. Il bracconaggio ha luogo la notte o all’alba, quando è più difficile la sua individuazione ed è condotto con gommoni che trasportano sommozzatori armati di fucili subacquei e da pescherecci che utilizzano reti.

Obiettivo della prima campagna italiana di Sea Shepherd, Operazione Siracusa, è proteggere l’ecosistema dal bracconaggio in collaborazione con l'AMP e le autorità, e i risultati concreti si vedono in immersione quando si possono ammirare molte più cernie rispetto al recente passato, saraghi, tanute, corvine e magnose, prima quasi scomparse. La quantità di vita dimostra anche un comportamento naturale di curiosità verso i subacquei sportivi, di non diffidenza.

Proprio la passione degli abitanti di Siracusa e dei volontari di Sea Shepherd porterà l'azione diretta in difesa della vita in ogni Cattedrale del Blu, consentendo alle cernie del Plemmirio d’offrirci l'emozione d’uguaglianza nell'incontro tra le specie. Dalla battigia, nei momenti in cui il mare non si protegge da solo con onde e correnti, i volontari rimuovono plastica e rifiuti. Ciò rende concreto anche il nostro impegno a livello globale, per ripulire i milioni di tonnellate di plastica che ogni anno produciamo e gettiamo negli Oceani.

Nel fenomeno della tropicalizzazione del Mediterraneo, con l’invasione di specie non autoctone causa surriscaldamento globale, considera irreversibile il degrado per la biodiversità dei nostri mari?
Gli ecosistemi subiscono nel tempo una continua evoluzione verso uno stato di equilibrio (con specie ben stabilite, con numero costante d’individui per ogni specie, con interazioni precise tra le varie specie). Questo stato di equilibrio ideale non è statico, bensì dinamico, e una specie può essere sostituita dall’altra con caratteristiche simili e compatibili. L'ecosistema evolve allo stato d’equilibrio se le condizioni dell'ambiente (temperatura, salinità, insolazione, ecc.) restano costanti. Ma se un fattore ambientale cambia (come la temperatura media annua che aumenta), l'ecosistema può intraprendere una strada evolutiva verso un nuovo stato d’equilibrio.

Non è colpa della tropicalizzazione se gli stock ittici sono in calo vertiginoso, se i cetacei e gli squali sono drasticamente diminuiti rispetto a 200 anni fa! La presenza di squali nel Mare Nostrum si è ridotta del 97%, raggiungendo in pratica “livelli funzionalmente estinti” con conseguenze su tutto il Mediterraneo che, privo di predatori al top della catena alimentare, entra in corto circuito verso un nuovo equilibrio, non più adatto alla nostra specie.

Il degrado della biodiversità nei nostri mari è stato causato dallo sfruttamento indiscriminato e incontrollato negli anni. Sembrerebbe paradossale, ma per il Pianeta Mare la presenza dell'uomo non è indispensabile. In realtà, saremo noi a doverci salvare, a rendere irreversibile il processo d’acidificazione degli Oceani e il riscaldamento globale. L'estinzione delle specie porterà a un nuovo equilibrio per il Pianeta Mare ma in quanto alla specie umana, l'estinzione sarà per sempre.

C’è una cultura ambientalista, in Italia?
In Italia c'è una straordinaria cultura ambientalista ma anche una diffusa ignoranza riguardante le tematiche di difesa dell'ambiente. Sea Shepherd in Italia è nata nel 2010 con l'arrivo nel porto di La Spezia della nostra nave Madre: la M/Y Steve Irwin e in questi anni ho conosciuto centinaia d’italiani pronti a rischiare la propria incolumità per salvare anche una sola Balena.

La cultura ambientalista è la spinta verso azioni appropriate per capire l'ambiente dove viviamo: il nostro paese comprende 7.458 km di coste e mare. Proteggerlo e amarlo è la grande sfida per il nostro futuro e vi garantisco che sempre più italiani uniti a molte altre nazioni, sviluppano giorno per giorno una consapevolezza ambientalista legata alla sopravvivenza di tutte le specie della Terra. L'ambientalismo inizia da noi stessi, cresce nell'ambiente in cui viviamo, si propaga come evoluzione nelle specie interdipendenti.

Al momento, come si evolve la situazione giudiziaria per gli attivisti arrestati durante le grind, sulle isole Fær Øer?
Tra il 20 luglio e il 12 agosto sono stati arrestati 14 volontari di Sea Shepherd, impegnati nella campagna Operazione Sleppid Grindini in difesa dei globicefali minacciati da una barbara tradizione denominata grind. I volontari, tentando di proteggere i globicefali durante le grind, sia a terra che in mare, sono stati fermati dalla polizia danese, arrestati e accusati di aver violato la legge faroese che regola la caccia ai globicefali (Faroese Islands Pilot Whaling Act). Il tribunale danese delle Isole Fær Øer li ha condannati al pagamento di sanzioni pecuniarie o, in alternativa, al carcere da una a due settimane. Subito dopo è scattata l’espulsione senza attendere i tempi per valutare gli appelli alla sentenza. Tra gli arrestati c’erano Marianna Baldo, volontaria off-shore e Alice Rusconi Bodin, del Team di terra.

Sea Shepherd non pagherà le sanzioni amministrative, non riconoscendo legittimità delle accuse mosse nei confronti dell’Organizzazione e dei suoi volontari. Il Team legale di Sea Shepherd ha rilevato anche parziali violazioni dei diritti umani dei volontari italiani sulla base della Convenzione Europea sui Diritti umani. L'anno prossimo e in quelli a venire torneremo nelle isole feringe fino a quando il massacro non cesserà.

Perché il governo danese, pur rappresentando un paese europeo, non conviene al rispetto di norme che vietano la caccia ai cetacei? Quali gli interessi, tali da non sconfessare questa presunta “tradizione”? La Danimarca è uno stato membro della UE, soggetto a leggi che vietano la caccia e l’uccisione dei cetacei.

Ciononostante, invia la propria Marina a supporto della polizia feringia, durante uno sterminio di massa su globicefali, intrappolati e inermi. Se si può parlare di un dato positivo, è che, nei confronti dello stato danese, ora abbiamo prove tangibili nel coinvolgimento diretto al massacro intorno alle isole Fær Øer.

Sea Shepherd presenterà queste prove all'attenzione del Parlamento Europeo, esigendo provvedimenti contro la Danimarca, corresponsabile di un’azione palesemente illegale. Nessun membro dell'UE può essere coinvolto in attività d’uccisione dei cetacei e, anche se le Fær Øer non sono annesse alla Comunità Europea, di fatto riscuotono consistenti sussidi tramite la Danimarca. Formalmente, i feringi sono esenti da questa norma, ma non lo è la Danimarca e ora abbiamo prove inconfutabili che Marina militare e polizia danesi sono coinvolte. Il marcio nelle Fær Øer è altresì il marcio della Danimarca.

Ma perché questo massacro?
I tentativi di giustificazione da parte dei feringi sulla necessità d’uccidere i Globicefali sono falsi. Hanno bisogno di cibo? Nessun faroese ha bisogno della carne di Globicefalo per nutrirsi, visti gli alti standard di vita nelle isole e la presenza d’ogni genere alimentare nei supermercati.

E’ una tradizione? Il popolo faroese l’ha abbandonata nel momento stesso in cui ha abbracciato i benefici della tecnologia e della globalizzazione. Non c'è nulla di tradizionale nell'uccidere migliaia di globicefali intelligenti, socialmente complessi, che provano sentimenti. In passato, secondo la tradizione, queste creature del mare erano uccise per necessità di un equilibrio terribile, oggi, è un inutile divertimento d’emozioni deviate.

Sea Shepherd ha mostrato agli occhi del mondo l'atrocità che si commette intorno a quelle isole. Non pretendiamo di convincerli a non uccidere, esigiamo invece, che Europa, Asia, Africa, America non permettano questo massacro.


Nella somma delle esperienze in Sea Shepherd, le va di raccontarci di una sua soddisfazione e di una frustrazione?
Nonostante le lotte e gli sforzi comuni, è una grande frustrazione quando non riusciamo a salvare la vita a coloro che noi chiamiamo, “nostri clienti”: ai Delfini di Taiji, le Balene in Antartica, gli Squali nel Parco Marino delle Galapagos, i Globicefali alle isole Fær Øer e ogni altra forma di vita nei nostri Oceani. Nondimeno, la mia frustrazione è svanita quando (a 12 anni, appena), sono andato a denunciare l'uccisione illegale delle Balene, in una trasmissione di una radio locale.

E' completamente scomparsa il giorno in cui ho deciso d’agire attivamente in un processo di cambiamento affianco a Sea Shepherd Italia e all’equipaggio della “Flotta di Nettuno”, ottenendo la vittoria per le balene, presso la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aia.

La quale, il 31 marzo 2014, ha vincolato la propria decisione sul caso Australia contro Giappone, decretando che JARPA II, vale a dire, il Programma di caccia alle balene in Antartide perpetrata dal Giappone, non è a scopo di ricerca scientifica ma mera baleneria commerciale mascherata, e notificando, quindi, che tutti i permessi rilasciati al Programma JARPA II, fossero revocati dopo 25 anni.

Qualora il Giappone tornasse in Antartide per uccidere, noi saremo lì ad aspettarlo e fermarlo. La frustrazione di quando ero bambino, rimarrà un vago ricordo come per le Balene, l'arpione insanguinato dell'industria umana di un passato frustrante.

Si ringraziano Cristina Giusti e Sea Shepherd Italia






di Tania Careddu

Bisogni in aumento versus risorse pubbliche disponibili. E’ questa, in slogan, la situazione in cui si trovano, in Italia, i due milioni e mezzo di anziani non autosufficienti. I quali, per un qualche tipo di limitazione funzionale, gravano sulle famiglie. Sono esse che sopperiscono alle carenze strutturali dei servizi pubblici formali di assistenza, tramite contributi sia in termini di cure prestate sia in quelli economici, ricorrendo al pagamento di servizi privati.

Perché risale al 1988 l’estensione dell’indennità di accompagnamento agli ultrasessantacinquenni e, dopo un vuoto normativo di circa trent’anni e pesantissimi tagli nel biennio 2011-2012, solo nel 2015, il Fondo nazionale per le autosufficienze ha avuto una dotazione di quattrocento milioni di euro.

Eppure, la copertura dei servizi risente ancora di una forte frammentazione territoriale: fra regioni più virtuose e altre più avare, il dato ricorrente, leggibile fra le righe del Rapporto "L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia", curato dal Network Non Autosufficienza, è che tutte, anche alla luce della solita vecchia dicotomia tra settentrione e meridione, sono investite da un trend negativo.

A fronte dei bassi livelli di copertura dell’assistenza continuativa formale - vedi l’assistenza domiciliare integrata, più generosa al Sud, i servizi di assistenza domiciliare e i presidi residenziali - lo Stato si trincera dietro la concessione dell’indennità di accompagnamento, che rimane lo strumento prevalente di copertura per gli anziani non autosufficienti, soprattutto al Centro-Sud, aumentata solo, però, per effetto degli adeguamenti inflazionari. Con esiti, quindi, deludenti: il numero dei beneficiari è in contrazione.

Tanto che il settore pubblico destinato all’uopo è necessariamente (inter)dipendente e certamente complementare con quello privato delle cure informali. Un famigliare (preferibilmente) o un assistente (badante) forniscono, facendo ricorso a tutti gli strumenti loro disponibili, il principale supporto: domestico, di accompagnamento, di aiuto nelle pratiche burocratiche e sociali.

Con un conseguente (obbligato) calo dell’utenza che si rivolge ai servizi pubblici e la tendenza al ridimensionamento dell’offerta: nell’accesso ai primi, infatti, le risposte tendono a concentrarsi verso i casi più gravi e, quanto al contenuto degli interventi, persiste la difficoltà dei gestori ad assicurare assistenza secondo standard adeguati al bisogno.

Portando così le famiglie degli anziani a trovare risposte anche attraverso un uso distorsivo dei servizi formali. E a sostenere costi diretti (per le spese di cura) e indiretti (aumentando doverosamente il tempo dedicato a loro con la conseguente diminuzione del tempo lavorativo) che pesano sulla qualità della vita dei figli adulti.

Insomma: la condizione di non autosufficienza degli anziani in carico alle famiglie rappresenta un fattore in grado di aumentare il rischio di povertà delle nuove generazioni (figli adulti, appunto). Che, allo stato attuale, possono ancora contare sulle pensioni delle vecchie generazioni accudite. E poi, i posteri potranno contare sulle loro quando dovranno essere assistiti?

di Tania Careddu

Hanno garantito la riduzione delle importazioni di fonti fossili, del prezzo dell’energia elettrica e delle emissioni di gas serra. Questo però solo fino al 2013. Dopodiché, è arrivato il crollo. Nei due anni successivi, le energie pulite sono diminuite alla velocità della luce. Chi ne porta la responsabilità?

Andiamo con ordine: i governi (Monti e Letta, per la cronaca) che si sono succeduti fino a oggi hanno ridotto le possibilità di investimento nelle fonti rinnovabili fino a quando, nel 2012, sono cominciati i tagli per tutto il settore. Nel 2013 sono stati cancellati gli incentivi in conto energia per il solare fotovoltaico e quelli per la sostituzione dei tetti in amianto.

Negli ultimi venti mesi l’attuale governo, con il decreto ‘Spalma-incentivi’ - intervenuto in maniera retroattiva - si è espresso con nuove tasse per l’autoproduzione da fonti rinnovabili con regole penalizzanti per gli oneri di dispacciamento, giustificate con la non programmabilità delle energie pulite e con uno stop degli investimenti sugli incentivi alle rinnovabili non elettriche (ancora prima che entrasse in vigore il decreto che le regolamenta).

E così, le installazioni fotovoltaiche ed eoliche sono precipitate del 92 per cento. E pensare che il solare ha assicurato il 38 per cento dei consumi elettrici, salvando l’ambiente, creando migliaia di posti lavoro - sarebbero centomila gli occupati nelle diverse filiere - apportando vantaggi alle famiglie e alle imprese.

Tutte insieme, le fonti rinnovabili, riducono: la produzione da termoelettrico, ossia quella degli impianti più dannosi per il clima oltre che dipendenti da esportazioni; le importazioni dall’estero di fonti fossili, tipo gas, petrolio, carbone, usati nelle centrali elettriche; le emissioni di CO2; il costo dell’energia che permette di tagliare fuori l’offerta delle centrali più costose, le quali vendono e producono energia da petrolio, carbone e gas.

Ma, riducendo il prezzo dell’energia elettrica, aumentano la concorrenza. E i grandi gruppi non ci stanno. Dettano legge all’Esecutivo. Con le seguenti conseguenze, riportate nel dossier di Legambiente ‘Stop alle rinnovabili in Italia’: nel 2011, la Robin tax viene estesa anche alle società operanti nel settore delle rinnovabili; nel 2012, un nuovo decreto ministeriale di incentivo per le rinnovabili non fotovoltaiche con limiti alle installazioni, aste e registri.

Quindi, nel 2013, stop agli incentivi per il solare fotovoltaico attraverso il Conto Energia; nel 2014, l’approvazione del decreto ‘Spalma incentivi’ e oneri per autoconsumo e, qualche mese più tardi, arriva una nuova disciplina sbilanciamenti; nel 2015, ecco una nuova bozza di decreto di incentivo per le rinnovabili non fotovoltaiche.

Sempre nel 2015, qualche giorno fa, in occasione di Cop21, il governo ha affermato che l’Italia ha un piano investimenti di quattro miliardi di dollari. Denaro da investire da qui al 2020. E le nostre aziende? A detta del nostro premier, “da Eni a Enel, sono in prima fila”.

Detentori della leadership in molti settori delle rinnovabili, “hanno cambiato pelle” e sono diventate “protagoniste del rinnovamento”. Verso un futuro più pulito. Sarà così?


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